«Ho una paura pazza
dell’errore, intanto che continuo a perpetrarlo; sento
un’umiliazione da peccato originale. Allora non dovrei fare più
nulla; so di non meritare; e inizio, gratuitamente, una nuova
apertura di credito. Ci sono costretto, in fondo: se no, come farei a
vivere?». Può sorprendere che a formulare queste frasi non sia il
protagonista letterario di una sofferta formazione, ma uno dei
massimi filologi e critici del Novecento: Gianfranco Contini, che
appena ventiduenne ma già autorevole studioso, così si rivolgeva a
Gadda in una lettera del giugno ’34, ora contenuta in: Gianfranco
Contini-Carlo Emilio Gadda, Carteggio 1934-1963, a cura di
Dante Isella, Gianfranco Contini, Giulio Ungarelli. Con 62 lettere
inedite («Saggi» Garzanti).
L’alluvione fiorentina
del ’66 danneggiò, tra gli altri tesori, anche le carte donate da
Gadda a Alessandro Bonsanti e conservate nell’archivio del
«Vieusseux». Fra quelle carte, salvate dal fango, sono riemerse
cinquantasette lettere di Contini allo scrittore composte tra il 1934
e il 1936, già presentate a Firenze da Dante Isella nel 2003. Con
altre cinque, risalenti al periodo 1940-42, formano la prima, inedita
parte del volume che riunisce il carteggio. È a Isella che si devono
il progetto e l’allestimento del libro, consegnato a Garzanti fin
dal 2007; la figlia Silvia, che già l’anno scorso aveva curato la
pubblicazione postuma delle Carte mescolate vecchie e nuove
del padre, ne ha seguito l’uscita, firmandone l'Avvertenza
iniziale.
Il carteggio è la somma
di tre addendi: le sessantadue lettere di Contini, a cura di Isella;
le settantasei di Gadda, scritte tra il ’34 e il ’67 e già
pubblicate dal destinatario nel 1988; altre venticinque lettere
gaddiane curate da Ungarelli dieci anni dopo per Archinto, risalenti
al ventennio ’43-’63. Tre libri giustapposti, insomma, e
unificati nel nuovo volume. L’assetto ha permesso di conservare
introduzioni e commenti di Contini e Ungarelli, ispirati a criteri
diversi e non pienamente omologabili: da parte in causa, il primo
optò per una «glossa perpetua» suggerita dalla privata memoria di
eventi e persone; il secondo, da altra distanza, preferì una normale
annotazione numerata. Isella ha seguito un metodo misto, già
adottato per la sua curatela del carteggio Contini-Montale (Eusebio
e Trabucco, Adelphi 1997): non singole parole o passi annotati,
ma un’unica glossa, che per ciascuna lettera fornisce chiarimenti e
riscontri. D’altra parte, la scelta conservativa ha un po’
nuociuto alla leggibilità, sciogliendo in distinte tranches le
‘battute’ incrociate di un dialogo che, con qualche sforzo, il
lettore può astrattamente ricomporre grazie all’Indice cronologico
finale. Eguagliare il risultato di Eusebio e Trabucco avrebbe
richiesto un diverso montaggio dei testi e, di fatto, un nuovo
commento (o un’accurata armonizzazione che evitasse ad esempio le
informazioni ripetute).
Conviene soffermarsi
proprio sul confronto con l’altro grande carteggio novecentesco di
cui Isella è stato eccellente editore. Anche nelle lettere tra
Contini e Gadda, del resto, Montale è quasi un terzo corrispondente.
Non per niente, fu il poeta a far apprezzare lo scrittore a un
Contini irritato dalla lettura di Polemiche e pace nel
direttissimo, e fu ancora Montale che fornì un estratto del
giovane filologo a Gadda, come questi dichiara nella sua prima
lettera. Tuttavia, la sostanza dei due carteggi e i caratteri che
rivelano sono diversi. Con Gadda prevale un’amicizia paritaria.
Amicizia forse anche gelosa, soprattutto da parte dello scrittore,
più per bisogno di comprensione che per narcisismo. Amicizia
corroborata fin dall’inizio dai comuni «elementi etnici» (così
Contini, nella sua prima lettera del ’34): milanese l’uno, di
origine lombarda i genitori dell’altro. Con Montale, invece, il
filologo non depone mai i ferri del mestiere, devoto ai testi del
grande poeta, più che all'uomo. La differenza si riflette nei titoli
dei libri che Contini dedicò all’uno e all’altro: Una lunga
fedeltà. Scritti su Eugenio Montale e Quarantanni d’amicizia.
Scritti su C. E. Gadda (1934-1988). È vero che il tono
stilistico assunto con i due destinatari appare il medesimo: arguto,
vivace, a tratti mimetico tanto nei confronti del plurilinguismo
gaddiano quanto dell'allusività montaliana. Ma quello stile serve
per illustrare distinti gradi di relazione tra intelligenza e
umanità; doti cui corrispondono due obiettivi critici complementari:
l’opera in sé e il suo legame con le istanze dell’autore. Con i
contemporanei, l’indagine sugli elementi che ‘provocano’ il
testo avviene attraverso il dialogo diretto e la condivisione dei
medesimi contesti. Sono queste le caratteristiche che rendono
affascinanti e preziosi i carteggi (non solo) novecenteschi, in cui
gli scrittori rimangono in bilico tra la vita e la letteratura, la
rivelazione di sé e la coltivazione del proprio ruolo o
‘personaggio’. E in cui vengono restituite a una vivente
attualità le immagini degli uomini prima che degli intellettuali,
dei loro incontri e dei luoghi che ne furono teatri, dei libri
scritti e da scrivere.
(Luoghi e libri spesso
legati a doppio filo: per Gadda, le Rime dantesche di Contini
richiamano immediatamente «gli anni di Firenze»: lettera del 5
giugno ’64). Ne risulta un’idea di ‘epoca letteraria’ come
spazio condiviso e percorribile lungo diverse rotte; idea più calda
rispetto a quella di ‘canone’ e forse più attendibile di quella
che vuole gli autori incasellati in una trafila lineare.
I traumi all’origine
del rovello gaddiano fanno sì che nella corrispondenza con Contini
siano spesso in primo piano le urgenze esistenziali e le passioni,
anche negative: si veda la lettera del 6 agosto '49, in cui Gadda si
rivolge con un po’ di sarcasmo a Contini, credendolo autore di un
«piatto elogio della Svizzera», uscito sul “Corriere della Sera”.
La glossa del curatore, non meno piccata, chiarisce l’equivoco,
causato dalle iniziali dell’articolista - «G.C.», le stesse di
Contini. Del resto, Gadda non ha mai nascosto le idiosincrasie che
mossero la sua scrittura. L’essenza del «mio lavoro», scrive in
una lettera del '63, «è un disperato tentativo di giustificare la
mia adolescenza di “destinato al fallimento dallo egoismo
narcisistico e follemente egocentrico dei predecessori”».
Ciononostante, qui non si ha l’impressione di spiare le vite e le
opere dal buco della serratura: non tanto grazie al riparo offerto
dal ben noto cerimoniale stilistico gaddiano, quanto per la
deontologia del filologo, che impone di non interpellare l'autore per
fargli ‘spiattellare’ i propri significati e di non pungolarlo
perché scopra le proprie intime fibre autobiografiche. Una gentile
forzatura, se fu tale, si rivolse semmai verso la pervicace
stanzialità di Gadda. Alla mobilità del più giovane Contini sempre
in viaggio fra Domodosspla, Friburgo, Perugia e Firenze, e sempre
desideroso di attrarre l'amico in quelle sedi, Gadda oppone
l'aspirazione a “stare”(latinamente) su un poltrona, vestito
d’uno zimarrone rosso, con pantofole ai piedi».
Contini conosceva bene il
giusto mezzo tra il capire troppo e il non capire affatto. Gadda deve
essersene reso conto molto presto consegnando all’interlocutore nel
maggio del'34, una bellissima dichiarazione personale,
che ogni scrittore potrebbe e dovrebbe fare propria: “Leggerò con
piacere anche la condanna, in me la questione dello scrivere non è
un'ambizioncella, ma una manìa, un prepotente bisogno... Perciò
sono anche più calmo e rassegnato. La realtà deve essere, il resto
non importa. Se io non sono realtà è giusto perire ...”.
alias il manifesto, 22 dicembre 2010
alias il manifesto, 22 dicembre 2010
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