29.7.17

Vecchie inglesi (Aldo Palazzeschi)

Mia Firenze, lontano o vicino potrò mai separare dalla tua immagine queste creature che gli occhi videro fra le prime cose, quelle che non è facile dimenticare?
Coi rami dei frutti in fiore, una bracciata di roselline, di glicine o di lillà, anemoni, narcisi, fresie, ranuncoli, primole, ginestre, ciclami, giunchiglie viole, e rose, rose, rose nelle mattine di primavera così leggère che si direbbe fuggita l’aria per lasciarti passare, nei tramonti rossi d’autunno, mentre la luce si addensa attardandosi sulle vecchie pietre, si culla sull’acqua verde dell’Arno, e nel pensiero crescono i fantasmi dei secoli fino a confondersi nel bagliore dei fanali che si accendono lungo le spallette; sul Ponte Vecchio, pei rivoletti e i crocicchi d’Oltrarno, pel Lungarno Acciaioli e sotto le logge degli Archibusieri, in Por Santa Maria fino al Porcellino; correndo con una brocca in mano o un candeliere, un boccale, una lucernina, una cornice; difendendo gelose l’ala dorata di un angelo annunziatore; ferme sotto un arco, vicino ad una porta umile e piccola ma che ti incute soggezione; sedute sullo scalino d’una chiesa o fisse sulle armonie inaspettate che ad ogni svolto ti offrono le architetture che salgono e discendono intagliandosi sullo sfondo del cielo coll’ultima luce dell’occaso.
Vecchie inglesi. Vecchie perché legate dal tempo e dall’amore a vecchie cose, quelle che ci legano insieme a un pezzettino di questa terra; e più per l’atteggiamento spirituale che pone il vostro esile corpo al disopra dei tempi e dell’età. Lontane dal vostro paese, forse troppo realistico e grigio per voi, vestite fuor delle mode, fra queste mura fuori del tempo, dove tutto pare fatto e concluso, dove sembra che nulla si possa cambiare o aggiungere e non rimanga che guardare, trovaste il paradiso dello spirito inquieto, o almeno il carnevale. Firenze fu per voi un bell’Apollo imbalsamato di cui vi faceste una religione.
I fiorentini, lo sanno tutti ormai e si può dire, sono sempre stati poco teneri col prossimo, difficilmente rinunziano a quel frizzo che fino dai tempi antichi in questa terra sale rapido dal cuore alla punta della lingua così frequente, e che il labbro è incapace di trattenere; non per malvagità, bene il contrario, ma per il gusto, segno di civiltà consumata anche se in questo traffico possono sembrare più civili che umani, di scavare il riso profondo, magari dalle cose più gravi e fastidiose, alleggerendole, volgendole da un lato migliore; e farne parte agli altri generosamente come di un tesoro comune.
Il riso fa buon sangue, ed è il profumo della vita in un popolo civile.
La farmacia inglese a Firenza
Ebbene gli inglesi furono sempre lasciati in pace a Firenze, poterono vivere come vollero, amare quello che piacque loro di amare, quasi offrendo il salvacondotto dell’ilarità in cambio del loro amore. Soltanto dai quartieri più popolosi d’Oltrarno, campo delle loro gesta, il martedì grasso giungevano nei quartieri del centro comitive di ragazzi camuffati da inglesi, con cappelli di paglia e lunghi veli ciondoloni, e cenci addosso d’ogni specie e colore; avevano ombrelli, valige, gabbie, borsette e canocchiali a tracolla. Percorrevano le vie principali molleggiandosi sulle gambe, e ripetendo un’unica parola: yes, fra il popolo plaudente.
La loro vita era campestre fra le mura cittadine, le abitudini semplici e signorili, le loro case adornate sobriamente di belle cose toscane autentiche, scelte o scovate con amorevole cura quando ancora non erano apprezzate da noi; vi si poteva incontrare qualche vecchio signore inappuntabile e qualche giovane un po’ evanescente, coi quali tenevano conversazioni da educande all’ora del tè, ridendo a squarciagola di facezie, spiritosaggini o galanterie insignificanti (era sempre fra i convitati un cane pareggiato, col fazzolettino cifrato nel taschino della giacchetta) e discutendo gravemente di cose in cui non tutti avremmo saputo riconoscere la gravità.
Vivevano... senza mangiare, cibandosi di nonnulla, dolciumi, fruita, verdure, marmellate; e il loro abbigliamento era quale l’ambiente aveva saputo ispirare; e che se a prima vista poteva disorientare l’osservatore pacifico e un pochino poltrone, non era difficile rintracciarne le provenienze legittime richiamandosi alla chiese e alle gallerie, chiostri musei e cappelle. Sacerdoti all’altare? Chierici, toreador, farfalle, paggi? Contadine della provincia di Siena? Forosette o villanelle di Montughi e di Careggi? Dame cinquecentesche, regine, armigeri, Re magi, arcangeli? E non di rado molte di queste cose insieme. Anne? Marie? Gioconde? Eleonore? Simonette? Lucrezie? O sotto veli vaporosissimi, anche nei rigori dell’inverno, si contorceva un poco castamente il corpicciuolo, simili a quelle donzelle dal collo lungo lungo e un pochino torto, e gravide di fiori, che si ammirano tanto nei quadri di Sandro Botticelli. Voi mi capite bene, non è più agevole lo stabilire una volta invasi i campi della fantasia e rovesciato il giogo della legge. La loro età? Anche ottuagenarie, colla pelle appiccicata sulle ossa come cartapecora, con parrucche e dentiere, erano ancora bambine.
Queste donne ch’io vedevo tutti i giorni, e così diverse da quelle del mio paese colle quali non avevano nel portamento nel volto e nel costume nulla in comune, pure vivendo fra esse con la più grande dimestichezza senza comunicare, furono una delle prime attrazioni dell’infanzia; la mia curiosità era acuita dalla loro varietà e bizzaria che le affratellava. E m’accorgevo insieme che se i miei sguardi eran chiamati da esse con tanto fervore, quelli di mia madre, al cui fianco camminavo per le strade, non avevano per esse un tremito, un tocco, una sosta, quasi non ci fossero state; tanto da dovermi domandare quale arte impiegasse per non accorgersi di loro fino a quel punto: erano fuori discussione e avrebbero potuto circolar nude o colle gambe in su, coperte col manto di Creso o di giornali vecchi, di cenci da lume: non sarebbero riuscite a farsi notare. Mentre non mi sfuggiva di quali occhiate palesi o furtive voracissime gratificasse le borghesi concittadine, cercando di scrutarne ogni dettaglio della veste, e giungendo a voltarsi un pochino cedendo alla tentazione, o mostrando chiaro il dispetto di non avere un occhio anche di dietro per poterle guardar meglio. E ricordo bene un fatto che valse a illuminarmi maggiormente: aveva un giorno mia madre indossalo un vestito nuovo, e incontrando per via una conoscente s’era fermata con essa a scambiare qualche parola; quella si credè in dovere di coprirla di elogi con alquanta untuosità: «Com’è carina, come sta bene, che bel vestito, sembra una forestiera». Per quel fluido naturale che correva fra mia madre e me, non mi restò difficile l’accorgermi che i complimenti non le erano andati giù, e lasciata la elogiatrice la sentivo rimuginare dentro qualcosa; e la osservavo fare sforzi sovrumani, camminando o sostando un poco, per potersi vedere nelle vetrine delle botteghe. Giunti a casa ella rimase per un quarto d’ora davanti allo specchio, volgendosi e rivolgendosi, cercandosi e sopra e sotto e da ogni lato, e aiutandosi con un secondo specchio per vedersi dietro, facendo alcuni passi e osservandosi camminare; finché non si decise a spogliarsi quasi prendendo una risoluzione non del tutto sicura, e gettando via la roba con vaga inquietudine. Le dolcezze della conoscente nascondevano dunque un veleno?
Oggi io posso tranquillamente ricostruire con le parole il pensiero di mia madre quel giorno per la via, davanti allo specchio e togliendosi il vestito. «Una forestiera». Che cosa voleva dire a Firenze sembrare una forestiera? Chi erano le forestiere di quel tempo? Le vecchie inglesi. Ne venivano, è vero, altre che vivevano nei grandi alberghi e passavano dentro carrozze quasi inavvertite, come meteore, erano dame distintissime ed eleganti e che, se mai, risaltavan per un eccesso di semplicità, di sobrietà nel vestire, e che appena era dato di notare alla sfuggita; le forestiere vere, che tutti conoscevano a sazietà come persone della famiglia, eran le inglesi di Firenze, quelle che s’ incontravano sempre giubilanti e fresche, coi fasci dell’erba e i tronchi degli alberi, che anche le pietre conoscevano e nessuno guardava più. «Una forestiera?» Che cosa c’era dunque di così orrendo e di cattivo gusto o di bislacco nel suo vestito, o quale insidia nelle parole della conoscente per essere rassomigliata a una di quelle scimunite, quelle befane, quelle rificolone, a uno di quei soggetti da carnevale?
Tale era l’inquietudine di mia madre quel giorno, e tale, o press’a poco, il pregio in cui le borghesi indigene usavano tenere le zelatrici della bellezza.
Abitavano i piccoli quartieri suggestivi della città antica, con finestre alte e terrazzi sul fiume o sopra i tetti; davanzali fioriti e loggette da cui fare all’amore un po’ con essa, se disponevano di mezzi limitati o modesti. C’erano poi le ricche, che si stabilivano nelle ville storiche e suntuose dei dintorni, prendendole in affitto o acquistandole direttamente, e dove vivevano realizzando ogni segreta aspirazione. Poco a poco nei parchi e nei giardini li espandevano le piante quasi volessero coprire il mondo di felicità; gli uccelli vi si rifugiavano da ogni parte, diventavano passerai, mèta di stormi, concerto di usignoli, e vi facevano il nido sempre più basso; i merli le ghiandaie e le capinere finivano per farlo all’altezza degli occhi umani, tanto da poterci guardar dentro elevandosi sulla punta del piede senza recar timore o molestia; le rondini dentro la casa addirittura. Tutte le bestie divenivano meno timide e scontrose; i cani, i gatti, ammansivano la loro crudeltà o prepotenza, e gonfi di cibo si sdraiavano al sole rinunziando a nuocere per puro istinto di sopraffazione; cercando di non giuocarsi il posto alla leggera. Una convivenza pacifica, amalgamata dall’amore delle protettrici, si stabiliva fra gli animali d’ogni specie: ragni, topi, tartarughe, chiocciole, lucertole, vermi, insetti, nessuno escluso; e se accadeva il crimine fra essi la cosa assumeva importanza decisiva: una vera e propria inchiesta veniva aperta fra i domestici che fingevano di prendere sul serio l’accaduto, e funzionava una corte di giustizia per punire il colpevole od emendarlo. Anche la morte assumeva aspetto sereno e imponente, si facevano bare di legni pregevoli, con le coltri di seta e di velluto, e sepolture dolcissime fra le rose. Erano generalmente due, amiche o sorelle, o dama e damigella di compagnia, zitelle quasi sempre e in là con gli anni; se no, vedove o in stato di divorzio: gli uomini sempre al bando da questo genere di vita. La sera, in un salone principesco, fra grappoli di candele ardenti o lumi a olio, e uno sciame di domestici impettiti nelle livree, sedevano ima di fronte all’altra in gran toilette, quasi in silenzio a una mensa lussuosissima che ne stabiliva il tenore, il rango e l’etichetta, pur nella vita semplice della campagna.
[…]


Stampe dell'800, Vallecchi, 1943

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