Karl Polanyi (1886-1964)
è un intellettuale paradossale. Alcune delle diagnosi da lui
proposte sono fallite miseramente o hanno mostrato la loro fragilità
(per esempio: il fallimento dell’economia di mercato, oppure la
fine del mercato autoregolato. Idee che, rispettivamente, aprono e
chiudono la sua opera più nota, La grande trasformazione,
Einaudi). Ciò non toglie che il suo sforzo costante di leggere la
realtà immediata sia affascinante e dimostra che si può essere
smentiti dai fatti, pur vedendo correttamente i problemi che la
realtà sociale ed economica propone.
La raccolta di questi
scritti (Una società umana, un’umanità sociale. Scritti
1918-1963, Jaka Book, 2015), che copre l’intero arco della sua
produzione lo conferma.
Karl Polanyi visse con
difficoltà e sofferenza il restringimento degli orizzonti seguito
alla Prima guerra mondiale, alla grande crisi, al trionfo dei
totalitarismi, al clima della guerra fredda. Guardò con disincanto e
scetticismo l’innamoramento della sua generazione per il marxismo,
dottrina che vedeva inclinare verso il fideismo e convinzione
politica che egli già nel 1919 paragona alla Chiesa.
Ebbe la percezione che
una delle sfide che stavano di fronte alla crisi europea negli anni
20, crisi che un decennio dopo i totalitarismi avrebbero accentuato,
consisteva nel pensare e proporre una nuova idea di libertà che
tenesse conto del principio di responsabilità. Per Polanyi già
allora la vecchia questione tra libertà negativa e libertà positiva
- questione canonica proposta da Stuart Mill nel suo saggio La
libertà e poi in anni più vicini a noi illustrata magistralmente da
Isaiah Berlin - andava riformulata e poteva risolversi solo avendo
chiaro (scrive nel 1927) che essere libero «non significa esserlo
dal dovere ma tramite il dovere e la responsabilità». Una
convinzione che ripete dieci anni dopo, quando ribadisce che la
libertà autentica si misura nella condizione di accettare «la
nostra parte nel male comune» e consapevoli che la società perfetta
non esiste.
È da questa condizione
di disincanto e di delusione che egli colloca la marea montante del
fascismo nell’Europa degli anni 30 (non solo in Germania, ma anche
in Austria, Paese in cui è vissuto esule per molti anni dopo esser
fuggito dalla sua madrepatria, l’Ungheria). Un processo di
delegittimazione della democrazia che irrompe in Europa all'indomani
della Prima guerra mondiale e che a differenza di molti in quegli
anni egli non vede solo come «malessere italiano».
Ma anche intravede il
processo che inevitabilmente conduce Stalin al patto con Hitler nel
1939. Scelta che risponde a un principio di realpolitik, ma che
significa, anche, fine della presunta funzione di “guida” che
l’Urss ha incarnato o voluto rappresentare. «Ciò che l’episodio
Stalin-Hitler provò definitivamente fu che la rivoluzione russa
aveva superato la fase dell’effervescenza ideologica», scrive
riflettendo su quella decisione per molti scioccante.
Allo stesso tempo è
esemplare che egli colga nell’esperimento del governo laburista che
tra il 1945 e il 1950 struttura lo Stato sociale e avvia la
decolonizzazione, l’espressione di un Paese che vinta la guerra
prova a trasformarsi per davvero, apparentemente ingrato rispetto a
chi (Churchill) dalla guerra l’ha fatto riemergere. In politica,
osserva Polanyi, contala voglia di provare e di rompere con le
certezze. Un aspetto la cui eco è nelle note che nel 1945-1946
dedica al problema dell’istruzione per gli adulti, che non riduce
solo a formazione professionale, ma come impegno verso l’acquisizione
di una conoscenza generale.
Una riflessione che in
Italia, venti anni dopo, fu la battaglia, spesso in solitudine, di
Vittorio Foa.
“Domenica – Il Sole
24 Ore”, 22 maggio 2015
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