NEW YORK, 1945. O 1984.
Oppure 1986: non importa. C'è un grande congresso internazionale di
scrittori; o di professori o di uomini di lettere: nemmeno questo
importa molto. Ad un certo punto qualcuno si alza, interrompe e
chiede: “Non potremmo sapere per favore quali sono le idee dello
scrittore di cui stiamo parlando?”. Ecco la domanda importante,
anche se sbagliata. Ma più importante ancora è la risposta del
Presidente di turno, riferita dalla scrittrice Francesca Duranti:
“Che cosa ci importa delle idee di uno scrittore: si chiami Walter
Scott, o Thomas Mann, o Joyce? Da quando in qua gli scrittori hanno
creato i loro romanzi servendosi delle loro idee? Gli scrittori sono
guidati soltanto dalle loro ossessioni”.
Valida, sempre in ogni
tempo e in ogni luogo questa distinzione è fondamentale per Balzac.
L'averla dimenicata o peggio, non averla presa in giusta
considerazione ci è costato caro. Ci è costato un lungo periodo di
rapporti faticosi, deludenti con questo prodigioso scrittore.
Guardavamo alle sue idee e ci sembravano come in effetti sono
francamente reazionarie. Dio, Patria, Famiglia. Soprattutto famiglia.
E prima di tutto il patrimonio familiare. Il denaro. L'argent.
Come diceva il critico Sainte-Beuve? Diceva che a considerare i
mucchi d'oro disseminati nei romanzi di Balzac si sarebbe tentati di
dire di lui come i veneziani di Marco Polo al suo ritorno dalla Cina:
Messer Milione. Però continuavamo a leggere i suoi romanzi e
continuavamo a trovarli affascinanti.
Di qui le emicranie che
ci hanno accompagnato per alcuni anni. Emicranie condivise con (e
ispirate da) critici illustri come Lukacs (gran produttore di
emicranie ideologiche, peraltro). Quindi: emicranie rispettabili. E
che tuttavia ci saremmo potuti evitare se solo avessimo badato come
avremmo dovuto meno alle idee ufficiali, ufficialmente dichiarate, e
più alle ossessioni più o meno segrete di Balzac. Ho davanti un
piccolo libro che si raccomanda alla nostra attenzione proprio per
questo. È l'Introduzione a Balzac scritta da un giovane
francesista dell' Università di Bari, Francesco Fiorentino, appena
pubblicata da Laterza. È una semplice guida. Di una guida ha
l'ordine e la completezza. Ma anche qualcosa di più. Almeno due
intuizioni felici. Sul carattere strategico-militaresco mai
semplicemente decorativo delle celebri descrizioni balzachiane. E sul
carattere di personaggi senza padre dei protagonisti dei suoi
romanzi.
E come potrebbe esserci
un padre nel mondo di Balzac? Il penultimo padre è stato Luigi XVI:
debole e incerto. Lo abbiamo decapitato. L'ultimo padre è stato lui,
Napoleone Bonaparte. L'imperatore glorioso e tirannico ci ha travolto
e tradito. Si apre qui automaticamente una piccola parentesi per
rammentare quello che già perfettamente sappiamo: che i personaggi
aggressivi di Balzac sono tutti chi più chi meno reincarnazioni del
Grande Corso. E lui stesso, Honoré de Balzac, scrittore di lungo
corso (la Comédie humaine consta di 27 romanzi, pubblicati
fra il 1830 e il 1845) fu trovato sul letto di morte che aveva il
volto violetto, quasi nero, la barba non fatta, i capelli ricci
tagliati corti, l'occhio aperto e fisso. Lo vedevo di profilo e
somigliava talmente all'Imperatore.... Come ebbe a scrivere Victor
Hugo in Choses vues.
E di quest'uomo che
andava a letto ogni sera dopo cena alle 19, si alzava alle tre di
notte per scrivere fino al mattino, tenendosi sveglio con il suo
celebre caffè (miscela di tre chicchi: bourbon, moka e martinique)
noi dovremmo esaminare le idee? Come se si trattasse di un matematico
o di un filosofo? Portiamoci invece a pagina 53 di questa preziosa
guida, dove Fiorentino scrive che tutta l'opera di Balzac si addensa
intorno a grandi nuclei tematici, che come vere e proprie ossessioni
non abbandonano mai il romanziere. Finalmente! Dobbiamo adesso
tentare di definirle, queste benedette ossessioni di Balzac: se sono
tante. Questa ossessione balzachiana: se è, come sospetto, una sola.
Lo faremo discostandoci un poco dalla linea interpretativa proposta
da Francesco Fiorentino. Non senza pagare un ultimo debito nei suoi
confronti. Per l'ultimo capitolo, in cui riassume in poche pagine il
percorso della critica letteraria su Balzac. C'è stato un primo
periodo in cui lo si è preso per un romanziere realista. Realista
lui! Ma se era uno scrittore evidentemente, spudoratamente
visionario? Ce ne ha convinto Albert Béguin con il suo Balzac
visionnaire del 1946. Ma l'aveva già capito Baudelaire a metà
Ottocento; quando aveva scoperto e scritto che in Balzac anche le
portinaie hanno del genio. In Balzac tutti (o quasi tutti) i
personaggi anche le portinaie dei grandi palazzi parigini hanno menti
fervide, passioni accese, gagliardi appetiti, ambizioni risolute,
energie straripanti. Che cosa vogliono? Vogliono affermarsi. Vogliono
conquistare il mondo. Con ogni mezzo. Con la pubblicità (proprio
così: con la pubblicità sfrontata di un nuovo olio che favorisce la
crescita dei capelli) se si chiamano César Birotteau. Con
l'ambizione sfrenata se sono i giornalisti delle Illusions
perdues. Con l'argent, in ogni caso. Quindi potremmo
riportare al centro del discorso il danaro, raccogliere quel
suggerimento di Sainte-Beuve e raccontare a noi stessi che ci siamo:
Balzac descrive dunque la vera rivoluzione francese; quello
scatenamento di appetiti voraci, insaziabili che ha fatto seguito
alla Rivoluzione Francese ufficiale. Che ha travolto tutti: dai
nobili ai giornalisti ai commercianti di olio (commestibile o per
capelli), alle portinaie. Tutti, anche Balzac. Si sa che tentò sia
pure goffamente di arricchirsi. E che non ci riuscì. Si dice che
dobbiamo a questo i suoi romanzi. Per nostra fortuna, si aggiunge.
Abbiamo perduto un imprenditore. Ci è rimasto uno scrittore.
Potremmo a questo punto tirare i remi in barca e dire che abbiamo
capito. Potremmo addirittura tentare di ricondurre Balzac e la sua
ossessione dentro un'interpretazione marxiana. Dunque: per lui come
per Marx è il danaro il primo motore non immobile dell'universo.
È il danaro
l'equivalente generale. Ma se così facessimo, ci accontenteremmo di
poco. C'è dell'altro. Questo danaro, questo argent
ammucchiato ed esibito in ogni romanzo forse è solo un falso scopo,
un sintomo deviante. Forse il vero motore dell'immaginazione
balzachiana è altrove. Prendiamo un romanzo come La ricerca
dell'assoluto. Una di quelle creazioni del Balzac non realista e
nemmeno visionario, ma addirittura metafisico al quale abbiamo
imparato a fare attenzione da qualche anno. Anche qui l'argent
è al centro della scena. Perché serve al protagonista, il nobile
fiammingo Balthazar Claes, che pur di procurarselo rovina prima la
moglie, poi le figlie. Ma non lo vuole per sé. Non lo vuole per
accumularlo. Né per investirlo. Lo vuole per finanziare un'idea che
ossessivamente lo brucia dentro. L'idea che si possa cercare una
pietra filosofale, un principio unificatore degli elementi.
L'elemento primo al quale ridurre, per via di esperimenti chimici,
l'azoto, l'ossigeno, il carbone, l'idrogeno. Perché ci deve pur
essere un principio unificatore, nell'universo. Forse c'è. Forse non
c'è. Non sarà comunque Balthazar Claes nobilmente, inutilmente
ossesso a scoprirlo. Non in questo romanzo. Al pari di Balthazar
Claes, anche Balzac pratica una sua ricerca dell'assoluto. All'
interno della quale il danaro è uno strumento, non un fine.
Non ci sono difatti nel
suo universo romanzesco soltanto i grandi ossessi dell'accumulazione
e della finanza. Ci sono anche le vittime. Non ci sono soltanto i
padri, perduti dietro il loro progetto espansivo, napoleonico. Come
il nobile fiammingo Balthazar Claes; come l'avaro di provincia,
Monsieur Grandet. Ci sono anche i loro figli. Più spesso, le loro
figlie. Che sono anche le loro vittime. Come Eugénie Grandet. Di cui
Balzac questo dice, nell'ultima pagina dell'omonimo romanzo: “Ecco
la storia di questa donna che non appartiene al mondo, anche se vive
nel mondo. Che fatta per essere una magnifica sposa, una splendida
madre, non ha né marito, né figli, né famiglia”. Come tutti i
romanzieri, Balzac è anche un antropologo. Come tutti i grandi
antropologi si chiede qual è il principio unificatore (se c'è)
dietro tanta diversità di culture e di atteggiamenti. Ricerca anche
lui ossessivamente un assoluto. Cerca di capire se c'è un elemento
primo comune all'avaro, spietato Grandet e alla sua delicata figlia.
All'ossesso chimico Claes e alle sue delicatissime figlie. A quelli
che riescono sempre, comunque ad accumulare e a vincere ed a quelli
(a quelle) che non ci riescono mai. Non perché sono inferiori.
Perché sono diversi. Non vogliono vincere. Vorrebbero, se fosse
possibile, soltanto vivere. Si ha l' impressione anche che per Balzac
la ricerca dell' assoluto si sia risolta in un clamoroso fallimento.
Non per colpa sua. Perché le persone (e i personaggi) di questo
mondo sono irrimediabilmente, dolorosamente diversi. Quel mitico
elemento comune fra loro forse non c'è.
“la Repubblica”, 9
agosto 1989
Nessun commento:
Posta un commento