Molti anni fa, in un’intervista in
cui si parlava d’altro, una signora mi raccontò la seguente
storia. Il giorno del suo matrimonio, mi disse, dopo essere andato a
casa con la sposa, mio bisnonno uscì per andare a comprare da
mangiare. Mentre era in strada, passò di lì Garibaldi con la sua
truppa. Mio bisnonno si scordò della spesa e della sposa, si aggregò
a loro, andò a liberare l’Italia e tornò a casa solo quattro anni
dopo.
Il 17 marzo, in una trasmissione
radiofonica sull’unità d’Italia, si parlava del rapporto fra
storia e metafora, e a me è venuto in mente che tutta la narrazione
di questi giorni si regge su una metafora: Risorgimento - qualcosa
che torna a vivere. E allora ho pensato anche a quello che dice Toni
Morrison: ogni cosa morta che torna a vivere duole. Non capiamo il
significato stesso della parola “risorgimento” se non ci
domandiamo dov’è che questa cosa, tornando a vivere, duole.
In questo ci può aiutare la memoria –
non tanto quella consolidata di libri, celebrazioni e musei (che
vanno benissimo) ma quella più sotterranea e inafferrabile che passa
per le famiglie, per le narrazioni private e familiari. Un’altra
signora, anche lei discendente di garibaldini: mio nonno si doveva
fare prete, e venne via dal convento. Si dette alla macchia, stava
nel bosco e per il bosco passò Garibaldi, e andò con Garibaldi”.
In ogni “nascita di una nazione” c’è un momento di rottura e
un momento di ricomposizione – è la dinamica americana di
rivoluzione\costituzione, e forse anche la nostra,
risorgimento\unità. In tutte le narrazioni familiari che ho
ascoltato, andare con Garibaldi comincia con una rottura – con la
famiglia (due fratelli ternani “si arruolarono con Garibaldi di
nascosto dai genitori: lasciarono una lettera e andarono tutti con
Garibaldi”), con la chiesa (la figlia di un partigiano ucciso alle
Ardeatine raccontava di un nonno anche lui scappato dal seminario per
andare con Garibaldi), con l’ordine costituito: il parroco che mi
fece la prima comunione mi disse anni dopo che i garibaldini erano
“gente un pochino esaltata, senza regolarità di cose”, seguaci
di “un brigante fortunato”. Una pronipote mi spiegava che in
famiglia sono molto fieri delle amicizie del bisnonno con Mazzini e
Garibaldi, ma tendono a minimizzare il fatto che per queste amicizie
fece anni di galera. Un antenato eroe va bene, un antenato galeotto
un po’ meno; ma – ed è questa la dialettica della nascita delle
nazioni – si è galeotti e briganti prima di essere eroi.
Ogni nascita di nazione è costituzione
di un nuovo ordine ma anche traumatica rottura e violazione di un
ordine precedente; e come spesso nei traumi, la coscienza si
organizza per esorcizzarlo. Qui ci aiuta anche quella forma speciale
di memoria che è la letteratura. Il vero racconto della rivoluzione
americana è Rip Van Winkle di Washington Irving, in cui il
protagonista si addormenta prima della rivoluzione e si sveglia
vent’anni dopo, a cose fatte. Ma una storia del genere c’è anche
nella letteratura italiana: si chiama Mastro Domenico (1871),
dello scrittore toscano di Narciso Feliciano Pelosini, e racconta di
un personaggio che si addormenta del Granducato di Toscana e si
sveglia anni dopo nel Regno d’Italia. Da un ordine a un ordine,
esorcizzando il trauma del doloroso e disordinato ri\sorgimento.
In tanti di questi racconti familiari
Garibaldi “passa di lì”. È stato ascoltandoli che ho capito
perché non c’è luogo dove non ci sia una lapide con scritto “qui
ha dormito Garibaldi”: perché Garibaldi l’Italia se l’è fatta
davvero tutta, da Quarto al Volturno, da Roma a Ravenna,
dall’Aspromonte a Bezzecca. Quest’eroe brigante in viaggio che
aggrega seguaci estemporanei è davvero un personaggio “on the
road”, e pure coi capelli lunghi (ha scritto Omar Calabrese che la
figura letteraria che più gli somiglia è Sandokan – un pirata,
appunto, e un combattente antimperialista). Poi gli fanno il
monumento, ma varrà pure la pena di ricordarci che “Garibaldi fu
ferito”. E da chi.
Delle tre R maiuscole che scandiscono
la nostra storia – Rinascimento, Risorgimento, Resistenza – solo
la resistenza, non è una metafora (anche se hanno provato a negarla
con un’altra metafora, quella della “morte della patria” l’8
settembre), perché i partigiani hanno resistito letteralmente. E
infatti in questi giorni dovremmo tenere ben presente che quelli che
a riempirsi la bocca di Patria sono stati proprio quelli che nel 1943
l’hanno spaccata in due, fra Brindisi e Salò. Per rimettere
insieme l’Italia ci sono voluti i partigiani: li chiamavano banditi
(“siamo i briganti della montagna”); ma tanti di loro si
chiamarono “garibaldini”.
il manifesto 18 marzo 2011
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