Mia Firenze, lontano o
vicino potrò mai separare dalla tua immagine queste creature che gli
occhi videro fra le prime cose, quelle che non è facile dimenticare?
Coi rami dei frutti in
fiore, una bracciata di roselline, di glicine o di lillà, anemoni,
narcisi, fresie, ranuncoli, primole, ginestre, ciclami, giunchiglie
viole, e rose, rose, rose nelle mattine di primavera così leggère
che si direbbe fuggita l’aria per lasciarti passare, nei tramonti
rossi d’autunno, mentre la luce si addensa attardandosi sulle
vecchie pietre, si culla sull’acqua verde dell’Arno, e nel
pensiero crescono i fantasmi dei secoli fino a confondersi nel
bagliore dei fanali che si accendono lungo le spallette; sul Ponte
Vecchio, pei rivoletti e i crocicchi d’Oltrarno, pel Lungarno
Acciaioli e sotto le logge degli Archibusieri, in Por Santa Maria
fino al Porcellino; correndo con una brocca in mano o un candeliere,
un boccale, una lucernina, una cornice; difendendo gelose l’ala
dorata di un angelo annunziatore; ferme sotto un arco, vicino ad una
porta umile e piccola ma che ti incute soggezione; sedute sullo
scalino d’una chiesa o fisse sulle armonie inaspettate che ad ogni
svolto ti offrono le architetture che salgono e discendono
intagliandosi sullo sfondo del cielo coll’ultima luce dell’occaso.
Vecchie inglesi. Vecchie
perché legate dal tempo e dall’amore a vecchie cose, quelle che ci
legano insieme a un pezzettino di questa terra; e più per
l’atteggiamento spirituale che pone il vostro esile corpo al
disopra dei tempi e dell’età. Lontane dal vostro paese, forse
troppo realistico e grigio per voi, vestite fuor delle mode, fra
queste mura fuori del tempo, dove tutto pare fatto e concluso, dove
sembra che nulla si possa cambiare o aggiungere e non rimanga che
guardare, trovaste il paradiso dello spirito inquieto, o almeno il
carnevale. Firenze fu per voi un bell’Apollo imbalsamato di cui vi
faceste una religione.
I fiorentini, lo sanno
tutti ormai e si può dire, sono sempre stati poco teneri col
prossimo, difficilmente rinunziano a quel frizzo che fino dai tempi
antichi in questa terra sale rapido dal cuore alla punta della lingua
così frequente, e che il labbro è incapace di trattenere; non per
malvagità, bene il contrario, ma per il gusto, segno di civiltà
consumata anche se in questo traffico possono sembrare più civili
che umani, di scavare il riso profondo, magari dalle cose più
gravi e fastidiose, alleggerendole, volgendole da un lato migliore; e
farne parte agli altri generosamente come di un tesoro comune.
Il riso fa buon sangue,
ed è il profumo della vita in un popolo civile.
La farmacia inglese a Firenza |
Ebbene gli inglesi furono
sempre lasciati in pace a Firenze, poterono vivere come vollero,
amare quello che piacque loro di amare, quasi offrendo il
salvacondotto dell’ilarità in cambio del loro amore. Soltanto dai
quartieri più popolosi d’Oltrarno, campo delle loro gesta, il
martedì grasso giungevano nei quartieri del centro comitive di
ragazzi camuffati da inglesi, con cappelli di paglia e lunghi veli
ciondoloni, e cenci addosso d’ogni specie e colore; avevano
ombrelli, valige, gabbie, borsette e canocchiali a tracolla.
Percorrevano le vie principali molleggiandosi sulle gambe, e
ripetendo un’unica parola: yes, fra il popolo plaudente.
La loro vita era
campestre fra le mura cittadine, le abitudini semplici e signorili,
le loro case adornate sobriamente di belle cose toscane autentiche,
scelte o scovate con amorevole cura quando ancora non erano
apprezzate da noi; vi si poteva incontrare qualche vecchio signore
inappuntabile e qualche giovane un po’ evanescente, coi quali
tenevano conversazioni da educande all’ora del tè, ridendo a
squarciagola di facezie, spiritosaggini o galanterie insignificanti
(era sempre fra i convitati un cane pareggiato, col fazzolettino
cifrato nel taschino della giacchetta) e discutendo gravemente di
cose in cui non tutti avremmo saputo riconoscere la gravità.
Vivevano... senza
mangiare, cibandosi di nonnulla, dolciumi, fruita, verdure,
marmellate; e il loro abbigliamento era quale l’ambiente aveva
saputo ispirare; e che se a prima vista poteva disorientare
l’osservatore pacifico e un pochino poltrone, non era difficile
rintracciarne le provenienze legittime richiamandosi alla chiese e
alle gallerie, chiostri musei e cappelle. Sacerdoti all’altare?
Chierici, toreador, farfalle, paggi? Contadine della provincia di
Siena? Forosette o villanelle di Montughi e di Careggi? Dame
cinquecentesche, regine, armigeri, Re magi, arcangeli? E non di rado
molte di queste cose insieme. Anne? Marie? Gioconde? Eleonore?
Simonette? Lucrezie? O sotto veli vaporosissimi, anche nei rigori
dell’inverno, si contorceva un poco castamente il corpicciuolo,
simili a quelle donzelle dal collo lungo lungo e un pochino torto, e
gravide di fiori, che si ammirano tanto nei quadri di Sandro
Botticelli. Voi mi capite bene, non è più agevole lo stabilire una
volta invasi i campi della fantasia e rovesciato il giogo della
legge. La loro età? Anche ottuagenarie, colla pelle appiccicata
sulle ossa come cartapecora, con parrucche e dentiere, erano ancora
bambine.
Queste donne ch’io
vedevo tutti i giorni, e così diverse da quelle del mio paese colle
quali non avevano nel portamento nel volto e nel costume nulla in
comune, pure vivendo fra esse con la più grande dimestichezza senza
comunicare, furono una delle prime attrazioni dell’infanzia; la mia
curiosità era acuita dalla loro varietà e bizzaria che le
affratellava. E m’accorgevo insieme che se i miei sguardi eran
chiamati da esse con tanto fervore, quelli di mia madre, al cui
fianco camminavo per le strade, non avevano per esse un tremito, un
tocco, una sosta, quasi non ci fossero state; tanto da dovermi
domandare quale arte impiegasse per non accorgersi di loro fino a
quel punto: erano fuori discussione e avrebbero potuto circolar nude
o colle gambe in su, coperte col manto di Creso o di giornali vecchi,
di cenci da lume: non sarebbero riuscite a farsi notare. Mentre non
mi sfuggiva di quali occhiate palesi o furtive voracissime
gratificasse le borghesi concittadine, cercando di scrutarne ogni
dettaglio della veste, e giungendo a voltarsi un pochino cedendo alla
tentazione, o mostrando chiaro il dispetto di non avere un occhio
anche di dietro per poterle guardar meglio. E ricordo bene un fatto
che valse a illuminarmi maggiormente: aveva un giorno mia madre
indossalo un vestito nuovo, e incontrando per via una conoscente
s’era fermata con essa a scambiare qualche parola; quella si credè
in dovere di coprirla di elogi con alquanta untuosità: «Com’è
carina, come sta bene, che bel vestito, sembra una forestiera». Per
quel fluido naturale che correva fra mia madre e me, non mi restò
difficile l’accorgermi che i complimenti non le erano andati giù,
e lasciata la elogiatrice la sentivo rimuginare dentro qualcosa; e la
osservavo fare sforzi sovrumani, camminando o sostando un poco, per
potersi vedere nelle vetrine delle botteghe. Giunti a casa ella
rimase per un quarto d’ora davanti allo specchio, volgendosi e
rivolgendosi, cercandosi e sopra e sotto e da ogni lato, e aiutandosi
con un secondo specchio per vedersi dietro, facendo alcuni passi e
osservandosi camminare; finché non si decise a spogliarsi quasi
prendendo una risoluzione non del tutto sicura, e gettando via la
roba con vaga inquietudine. Le dolcezze della conoscente nascondevano
dunque un veleno?
Oggi io posso
tranquillamente ricostruire con le parole il pensiero di mia madre
quel giorno per la via, davanti allo specchio e togliendosi il
vestito. «Una forestiera». Che cosa voleva dire a Firenze sembrare
una forestiera? Chi erano le forestiere di quel tempo? Le vecchie
inglesi. Ne venivano, è vero, altre che vivevano nei grandi alberghi
e passavano dentro carrozze quasi inavvertite, come meteore, erano
dame distintissime ed eleganti e che, se mai, risaltavan per un
eccesso di semplicità, di sobrietà nel vestire, e che appena era
dato di notare alla sfuggita; le forestiere vere, che tutti
conoscevano a sazietà come persone della famiglia, eran le inglesi
di Firenze, quelle che s’ incontravano sempre giubilanti e fresche,
coi fasci dell’erba e i tronchi degli alberi, che anche le pietre
conoscevano e nessuno guardava più. «Una forestiera?» Che cosa
c’era dunque di così orrendo e di cattivo gusto o di bislacco nel
suo vestito, o quale insidia nelle parole della conoscente per essere
rassomigliata a una di quelle scimunite, quelle befane, quelle
rificolone, a uno di quei soggetti da carnevale?
Tale era l’inquietudine
di mia madre quel giorno, e tale, o press’a poco, il pregio in cui
le borghesi indigene usavano tenere le zelatrici della bellezza.
Abitavano i piccoli
quartieri suggestivi della città antica, con finestre alte e
terrazzi sul fiume o sopra i tetti; davanzali fioriti e loggette da
cui fare all’amore un po’ con essa, se disponevano di mezzi
limitati o modesti. C’erano poi le ricche, che si stabilivano nelle
ville storiche e suntuose dei dintorni, prendendole in affitto o
acquistandole direttamente, e dove vivevano realizzando ogni segreta
aspirazione. Poco a poco nei parchi e nei giardini li espandevano le
piante quasi volessero coprire il mondo di felicità; gli uccelli vi
si rifugiavano da ogni parte, diventavano passerai, mèta di stormi,
concerto di usignoli, e vi facevano il nido sempre più basso; i
merli le ghiandaie e le capinere finivano per farlo all’altezza
degli occhi umani, tanto da poterci guardar dentro elevandosi sulla
punta del piede senza recar timore o molestia; le rondini dentro la
casa addirittura. Tutte le bestie divenivano meno timide e scontrose;
i cani, i gatti, ammansivano la loro crudeltà o prepotenza, e gonfi
di cibo si sdraiavano al sole rinunziando a nuocere per puro istinto
di sopraffazione; cercando di non giuocarsi il posto alla leggera.
Una convivenza pacifica, amalgamata dall’amore delle protettrici,
si stabiliva fra gli animali d’ogni specie: ragni, topi,
tartarughe, chiocciole, lucertole, vermi, insetti, nessuno escluso; e
se accadeva il crimine fra essi la cosa assumeva importanza decisiva:
una vera e propria inchiesta veniva aperta fra i domestici che
fingevano di prendere sul serio l’accaduto, e funzionava una corte
di giustizia per punire il colpevole od emendarlo. Anche la morte
assumeva aspetto sereno e imponente, si facevano bare di legni
pregevoli, con le coltri di seta e di velluto, e sepolture dolcissime
fra le rose. Erano generalmente due, amiche o sorelle, o dama e
damigella di compagnia, zitelle quasi sempre e in là con gli anni;
se no, vedove o in stato di divorzio: gli uomini sempre al bando da
questo genere di vita. La sera, in un salone principesco, fra
grappoli di candele ardenti o lumi a olio, e uno sciame di domestici
impettiti nelle livree, sedevano ima di fronte all’altra in gran
toilette, quasi in silenzio a una mensa lussuosissima che ne
stabiliva il tenore, il rango e l’etichetta, pur nella vita
semplice della campagna.
[…]
Stampe dell'800,
Vallecchi, 1943
Nessun commento:
Posta un commento