Si parla molto delle
cosiddette specie esotiche invasive. Stabilitesi nel nuovo
habitat, esse causano l’estinzione di altre specie, facendo variare
significativamente gli ecosistemi naturali preesistenti. Nella lunga
lista di colpevoli pubblicata dalle autorità che tutelano la
biodiversità manca però una specie, di origine africana, che è
riuscita in tempi relativamente brevi a invadere l’intero pianeta:
Homo sapiens. Su come questo sia potuto accadere, e con quale
impatto ambientale, cominciamo ora a farci un’idea, ma esistono
ancora molti punti oscuri.
Nel libro Una specie
imprevista (il Mulino), il paleontologo Henry Gee ci consiglia di
non basarci troppo su quanto archiviato nei pochi resti fossili
disponibili per azzardare ipotesi ardite sulla natura e sulle origini
umane, e ci ricorda che la nostra evoluzione ha avuto moti aspetti
contingenti e casuali. Non saremmo per niente speciali, se
confrontati con altri animali. E molte altre specie hanno avuto un
grande impatto sull’ambiente, ad esempio i batteri, a cominciare da
miliardi di anni fa. In base alle sue considerazioni, quindi, non
dovremmo illuderci di essere particolarmente invasivi.
Di parere opposto è il
noto scienziato cognitivo Philip Lieberman (La specie
imprevedibile, Carocci) che usa la paleoantropologia,
l’archeologia e le neuroscienze per dimostrare la nostra unicità.
Secondo Lieberman, tra le cose che ci rendono speciali vi è la
flessibilità con cui ci relazioniamo con i nostri simili, basata
sull’ambivalenza della nostra natura cooperativa e competitiva.
Discutendo questo tema nel libro Humans (Springer), scritto con
Patrizia Tiberi Vipraio, sostengo che sia stato proprio questo
carattere a renderci tanto invasivi.
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Ad ogni modo, speciali o
no, non possiamo non restare impressionati dallo spiazzamento operato
dalla nostra specie, nei confronti di moltissime altre, in poche
decine di migliaia di anni. Quello che era solo un piccolo gruppo di
primati bipedi glabri e con un grande cervello è stato capace di
espandersi e modificare globalmente l’ambiente del pianeta, con la
sua flora e la sua fauna.
Direttamente o
indirettamente, abbiamo anche causato, probabilmente, l’estinzione
di tutte le altre specie umane che vivevano come noi durante la fine
dell’ultima era glaciale: perfino degli Hobbit. Non stiamo
ovviamente parlando dei nanerottoli nati dalla fantasia di Tolkien,
ma della specie umana scoperta nel 2004 nell’isola di Flores, in
Indonesia. Nell’enorme grotta di Liang Bua, a dieci metri di
profondità, furono trovati i resti di esseri straordinari. Alti meno
di un metro, con piedi piatti enormi, lunghe braccia e un cervello di
dimensioni simili a quello di uno scimpanzé, essi presentavano
tuttavia molte caratteristiche umane. Ad esempio lavoravano la
pietra, producendo strumenti per cacciare topi giganti, elefanti nani
e perfino quegli enormi varani i cui discendenti si possono ancora
ammirare nelle vicinanze.
Secondo uno studio
recentemente pubblicato su «Nature» ora sappiamo che essi si
estinsero tra 50 e 60 mila anni fa, proprio in concomitanza con il
nostro arrivo in quella regione. Ma siamo stati proprio noi i
colpevoli? «Anche se non abbiamo ancora la pallottola che ha fatto
fuori gli Hobbit — dice ai giornalisti uno degli autori
dell’articolo — abbiamo però trovato la pistola fumante».
Questa specie, nota anche come Homo floresiensis, era
sopravvissuta su quell’isola durante almeno due ere glaciali. Si
discute se si fosse evoluta localmente o provenisse anch’essa
dall’Africa.
Noi Sapiens,
invece, eravamo sicuramente di origine africana. Il nostro viaggio
verso Oriente era durato centinaia di generazioni. Alti e snelli,
dipinti con colori e disegni elaborati, usavamo armi con punte
micidiali che potevano colpire a distanza. Eppure la nostra
pericolosità non era meramente tecnologica; si nascondeva anche
nella capacità di immaginare mondi diversi, rispetto a quello
osservato, e di aderire a credi, stili di vita e norme di
comportamento che ci univano intorno alla stessa «cultura». Essa ci
permetteva di formare gruppi ampi e coordinati. Questo ci rendeva una
specie particolarmente pericolosa.
È possibile che anche
l’uomo di Denisova compaia fra le nostre vittime. Questa specie
trae il suo nome dalla caverna siberiana in cui, nel 2010, furono
trovati alcuni suoi resti: la falange di un dito mignolo e due denti.
Anche questa specie si estingue dopo il nostro passaggio. E che ciò
sia accaduto dopo, e non prima di incontrarci, è provato dal fatto
che con loro abbiamo avuto alcuni incroci genetici, di cui resta
traccia nel Dna delle popolazioni attuali in Oceania e nel Sud-est
asiatico.
La storia delle
estinzioni che coincidono con il nostro arrivo sembra ripetersi di
continuo, e questo riguarda non solo altre specie umane, ma anche
molte specie animali di media e grossa taglia. Con il tempo, gruppi
di Sapiens attraversarono l’ultimo tratto di mare che li
separava dal continente australiano. Dal registro archeologico
sappiamo che per milioni di anni enormi animali erano vissuti
indisturbati su quel continente, passando attraverso molte ere
glaciali. Si trattava di giganteschi marsupiali con il muso da
cammello (diprotodonti), uccelli senz’ali di una tonnellata (
genyornis ) e varani di 7 metri ( megalania ), solo per fare alcuni
esempi. Tutti scompaiono con il nostro arrivo.
In soli duemila anni si
estinguono 23 su 24 specie conosciute superiori a 50 chili e molte
altre specie di peso inferiore. Generando vasti incendi per cacciare,
modificammo l’intera struttura della catena alimentare del
continente. Si è cercato di attribuire questo disastro ai
cambiamenti climatici, ma le scoperte archeologiche e paleoclimatiche
più recenti confermano la nostra responsabilità. E non sempre si
può indicare la caccia indiscriminata come prima causa delle
estinzioni. Ad esempio, gli abbondantissimi frammenti dei loro gusci
d’uovo bruciati, rinvenuti in tutto il continente, indicano come
abbiamo fatto a provocare l’estinzione di Genyornis , 47 mila anni
fa. Non è stato solo attraverso la caccia e la distruzione del loro
habitat; è stato soprattutto cibandosi delle loro enormi uova.
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Pochi millenni dopo,
circa 45 mila anni fa, altri Sapiens arrivarono in Europa,
dove da tempo vivevano i nostri «cugini» Neanderthal. Essi erano
passati attraverso varie ere glaciali in un’area che andava dalla
Spagna alla Siberia, fino al Medio Oriente. Le datazioni di centinaia
di campioni provenienti da molti siti archeologici ci dicono che la
nostra convivenza con loro sarebbe stata inferiore a 3 mila anni: un
periodo relativamente breve, trattandosi di un’altra specie umana
molto antica e ben acclimatata. La sostituzione dei Neanderthal da
parte nostra è proceduta con uno schema a mosaico che ha accentuato
l’allontanamento delle diverse comunità di Neanderthal le une
dalle altre.
Gli ultimi residui della
loro cultura spariscono dal registro archeologico circa 40 mila anni
fa. Ma tracce del loro Dna sono oggi presenti in tutti noi Sapiens
usciti dall’Africa, in una proporzione che va dal 2 al 4%. Già
prima del nostro arrivo, i Neanderthal avevano comunque subito una
profonda crisi demografica, riducendosi a non più di 70 mila
individui, suddivisi in piccoli gruppi lontani e isolati fra loro.
C’è chi sostiene che l’estinzione dei Neanderthal sia avvenuta
perché abbiamo sottratto loro le risorse per sopravvivere. Ma non si
può dubitare che fosse già in funzione l’esercizio esagerato
della violenza che ha portato noi Sapiens così spesso al
genocidio. Per ora non esistono comunque prove della nostra
responsabilità diretta nella loro fine.
Storie simili si possono
raccontare per le Americhe, dove, in assenza di altre specie umane,
esisteva una meravigliosa biodiversità nei grandi mammiferi dell’era
glaciale. Il loro destino era comunque segnato. Con la comparsa dei
primi Sapiens, arrivati da Nord attraverso l’attuale Alaska, circa
15 mila anni fa, in poco tempo scompaiono la tigre dai denti a
sciabola, cammelli ed elefanti arcaici, e innumerevoli specie di
bisonti. In tutto, in Nord America spariscono 34 su 37 generi di
grandi mammiferi e in Sud America 50 su 60 generi.
In tempi più recenti,
sempre in coincidenza con il nostro arrivo, si estinguono tutte
quelle specie che non avevano imparato a temerci: nei Caraibi il
bradipo gigante (5 mila anni fa), in Madagascar il gigantesco uccello
elefante, Aepyornis maximus (2 mila anni fa), in Nuova Zelanda
i grandi uccelli moa (800 anni fa), nelle isole Mauritius il dodo,
Raphus cucullatus (500 anni fa). Le estinzioni dei grandi
animali in Africa e in Eurasia hanno avuto un andamento più lento,
poiché in questi casi gli animali si sono evoluti con noi, imparando
a temerci. Ciò nonostante si calcola che molti di essi si
estingueranno entro questo secolo. Secondo il Wwf, anche se non
conosciamo con precisione il numero delle specie che si estinguono
annualmente, sappiamo che oggi è minacciato il 23% dei mammiferi e
il 12% degli uccelli.
Ormai ogni zona del mondo
subisce i danni delle attività umane: dall’introduzione di dannose
specie aliene al commercio illegale di specie protette, dalla
distruzione degli habitat naturali ai cambiamenti climatici. Andando
avanti di questo passo, alla fine, resteremo solo noi Sapiens? Certo
che no! Oltre ai pochi fortunati cui non prestiamo attenzione, saremo
in buona compagnia di mucche, polli, maiali, cani, gatti e di quei
pochi animali che ci saranno utili per l’alimentazione e lo svago.
Più gli insetti. Più ovviamente le nostre «creature»: i robot.
“Corrieredella sera -
La Lettura”, 22 maggio 2016
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