Glorie e poesie di un
mascalzone latino, l’autobiografia di Pino Daniele, scritta in
collaborazione con Mimmo Liguoro, fu pubblicata dalla Tullio Pironti
Editore nel 1994. Il quotidiano “il manifesto” ne pubblicò il
breve estratto dedicato a Troisi ed Eduardo che qui riprendo.
(S.L.L.)
Lo avevo conosciuto
quando faceva parte del gruppo La smorfia, alla trasmissione No
stop. Ma, stranamente, mi sembrò, e forse sembrò a tutti e s
due, di esserci già incontrati. Dove? Nella regione impalpabile del
cervello e dei sentimenti. Non è forse vero che «primma ’e d’
’o tiempo all’uocchie», ’o core già s’è fatto avanti?
Sentivamo che tutti e due ci eravamo incamminati lungo la stessa
strada. Essere napoletani era per noi un ancoraggio formidabile, ma
poi bisognava sganciare la cima e navigare in mare aperto. Pur
essendo legato non solo sentimentalmente a Napoli, io mi sento, per
dir così, universale, cioè senza limiti per la mia ricerca
artistica, per le verifiche, incontri, proiezioni dell’interesse
culturale verso altri climi, altre realtà.
La scommessa è quella di
conservare il modo di essere napoletani (radici, valori essenziali,
consapevolezza dell’appartenenza) con l’apertura alle esperienze
che vengono vissute, nel campo che ti riguarda, anche nel resto del
mondo. Io e Massimo, ciascuno a modo suo, inseguivamo questa
scommessa.
Un giorno, ricordo,
eravamo in viaggio per Viareggio. Gli avevo chiesto di aiutarmi per
un video (...) Aiutarmi, cioè offrirmi qualche spunto. E lui subito,
in macchina, si mise a scrivere. Dopo pochissimo tempo (eravamo
arrivati al passo della Cisa) era pronto il testo della canzone
T'aggia vede’ morta. Arrivati a Viareggio, fui preso -
naturalmente - dal desiderio di vedere il mare. E arrivati sulla
spiaggia, mi tolsi scarpe e calzini, mi arrotolai il pantalone sulle
caviglie e cominciai a passeggiare dove le onde si sdraiavano lente
sulla sabbia. In quelle condizioni, era chiaro a tutti i presenti che
non avevo assolutamente l’aria di chi volesse o potesse affondare
nell’acqua, neppure per due centimetri. E invece Massimo, fingendo
preoccupazione per le mie sorti, s’avvicinò calmo ma solenne e,
come se si rivolgesse a uno pronto a tuffarsi, mi disse:
«Nunt’alluntana’, eh...».
Ci vedevamo spesso, e più
spesso ci sentivamo al telefono. Mi stette vicino, quando subii
l’intervento. Una presenza assidua e discreta, che mi ha aiutato
non poco a riprendermi e a ricredere nel futuro. Quel singolare
rapporto nostro, cresciuto su una sintonia di fondo, preesistente
alla nostra conoscenza diretta, è andato avanti fino alla sua morte.
E, non è retorica, per me dura ancora. Voglio dire, semplicemente,
che per me è come se Massimo fosse ancora vivo e presente nelle mie
giornate. Faccio fìnta che «ce simmo appiccecati», che abbiamo
litigato, e che per questa minima ragione non ci vediamo più. Con la
consapevolezza che poi questa banale ragione sarà superata. (...)
Quando penso a Troisi attore e autore, mi viene in mente Eduardo De
Filippo. Io e Massimo ci siamo riferiti al modo di sentire,
desiderare, pensare di una generazione recente. Eduardo è lo scalino
precedente di una grande scala che parte da molto lontano ed è
proiettata ancora in avanti, verso un inafferrabile orizzonte. Tante
famiglie napoletane (e non solo quelle napoletane) degli anni della
mia infanzia si identificavano in Eduardo e nei suoi personaggi.
Quando compariva in televisione, io ricordo bene, per le strade c’era
il deserto. Dalle finestre socchiuse, dai balconi con le persiane
accostate, dai «bassi» metà aperti e metà chiusi, veniva fuori
quella luce azzurrognola della televisione di sera, quando intorno è
buio. E si sentiva quella voce che si lasciava andare a un monologo,
o duettava indispettita, o ragionava con tono pacato. Chi non la
ricorda? «Vedete quanto poco ci vuole per fare felice un uomo: ’na
tazzulella ’e café fuori dal balcone, all’aria fresca...»: il
protagonista di Questi fantasmi esorcizzava la paura degli
spettri (o era paura della vita?) parlando col dirimpettaio, ’o
prufessore, che lo scrutava e, in fondo, lo tenevasotto esame. Quando
lo conobbi, Eduardo mi disse che gli piaceva la mia canzone ’Na
tazzulella ’e café, del 1977. E certo, in questa sua
preferenza doveva esserci un forte riflesso di quel suo pezzo
teatrale, in cui la tazzina di caffè, la macchinetta col beccuccio,
gli espedienti semplici ma geniali per rendere il caffè più
aromatico, diventano i simboli di un antico modo di vivere. Tra
spaventi, sospetti, colpi di scena, fulmini e apparizioni finte,
resta giusto il tempo per bere una «tazzulella» di caffè: è
l’unica parentesi serena: come ci vuole poco...(...)
De Filippo ha
rappresentato un secolo di cultura e vita del popolo napoletano. Un
periodo in cui, senza le sue commedie, si sarebbe forse perduta ogni
traccia, dal vivere quotidiano ai valori e alle disavventure sociali.
Se fosse possibile, paragonerei Eduardo a Miles Davis. Perché?
Perché Davis è stato il più grande musicista di questo secolo,
secondo me. (...). Eduardo, riassumendo la
grande lezione del teatro napoletano, ha portato sulle scene
l’attualità, i problemi dell’uomo contemporaneo, i suoi
tormenti, le sue piccole gioie e le insidie che ogni minuto lo
circondano. E ha dato a tutti un filo di tela da tessere, soprattutto
agli artisti più giovani. Così, io mi sento «in continuità» con
la sua presenza culturale, devo molto a lui come ad altri personaggi
che hanno esercitato un’enorme influenza sul modo di concepire il
rapporto con l’ispirazione artistica e col pubblico. Se io posso
essere il testimone di una generazione che, al di là delle
contaminazioni, si è mossa e si muove nel fiume di quella che
chiamano «napoletanità», allora non posso dimenticare quanto a me
è venuto dagli esempi di persone come Eduardo o, per altri motivi,
come Sergio Bruni o Roberto Murolo.
il manifesto, 11 novembre 1994
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