Cab Calloway se ne è andato. È morto venerdì a Wilmington (Delaware) nella casa di cura in cui era
ricoverato dopo l’ictus cerebrale dello scorso giugno. Aveva 86
anni e un fìsico sempre più debole. Te ne accorgevi già nell’85
quando Cab interpretò se stesso in Cotton club, il film di
Coppola. È stato un artista fondamentale; e non solo dal punto di
vista iconografico (l’abito zoot) o musicale (jump music, jump
jive). Ma soprattutto in ambito vocale. Senza Cab il black english,
il tratto linguistico distintivo dei neri non sarebbe stato lo
stesso. Senza Cab tanti rapper non avrebbero avuto la rima sciolta,
scioltissima. Negli anni ’30 lo chiamavano «superdude»,
superfico, il nero imprendibile, inafferrabile, teppistello di strada
prima e poi performer a 360°.
«Vai al Cotton»
In quegli anni il pubblico bianco
correva al Cotton Club di Harlem per sentire la sua orchestra,
«vederlo» cantare Minnie the moocher, il suo massimo «pièce de
resistance». Da quel momento fioccarono registrazioni e programmi
radio. Dopo aver affiancato al Cotton Duke Ellington (il Duca si
riposava e entrava l’orchestra di Cab), Calloway si prese tutto il
palcoscenico. Che musica. Basta riascoltarsi 16 Cab Calloway
classics. 1939-41 (Epic) per capire chi è stato. Per assaggiare
quella voce da tenore istrionico che guidava il pubblico
all’isterismo. È stato Calloway il primo a formalizzare la poetica
del «singalong», botte e risposte cantate per minuti e minuti tra
artista e pubblico. Lui faceva «hi-de-hi» e dietro la gente a
rifargli il verso. E non solo al Cotton.
L’uomo in zoot bianco immacolato, con
quel vestito/maschera dalla giacca lunga fino al ginocchio, pantalone
a palloncino e capello extra large, chiedeva all’orchestra di
seguirlo ovunque; e via nelle orecchie classici come The lady with
the fan, Za-zu-zaz, Chop-chop Charlie chan, Hotcha
razz-ma-tazz. Ma è solo nel ’38 che Cab formalizza per
iscritto il suo codice linguistico. In quell’anno esce The new
Cab Callo-way’s hipster dictionary, un libriccino che spiega
come parlare per essere hip(ster), alla moda, in. Cab lo scrive e
questa è la grande intuizione politica dell’artista. Lo scrive per
i bianchi, li batte sul loro stesso terreno, la scrittura, la
«cultura». Lo dedica agli hipster descritti da Norman Mailer in
Pubblicità per me stesso o In un sogno americano.
Bianchi che parlavano, agivano, si muovevano, si drogavano come i
neri, fingevano - consciamente o inconsciamente - di sentirsi come
loro. Peccato che la sera avevano un tetto dove riposare e quella
pelle bianca che li rendeva intoccabili, garantiti; Cab, Charlie
Parker e gli altri, invece, restavano sempre Parker e gli altri,
sempre neri.
Calloway scrive il dizionario per i
bianchi, i neri già parlavano come lui o sapevano sempre come attingere a quel grande serbatoio di
erudizione orale che sta al cuore della cultura afro-americana. E nel libro spiega cos’è il jive scat,
come si differenzia dallo scat formalizzato negli anni ’20 da
Armstrong o dal linguaggio del minstrel show (spettacolo-parodia dei
neri del sud in voga negli Usa dalla metà dell’800). Cab non
riprende pedissequamente la lezione di Armstrong, non sostituisce le
parole con suoni onomatopeici che imitano i caratteri di certi
strumenti ma conia frasi, gioca sul nonsense. Musica l’inconscio,
l’apparente ignoranza linguistica dei neri. Come lui faranno il
pianista-chitarrista Slim Gaillard (inventore del «vout»), immenso
manipolatore linguistico, il comico Pigmeat Markham e Eddie Jefferson
che già in ambito bebop aveva dato forma al «vocalese», altra
derivazione dello scat.
Impossibile, dunque, separare parole e
musica dalla vita di Calloway. Insieme all’altosassofonista/cantante
Louis Jordan Cab formalizzò la jump music; era uno stile rutilante
caratterizzato perlopiù da tenorsassofonisti (gli honker) impazziti,
da piccole orchestre che rifacevano il verso alle big band e si
proponevano di «far saltare il blues». Il genere è alle radici del
rock’n’roll e anticipa il r&b nel senso più codificato del
termine.
Fratello blues
Per questo Calloway è splendido nel
film Blues brothers. È lui il maestro, solo lui. Peccato che
i «brothers» Belushi e Dan Akroyd non se ne accorgano, siano
imbarazzantemente bianchi e troppo pieni di sé. Quando nel finale
del film Cab intona Minnie the moocher la telecamera indugia
soprattutto sui due rivelando una indifferenza di fondo se non una
mancanza di rispetto per il talento del performer. Calloway, insomma,
risulta solo un riempitivo. Sempre in ambito cinematografico fu lui
nel film Porgy and bess (’52) a farsi chiamare Sportin’
Life e non è un caso che l'ultimo disco di Diamanda Galàs e John
Paul Jones (ex Led Zep) si chiami così.
Nel film Stormy weather del ’43
Cab dimostrava la grandezza dell’entertainer nero. Cionostante è
stato spesso accusato «dal basso» di aver amplificato e avallato la
sindrome del «negro entertainer» (il nero sa solo ballare, è un
pagliaccio/selvaggio con cui divertirsi e basta); non fu solo così.
Per quanto manipolato «servì» come valvola di sfogo per tutti quei
neri affogati nella grande Depressione e per quelli che negli anni
’40 sarebbero stati mandati in guerra in prima fila. E non è un
caso che Calloway è uno dei performer più rispettati e amati della
storia della cultura afro-americana. E ci piace ricordarlo con una
frase che Ornette Coleman ripete spesso: «Sono già nero, non devo
dimostrare a nessuno di esserlo. Nella mia vita ho solo cercato di
migliorare la mia personalità per adeguarmi a qualsiasi ambiente».
il manifesto domenica 20 novembre 1994
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