Lui non sa cosa sia la paura d'invecchiare. A 73 anni, dritto come un fuso e con lo sguardo ironico da ragazzino sfrontato, Gregory Peck è così. Nella vita e ancora di più in Old Gringo, il film di Luis Puenzo (che arriverà nelle sale italiane nei prossimi giorni) in cui il suo fascino inossidabile colpisce al cuore persino Jane Fonda.
La storia (riveduta e
correità) è quella di Ambros Bierce, giornalista e scrittore
americano, tra l'altro autore del sulfureo Dizionario del Diavolo,
che a settantanni suonati decide di andarsi a cercare la morte tra le
fiamme della rivoluzione messicana. Una morte inventata e scritta da
Carlos Fuentes in odio alla vecchiaia. Perché ormai Bierce è un
leone d'inverno che dopo una vita spesa a scrivere e polemizzare
preferisce chiudere la sua esistenza nell’eroica battaglia di un
popolo in rivolta, piuttosto che arrendersi a una torpida, tranquilla
vecchiaia.
Sempre divo Gregory Peck
si è calato in pieno nella complessa personalità del vecchio,
maledetto Ambros Bierce. Come ha fatto a sedurre Jane Fonda? Qual è
il segreto di un attore? Come è possibile identificarsi così nel
vecchio, maledetto, Bierce. Lui, con quel viso scolpito nella roccia,
risponde: «Forse ci sono riuscito perché avrei voluto possedere
quella sua vena sardonica, la capacità di bollare, coi suoi scritti,
ogni tipo d'ipocrisia e di colpire la menzogna ovunque, nel mondo
degli affari, in quello politico, sociale, religioso».
Però anche lei a
Hollywood si è fatto fama di bastian contrario.
«Non credo di essere un
misantropo iconoclasta come Ambros Bierce, e nemmeno di averlo
eguagliato in spirito, acutezza e indipendenza. È vero, non ho
scelto la strada più facile. Non ho mai firmato contratti a lungo
termine, per non diventare proprietà degli Studios. Non ho mai avuto
un addetto stampa, un vezzo che a Hollywood ti fa considerare
eretico. E ho fatto dei film che tutti mi avevano consigliato di non
fare».
Per esempio?
«Nel 1947 ho lavorato
con Elia Kazan in Barriera invisibile, la storia di un
giornalista che si finge ebreo per verificare i pregiudizi razziali.
In quegli anni tirava già aria di maccartismo e di caccia alle
streghe. Qualsiasi tipo di critica alla società americana poteva
costarti cara: rischiavi di finire sotto processo per comunismo e
attività antiamericane. Mi sentivo dire: "Se fai quel film la
gente penserà che sei ebreo”. "Tanto meglio”, rispondevo».
Si è mai schierato
politicamente?
«Mi considero un
democratico di sinistra e il presidente Nixon mi ha insignito di
un’onorificenza».
Quale?
«Mi ha messo nella lista
segreta (che poi saltò fuori) dei suoi nemici. Erano gli anni in cui
lui insisteva a bombardare il Nord Vietnam: non gli riusciva di
cancellarlo dalla carta. Un gruppo di giovani dalle parti di
Baltimora aveva bruciato in piazza le cartoline di precetto e per
questo vennero portati in giudizio. Il processo fu appassionante e
ispirò una pièce teatrale. Da quella io decisi di produrre un film:
uscì nel 1972, titolo The Trial of the Catonsville Nine.
Fatto il film, si presentò il problema di trovare i soldi per la
distribuzione. Agli Studios lo visionavano per farmi una cortesia, ma
poi dicevano: "Non è divertente”. Alla fine mi rivolsi a una
coppia di giovani produttori che si erano arricchiti con due colpi
magistrali: Il Padrino e Love Story. Dopo aver visto il
film erano commossi: "Greg, sono contento che tu abbia fatto
questo film, sono orgoglioso per te, queste cose dovevano essere
dette, il pubblico aveva diritto a un film come questo e vorrei che
fosse proiettato in tutti i cinema d’America”, ha esordito uno. E
l’altro ha concluso: ”Sì, ma non coi soldi nostri”».
Il film trovò una
distribuzione?
«Alla fine sì, ma la
gente non è andata a vederlo. Cose che capitano».
Una bella delusione.
Ha mai pensato alla politica come a una possibile alternativa al
cinema?
«Mi hanno rimproverato,
scherzosamente, di aver rifiutato la candidatura di governatore della
California, che i democratici mi avevano offerto un paio di volte.
Una carica che, per Reagan, ha costituito il trampolino di lancio
verso la presidenza. Ma il mio impegno nelle battaglie civili non
modifica il fatto che io, fondamentalmente, sia un attore. La vita
del politico è troppo piena di compromessi e di obblighi mondani. È
una prigione. Reagan era fatto per la politica. A me basta fare il
presidente Abramo Lincoln, come in quel film di otto puntate per la
televisione, il grigio e il blu, e alla fine ottenere buone
critiche».
Come attore, lei ha
dimostrato di condividere con lo scrittore Ambros Bierce il gusto
della sfida. Qual è stata la prova più dura questa volta? Correre a
cavallo alla sua età? Rendersi convincente come seduttore?
«Per quanto riguarda le
scene con Jane Fonda il merito è tutto suo. È una donna così
femminile e desiderabile... La cosa straordinaria è che lei, in
questo caso, era anche il leader, il motore del film. Lei ha
incoraggiato Fuentes a scrivere il libro, lei ha scelto Puenzo, un
regista argentino che sì, aveva vinto l’Oscar con La storia
ufficiale, ma che non si era mai misurato con una megaproduzione
americana. Lei ancora ha trovato i soldi, ha fatto costruire questi
set giganteschi. Ma poi eccola lì, sensibile, emozionata, ad
ascoltare i suggerimenti di un giovane regista, senza mai farti
pesare il suo ruolo. A una tale donna non c’è vulcano spento che
possa resistere».
Allora qual è stata
la cosa più difficile?
«La vera sfida è di far
uscire liberamente da te stesso le emozioni di un uomo vecchio, che
sente prossima la fine e l'affronta, piuttosto che fuggirla, ma
continua a provare un perverso desiderio di vita. Una sfida
complessa, perché Bierce non era semplicemente un uomo che ha
pianificato il suicidio. Lui era un vitalista e la sua era una
scommessa. Aveva già un piano pronto: nel caso fosse sopravvissuto
alla rivoluzione di Pancho Villa, si sarebbe spinto fino a Rio de
Janeiro e da lì si sarebbe imbarcato per l’Europa. Bierce era
fatto così: affrontava la morte come fosse una corsa a ostacoli».
Ma anche lei, con
quelle galoppate, a 73 anni. A proposito, è vero che da ragazzo ha
avuto problemi alla spina dorsale?
«Cavalcare non mi crea
nessun problema, a meno che non si tratti di cavalcare un pesce, come
in Moby Dick. Sembrava che la maledizione della balena bianca fosse
ricaduta su di me. Quando si girava l’ultima scena e io dovevo
inabissarmi con lei, rischiavo tutte le volte d’annegare. Una volta
s’alzò la tempesta, io ero sul dorso della balena, un isolotto di
gomma sdrucciolevole, la nebbia era fitta, le onde come palazzi, i
cavi si spezzarono. Stavo per fare la fine di Achab. E pensare che,
quando me la offrirono, quella parte mi sembrò un colpo di fortuna!
«Al contrario fu proprio
la disgrazia a cui accennava, l’incidente alla schiena, a portarmi
fortuna. Successe durante una lezione di danza. L’istruttore per
aiutarmi a raggiungere una certa posizione mi puntò un ginocchio
sulla spina dorsale. Che fece crac. Io ancora scricchiolavo quando
scoppiò la seconda guerra mondiale. Rifiutarono la mia domanda
d’arruolamento proprio mentre i più grossi attori venivano
richiamati sotto le armi. Fu allora che a Hollywood i produttori
diventarono indulgenti nei miei confronti».
Che ricordo ha di quei
leggendari anni del cinema americano?
«Non si aspetti una
rievocazione dei buoni vecchi tempi. Preferisco parlare del presente
e soprattutto del futuro».
Ma com’erano i
mitici produttori di allora, per esempio David Seltznick?
«Era uno che durante le
riprese della scena finale di Duello al sole, mentre io e
Jennifer Jones strisciavamo sulle pietre, feriti a morte, per
ricongiungerci nell’ultimo abbraccio, era capace di irrompere sulla
scena con un secchio di sangue.
«Perché aveva deciso
che non eravamo abbastanza insanguinati e così, di sua iniziativa,
ci spennellava a dovere. Quella volta il regista, King Vidor, gli
disse: ’’Va’ al diavolo, tu e il tuo film", poi montò
sulla Rolls e disse all’autista di portarlo via da quel posto. Per
finire il film Seltznick chiamò William Dieterle»,
E Darryl Zanuck?
«Nel 1950 ho fatto per
lui Romantico avventuriero, che era un western molto
realistico in cui alla fine il protagonista, un famoso pistolero,
moriva sparato alle spalle. Il regista era Henry King e Zanuck si
fidava di lui, ma quando vide il film in saletta di proiezione, dopo
la scena in cui un ragazzo, per coprirsi di gloria, mi spara nella
schiena, scoppiò un dramma. Zanuck cominciò a gridare in direzione
del ragazzo sullo schermo: ’’Prendi quel figlio di puttana e
fagli sputare sangue”. Poi tutto paonazzo, rivolto al regista:
’’Henry, devi fare qualcosa, non puoi farlo soltanto arrestare in
questo modo! Così nel finale Henry King si lasciò convincere a
introdurre un calcione, che lo sceriffo assesta alla faccia del baby
killer. E nel film vediamo il ragazzo che, alla lettera, sputa
sangue».
Parliamo ancora di un
altro tycoon di quegli anni: Louis B. Mayer.
«Lui era l’imperatore
della Metro. Quando entrai nel suo ufficio aveva già deciso di
mettermi sotto contratto. Mi puntò un grosso dito: ’’Guardami
negli occhi, figliolo". Pensai che erano occhi buoni. "Davanti
a te c’è un padre”, continuò. “Il padre di Clark Gable, di
Greta Garbo, di Robert Taylor”. Poi mi abbracciò mettendomi in
mano un contratto: "Firmalo e sarai il mio figlio prediletto!”.
Era un contratto per sette anni. Io gli dissi: "Posso firmare
per un film, ma non voglio impegnarmi per troppo tempo”. Lui mi
guardò come se lo avessi ferito a tradimento: ’’Figlio, non
distruggere la tua vita, non calpestare il futuro”. Si aggrappò al
mio collo piangendo lacrime vere. Io gli davo delle pacchette sulle
spalle: “Mi spiace, signor Mayer, ho promesso a me stesso che non
avrei... ”. “Sii uno dei miei figli”, insisteva. Quando si
accorse che non mollavo, tornò alla scrivania asciugandosi le gote
e, come se niente fosse, riprese una telefonata d affari lasciata in
sospeso».
Altri tempi. E i
produttori di oggi?
«Gli Studios oggi sono
gestiti da gente che non ha per il cinema una vera passione. Oggi si
produce cinema nello stesso modo in cui si potrebbero produrre
automobili. Fortunatamente ci sono ancora dei produttori
indipendenti, che considerano il film come la realizzazione personale
di un sogno. È da loro che ci possiamo ancora aspettare qualche
novità».
Lei ha detto che
preferisce parlare del presente. C'è qualcosa che oggi la preoccupa?
«Mi sento personalmente
colpito da ciò che sta succedendo ai giovani cinesi. Meno di due
anni fa mi trovavo in Cina per conto del governo americano, in
missione culturale. Quei poveri ragazzi vennero sottoposti alla
visione di cinque miei film, che non erano mai stati visti in Cina.
Erano rappresentati un po’ tutti i generi. C’erano Le
avventure del Capitano Hornblower e I cannoni di Navarone,
Il buio oltre la siepe, Vacanze romane e Gunfighter
(Romantico avventuriero). I film dovevano servire come pretesto per
confrontare le nostre esperienze, la nostra visione del mondo. Gli
incontri si svolgevano all’Istituto di politica ed economia, la
prestigiosa scuola da cui escono i futuri leader cinesi. Quei ragazzi
riuscirono a trasmettermi l’impressione che, a dispetto della sua
civiltà antica, la Cina sia un paese giovanissimo. Parlavano tutti
un inglese perfetto. Era stupefacente: si trattava di giovani
intelligentissimi, spiritosi, comici nelle loro osservazioni. E si
sentiva che erano sulla strada di un progresso accelerato. Si
avvertiva un forte bisogno di cambiamenti».
Quale dei suoi film è
piaciuto di più agli studenti cinesi?
Stranamente Il buio oltre la siepe, un film che ha avuto più successo in America che altrove, forse perché racconta dei problemi del razzismo nel Sud degli Stati Uniti, negli anni ’30. Loro parevano molto interessati. E poi Vacanze romane. Questa storia d’amore impossibile, tra una principessa e un semplice giornalista, colpiva la loro fantasia».
Stranamente Il buio oltre la siepe, un film che ha avuto più successo in America che altrove, forse perché racconta dei problemi del razzismo nel Sud degli Stati Uniti, negli anni ’30. Loro parevano molto interessati. E poi Vacanze romane. Questa storia d’amore impossibile, tra una principessa e un semplice giornalista, colpiva la loro fantasia».
Quando interpretò
Vacanze romane lei era ancora sposato con la sua prima moglie?
«Sì. Perché me lo
chiede?».
Perché tra lei e
Audrey Hepburn in quel film si percepisce una straordinaria alchimia.
«Sì. Ma lei non ha
avuto niente a che fare con la fine del mio matrimonio, che era già
in difficoltà da qualche anno. Il divorzio avvenne poco dopo il
film. Se è quello che vuol sapere: sì, naturalmente mi sono un po’
innamorato di Audrey facendo quel film».
Fu contraccambiato?
«Di queste cose non
parlo. Posso dire che quando si recita una storia d’amore può
capitare di confondere realtà e finzione. Audrey era una persona
talmente notevole che era difficile non cadere in confusione. Ma poi,
come nel film, la principessa ha un suo cammino già segnato e il
giornalista deve andare per la sua strada».
Qualche anno dopo,
però, un «principe» americano venne intervistato da una bella
giornalista francese. I due si innamorarono e si sposarono. E i
rotocalchi narrano che da allora vivono felici e contenti.
«Non mi vedo nei panni
del principe azzurro. Ma certamente mia moglie Veronique era una
giornalista molto bella e intelligente: faceva delle domande che
scioglievano qualcosa dentro di me. Alla fine dell’intervista mi
sentivo molto più leggero».
È vero che i due
figli di questo secondo matrimonio si vanno facendo strada come
attori?
«Sì. Cecilia e Anthony
hanno fatto già il loro primo film da protagonisti e posso dire
senza imbarazzo che sono orgoglioso di loro. Sono veramente bravi,
riempiono lo schermo».
Lei li ha consigliati?
«Sì. Li ho pregati di
non fare questo mestiere, perché certamente avrebbero sperimentato
rifiuti, delusioni e anche disprezzo. Ma naturalmente poi ho
rispettato la loro decisione. Di consigli tecnici non hanno bisogno,
perché frequentano i miei set da quando sono bambini e così hanno
assimilato il mestiere».
Della sua infanzia
cosa ricorda?
«Mi hanno allevato i
nonni, in una piccola città californiana, La Jolla. Credo che già
allora i due punti cardinali della mia vita fossero segnati: la magia
del palcoscenico e il bisogno di ribellarmi alle ingiustizie. Ero un
bambino cattolico e servivo messa. Dovevo suonare il campanello
sull’altare, con quelle pause, quel senso d’attesa, e dire le
battute in latino, coi tempi giusti, e far oscillare l’incensiere,
controllando le volute di fumo. Insomma, il gusto della
rappresentazione».
E l’ingiustizia?
«Una grande croce
fasciata di stracci e imbevuta di grasso, che brucia davanti alla
casa di un negro, circondata dagli uomini incappucciati, che le
fiamme fanno sembrare diavoli. È una scena che non ho visto
personalmente, ma che tutti i bambini raccontavano. Allora La Jolla
aveva sì e no duemila abitanti. Uno dei pochi ricchi del paese
decise di assumere un cameriere di colore, ma quando il poveretto
trovò casa lo fecero scappare a gambe levate, con la croce di fuoco,
l’anello degli incappucciati e i sassi che gli sfondavano le
finestre. Per me fu uno shock. Ricordo ancora l’uomo che si diceva
fosse il capo del Ku Klux Klan locale. Era il meccanico del garage.
Si chiamava Zimmerman, era alto, la faccia cadaverica, ma il resto
del corpo, a furia di ingrassare macchine, si era tutto imbevuto di
nero. La sua pelle era scura e oleosa. Lo guardavamo attraverso la
strada, noi bambini, e avevamo una certa paura. L’ho sempre
ricordato come un tipo giusto per la parte. Una buona scelta di
cast».
La voce di Gregory Peck,
profonda, da Abramo Lincoln, si è smarrita due volte durante
l’intervista. Sopraffatta dalla commozione rievocando i tempi
leggeri di Audrey Hepburn. Rotta dal peso di cupi ricordi, quando ha
parlato del suo divorzio. Del suicidio di Jonathan, il suo primo
figlio, non abbiamo osato chiedere. Ma la risposta era già sulla sua
faccia.
Basterebbero due parole
per definire Gregory Peck. La prima: integrità. Agli inizi di
carriera, quando l’addetto stampa di un suo film, citando Greta
Rice, la prima moglie, le inventò una professione chic, lui rimandò
indietro il testo della biografia: «Mia moglie fa la parrucchiera,
ed è anche bravissima. Non vedo perché dovremmo nasconderlo». La
seconda parola che potrebbe definire l’uomo, viene in mente
ascoltando quando racconta di uno dei suoi ultimi film, I ragazzi
venuti dal Brasile: «Era un mio vecchio sogno, una delle mie più
grandi aspirazioni, lavorare con Laurence Olivier ed ero altrettanto
emozionato nel girare le scene con James Mason, un attore che ho
sempre ammirato». Umiltà, questa è la parola giusta. Lasciandoci,
prima di salutarlo, un’ultima domanda: C'è qualcosa di cui ha
paura?
La voce si fa più
profonda: «No. Ho avuto tante paure nella mia vita: problemi
interiori, cadute, mi sono sempre chiesto se valessi qualcosa. La
vita non è certamente un picnic. Ma per me non temo più nulla. Per
i miei cari sì». E la paura di tornare nell’ombra? Risponde: «Non
vivo per il successo. Non ho mai avuto bisogno di tutta questa gente
che ti valuta e ti cerca a seconda delle tue quotazioni. Mi basta
sapere che faccio del mio meglio». Mi guarda un po’ stanco: «Oggi
non so pensare a qualcosa che mi faccia paura. Sono al punto in cui
si accetta dalla vita quello che può succedere domani o tra cinque
anni. Tante volte ho detto no. Se ho fatto un film adesso è perché
ho amato la storia». La voce di Gregory Peck adesso adesso è
cavernosa: «Se un altro Old Gringo verrà, io lo accoglierò
come un amico».
L'EUROPEO, 3 NOVEMBRE
1989
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