Nell'estate del 1991,
come lettura d'agosto “il manifesto” commissionò ad un gruppo di
suoi collaboratori, più o meno illustri, una serie d'articoli,
ciascuno dedicato ad una invenzione o innovazione del Novecento che
andava a morire intitolata Un secolo in pezzi.
Alla macchina fotocopiatrice, inventata da Chester Floyd Carlson, è
dedicato il testo che segue, opera di Remo Cesarani, italianista e
comparatista, noto soprattutto per un innovativo corso scolastico di
letteratura italiana, assai diffuso negli anni Ottanta del secolo
scorso, dal titolo emblematico Il materiale e
l'immaginario. (S.L.L.)
Ornella Vanoni testimonial nel 1961 di una delle prime Rank Xerox prodotte per l'Italia |
Fotocopie d'identità
per esseri ubiqui
Ricordo abbastanza bene
quando sono arrivate fra noi le prime macchine fotocopiatrici. che la
Rank-Xerox aveva brevettato e messo sul mercato, e dava a nolo
mantenendo la proprietà della macchina e facendo pagare a chi la
noleggiava un tanto alla copia. Erano macchine alte, grige e
mastodontiche, e facevano pensare ai mammuth. a cui la leggenda
attribuisce una memoria straordinariamente capace. Assomigliavano un
po' a dei banconi di ferramenta, un po' a grossi armadi con i
cassetti. Si mettevano in moto a stento, dopo essersi ben bene
.arroventate e se si sbirciava all'interno, si vedevano lampade
accese e specchi che ruotavano rumorosamente ogni volta che si
cambiava il formato della carta. Erano i primi anni '60: un altro
degli aspetti della nostra vita (la capacità di memorizzare e
riprodurre i testi che scriviamo, ci scambiamo, archiviamo nei nostri
scaffali), un altro dei settori del nostro immaginario stavano
cambiando.
All’origine del
cambiamento, come in ogni buona favola americana, c’era la storia
di un uomo e della sua fortuna. Ce la racconta con gusto narrativo e
con straordinaria curiosità conoscitiva tradotta immediatamente in
segno grafico il disegnatore anglo-americano David Macaulay nel
bellissimo The Way Things Work, il libro sul «mondo delle
macchine, dalla leva al laser, dall’automobile al computer» che
egli ha pubblicato nel 1988 e che è stato tradotto anche in
italiano, da Mondadori. L’uomo di cui parla la favola era un
inventore nato a Seattle, di nome Chester Floyd Carlson (1906-68),
che lavorava nell’ufficio brevetti di una grande ditta di
elettronica. Negli anni ’30, Carlson viveva a New York, era felice
del suo lavoro, eccetto che per una cosa: il tempo e i soldi che
doveva sprecare ogni volta che, per ragioni di ufficio, doveva fare
delle copie fotografiche, dei «duplicati» dei suoi brevetti.
Carlson si sentiva così
frustrato da quel modo tanto dispendioso di fare copie fotografiche
dei suoi brevetti che decise di inventare lui stesso un nuovo
procedimento e di aggiungere così un brevetto a quelli che erano
protetti dal suo ufficio. La prima copia su carta fu realizzata il 22
ottobre 1938. 11 procedimento prese il nome di xerografia, scrittura
a secco, dal greco «xeros», secco.
Si trattava di un
procedimento semplice, basato sulla possibilità di fissare su un
foglio di carta normale, avvolto attorno a un tamburo, una polvere di
selenio ivi posatasi attraverso un processo elettrostatico. mediante
attivazione di cariche elettriche prodotte in corrispondenza dei
punti e li-
nee dell’originale
quando questo fosse stato investito e attraversato da una sorgente
luminosa.
Ci vollero un po’ di
anni, un’oculata gestione del brevetto e la fondazione della Haloid
Company, poi divenuta la Xerox Corporation, e la fusione di questa
con l’inglese Rank. specializzata in macchine per ufficio. perché
le prime macchine xerocopiatrici apparissero sul mercato nel 1958.
Carlson accumulò una grossa fortuna. Il mondo ebbe a disposizione
una nuova ingegnosissima macchina. I giapponesi, che dell’arte di
copiare (o fotocopiare) i brevetti sono maestri, hanno a loro volta
invaso il mercato con macchine, ma sempre più versatili, piccole,
capaci di impicciolire e ingrandire, copiare a colori, rimescolare o
distribuire le copie. La Rank Xerox, a sua volta, ha prodotto
macchine fotocopiatrici di tutti i tipi e possibilità e, dopo
qualche anno di crisi, è riuscita a restare un colosso economico.
La vita degli uffici, e
soprattutto di quelli che presiedono all’organizzazione manageriale
della produzione e distribuzione e di quelli addetti alla
comunicazione, alla progettazione grafica, alla produzione editoriale
e culturale è cambiata radicalmente: il parco delle macchine addette
alla produzione, riproduzione e duplicazione dei messaggi si è
arricchito di una nuova e importante protagonista, accanto ad altre
già presenti o che stavano per arrivare ad affiancarla: la macchina
da scrivere, il ciclostile (con i vari nomi di stencil, mimeografo,
ectografo, litografo basato su un procedimento diverso da quello
xerografico), l’elaboratore elettronico e la stampante a aghi,
termografica o laser, il microfilm, la microfiche, il CD-Rom con
1’archivio elettronico, il collegamento per telefono o video con la
banca dati, il fax e il modem per la trasmissione di testi a
distanza.
Negli uffici queste
macchine, con al centro la fedele foto-copiatrice, hanno imposto la
loro presenza, cambiato modi di scrivere, memorizzare, comunicare,
cambiato anche i modi di vivere e i rapporti di chi negli uffici
lavora, dando origine, sul piano degli studi, a una branca
particolare della sociologia, battezzata dai ricercatori canadesi
«office folklore» o «photocopy folklore», che si occupa proprio
di quei mutamenti. Un bell’esempio di «photocopy folklore» lo si
è visto in una breve scena, ironica e amara, del film di De Palma Il
falò delle vanità (tratto dal romanzo di Tom Wolfe): la scena
ha per sfondo un party chiassoso in un ufficio newyorchese e al
centro una giovane impiegata che si toglie le mutandine e si adagia
su una fotocopiatrice per fare un duplicato della propria fica e
mandare quel simulacro elettronico in omaggio all’uomo che l’ha
tradita.
Dagli uffici le macchine
si sono poi disseminate in tanti altri settori della nostra vita
sociale: il facile mezzo di duplicazione e moltiplicazione è entrato
nelle amministrazioni statali e comunali, le anagrafi, gli studi dei
notai, una volta accettato dal codice civile il principio che «le
copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle
autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da
pubblico ufficiale»; le città si sono popolate di copisterie; le
biblioteche si sono riempite di fotocopiatrici a moneta. a gettone, a
tessera elettronica. Il nostro modo di produrre e comunicare
documenti e messaggi, di esplorare e conservare le scritture del
passato, è stato trasformato dai nuovi mezzi. La fedele
fotocopiatrice ha agito in profondo, senza troppa esibizione di sé;
il ciclostile è riuscito a imporsi, nella pratica quotidiana, come
protagonista del folclore e dell’immaginario collettivo del ’68,
disperatamente ed eroicamente riproducendo volantini, guastandosi
drammaticamente sul più bello, sporcando di inchiostri i suoi
insonni operatori; il fax è divenuto il simbolo della solidarietà
comunicativa del movimento studentesco delle Pantere negli
anniversari di altre gloriose rivoluzioni, duplicandole con
coraggiosa improntitudine e con qualche disinvolta leggerezza.
Possiamo fare, a
proposito del «folclore xerografico», qualche non troppo
impegnativa riflessione?
A me pare che le
generazioni che hanno conosciuto l’introduzione nella loro vita di
macchine come quelle di cui sto parlando si sono generalmente
comportate in modo diverso da quelle che hanno visto, nell’800 e
nella prima metà del 900, l’introduzione di tante altre macchine,
da quelle a vapore, alla macchina fotografica, alle tante macchine
elettriche. Nel momento alto della modernità ogni nuova macchina
veniva accolta con entusiasmo o con ostilità aggressiva, ma sempre
con curiosità, e con una voglia di sapere come funzionava (la stessa
voglia che si coglie nel libro di Macaulay, il quale penetra con i
suoi disegni dentro le macchine, ne svela il funzionamento e dimostra
così di appartenere come si addice a un insegnante del Risdi di
Providence, erede delle tante Bauhaus, ancora e totalmente al mondo
della modernità). I nostri nonni e i nostri padri a ogni nuovo
marchingegno, anche piccolo (un pelapatate elettrico, un trapano, una
calcolatrice), reagivano con una voglia di sapere, di conoscere il
signor Carlson di turno, di smontare l’aggeggio per tirarne fuori
l’anima e il segreto miracoloso.
La mia impressione è che
già un po’ la mia generazione, ma soprattutto quelle che sono
seguite, e quella nuovissima, accolgano ogni innovazione con
indifferenza, quasi le fosse dovuta. quasi non facesse che rendere
possibile delle potenzialità già previste. Di cosa ci sia dietro le
nuove macchine, di come funzionino, di quali conseguenze abbiano sul
nostro apparato sensibile e sul mondo naturale che ci circonda non
gliene importa quasi nulla. Tutti fanno fotocopie e quasi nessuno sa
niente né dei materiali semiconduttori né dei fenomeni
elettrostatici. Il libro di Macaulay lo sfogliano come se fosse una
raccolta di favole.
Il procedimento di
duplicazione istantanea, di riproduzione all’infinito di copie
consentito dalle macchine della Rank-Xerox e dalle molte imitazioni
ha probabilmente cambiato alcuni settori importanti della nostra
attività di memorizzazione e comunicazione. Quando studiosi come
Jean Baudrillard e Fredric Jameson parlano dell’importanza che ha
l’elemento del «simulacro» nella nostra cultura, probabilmente
uno dei modi per visualizzare questa loro idea è proprio anche
quello di pensare ai processi di riproduzione elettrica o elettronica
delle immagini e delle scritture (ma si può, naturalmente, anche
ragionare in modo antropologico e pensare alla figura del «doppio»
nella mitologia e nell’iconologia antiche, a cominciare da quella
storia di Elena che non di persona ma attraverso una propria copia, o
simulacro, aveva partecipato alla guerra di Troia).
Quando schiere di
studiosi e di studenti affollano le macchine fotocopiatrici delle
biblioteche e si illudono, un po’ magicamente, che fotocopiare le
pagine di un libro quasi equivale ad archiviarlo nella propria
memoria, il possederne una fotocopia quasi vale l’averlo letto e
assorbito nella propria mente, essi probabilmente non fanno altro che
ripetere, con assai minore consapevolezza e anche con assai minore
efficacia, alcune delle secolari tecniche (e utopie) di
memorizzazione di cui due anni fa hanno ricostruito splendidamente la
storia Pietro Corsi, Lina Bolzoni e altri in una memorabile mostra
fiorentina (poi trasferita a Parigi e altrove) intitolata appunto La
fabbrica dei pensiero (catalogo Electa).
Una spia della presenza
diffusa e al tempo stesso della scarsa concretezza e problematicità
che hanno le nuove macchine e i nuovi procedimenti presso le
generazioni odierne e i loro maestri del pensiero (se si eccettua
qualche nipotino di MacLuhan), la si ha se si studia il linguaggio
giornalistico odierno e la presenza frequente che in esso hanno
immagini tratte dal mondo della duplicazione elettronica. Basta una
campionatura tratta dai giornali di queste ultime settimane.
Parlando, per esempio, della vertenza sindacale dei giornalisti, ho
trovato spesso, a proposito dei progetti di produzione a catena, con
la tecnica delle sinergie, di fogli appartenenti allo stesso gruppo
editoriale, la denuncia del pericolo di avere dei giornali l’uno la
«fotocopia» dell’altro. A proposito delle discussioni sulle
riforme costituzionali, ho trovato, in molti interventi dei nuovi
aderenti all’ingegneria istituzionale, la denuncia del nostro
sistema bicamerale come di un sistema in cui una camera è la
«fotocopia» dell’altra. In occasione del recente dibattito al
parlamento sul messaggio di Cossiga, avendo Craxi prima minacciato un
intervento durissimo e poi avendo egli cestinato la parte dirompente,
Massimo D’Alema, che ha una lingua maligna, ha osservato che Craxi,
in questa occasione, ha presentato nell’aula di Montecitorio «la
fotocopia di se stesso».
Si tratta di immagini e
metafore che segnalano un minimo di presenza dei nuovi procedimenti
nel nostro pensiero e nel nostro linguaggio; e tuttavia si tratta di
immagini forse un po’ troppo vaghe, un po’ troppo deboli e
passive. Ci vorrebbe, perlomeno. uno scatto metaforico ulteriore, un
po’ di investimento creativo.
Non credo che sarebbe
difficile. Si potrebbe, per esempio, pensare in termini xerografici
ai modi di operare, dentro l’industria della comunicazione
culturale, di un personaggio prestigioso come Furio Colombo. Ecco
infatti che, mentre egli dirige con suprema competenza la scuola di
giornalismo della «New York University» e fa lezione ai suoi
studenti, c’è una sua fotocopia che, con perfetta simultaneità,
scrive un articolo su come si fa il giornalista nel nostro mondo
multimediale e multisoggettivo (e multixerocopico) per «Problemi
dell’informazione»; contemporaneamente un’altra sua fotocopia
scrive un articolo per la Stampa sulla morte di Isaac Singer ed è un
articolo, dal punto di vista del mestiere giornalistico, esemplare:
l’autore ha impiegato almeno tre ore per imparare l’yiddish, due
per leggere il nuovo libro di Singer su Max Barabander, mezz’ora
per scrivere concretamente il pezzo. Ma intanto ecco che un’altra
xerocopia di lui fa il direttore dell’Istituto italiano di cultura
di New York (dove una seconda xerocopia, nella persona del vecchio
direttore dell’istituto di cultura, si occupa delle cose
burocratiche e cerca di tenere in piedi la baracca); un’altra sua
xerocopia dirige la Fiat Usa; un’altra concede un’intervista a
Rai2 e un'altra ancora prepara un programma culturale per Rai 3.
Con l’invenzione della
xerocopia i vasti spazi della comunicazione culturale e multimediale
sono attraversati con velocità e simultaneità da continui fenomeni
di duplicazione sinergia.
"il manifesto", 28 agosto 1991
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