C’è accanto ad Agra, a
una ventina di miglia, una città morta, costruita dai dominatori
mussulmani, e subito abbandonata, per l’aridità dei dintorni. È
rimasta quasi intatta. Un largo cerchio di mura rossicce cinge
tutt’intorno, in un largo anello, la campagna, e qualche miserando
villaggio sorto in tempi recenti. Nel centro, sopra le gobbe
irregolari di un colle, è costruito il centro della città, a sua
volta circondato da alte mura. Tutto di mattoni rossicci, con qua e
là dei merletti di arabeschi di marmo.
Non nascondo la mia
attrazione per queste città morte e intatte, cioè per le
architetture pure. Spesso le sogno. E provo verso di esse un
trasporto quasi sessuale. Era stupendo. Non mi ci sarei mai staccato.
C’era la moschea, in un vasto cortile tutto pavimentato di mattoni
rossicci, con in mezzo la vasca orlata di marmo, e un grande,
stupendo, estatico albero verde: la moschea era un solo ghirigoro, un
pazzo ricamo di marmo ingiallito per la vecchiezza, con vene di
consunzione e biancori di freschezza. Intorno piccoli palazzi, che in
fondo, avevano il colore e la misura dei nostri più bei palazzi
trecenteschi: un sontuoso romanico profano. Di cortile in cortile, si
passava al palazzo del re, al palazzo delle donne, al palazzo delle
riunioni, al « divano », dove venivano ricevuti i sudditi. Tutto
intatto, aperto al sole e agli sguardi.
da L'odore dell'India, Longanesi 1974, prima edizione 1961
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