29.7.17

Quando don Sturzo inventò la casta (Ilario Lombardi)

Articolo un po' qualunquistico. Tacendo sulla campagna dei comunisti sui “forchettoni”, mettendo dentro tutti, senza indicare quantità e qualità, l'articolo finisce per assolvere i corrotti passati e presenti. Lo “posto” perché contiene qualche curiosità, qualche spunto da approfondire, ma suggerisco una lettura “cum granu salis”

È il giorno di San Valentino del 1947, la Repubblica italiana sta ancora gattonando, fragile, con i suoi denti da latte, quando alla Camera durante il dibattito per la fiducia al nuovo governo De Gasperi si alza il leader del Movimento indipendentista siciliano Andrea Finocchiaro Aprile e punta il dito contro quei parlamentari che «vanno in cerca affannosa di tutti i posti più largamente retribuiti». Trai nomi che cita, ci sono anche due ministri: Pietro Campilli, al Commercio estero, ed Ezio Vanoni, al Bilancio. Il primo è finito in una storia di speculazioni in Borsa, per il secondo l’accusa sembra più pesante: avrebbe intascato uno stipendio d’oro da commissario del Cln alla Banca dell’Agricoltura. La denuncia finisce sui giornali, parte una campagna stampa, ma l’aspetto che si rivelerà più interessante, visto dall’Italia del 2014, è la difesa di Campilli, contenuta in una dichiarazione del direttore generale del Tesoro: la speculazione forse c’è proprio stata, ma il ministro «non ne sapeva nulla». Anni e anni dopo lo scudo lessicale si andrà affinando fino a trovare una formula, quell’«a mia insaputa», adattabile a case con vista Colosseo e a milioni sottratti dai tesorieri a partiti in liquidazione. L’altro ministro, Vanoni, invece, spiegherà che dei soldi elargiti a suo favore aveva trattenuto solo una piccola parte: il resto era andato allaDc.
Questo a dimostrazione che Tangentopoli non è stata una parentesi dell’Italia: Tangentopoli è l’Italia, la Sin City della mazzetta. All’origine della Repubblica ci sta già tutto il suo destino. In nuce ci sono già le malefatte sui rimborsi di Franco “Batman” Fiorito e Luigi Lusi, le spese pazze dei consiglieri regionali e il caviale del tesoriere della Margherita. Vizi, vizietti, vezzi, avidità, impunibilità. Il curriculum della politica italiana è bello lungo, e molto ripetitivo. Per chi volesse dilettarsi nel gioco del trova le somiglianze tra ieri e oggi, un libro ne fa una summa divertente: Lei non sa chi ero io! di Filippo Maria Battaglia, giornalista di Sky con la passione per gli archivi, storpia in un’esclamazione grottesca lapiù classica delle battute dei pavoni del potere, ma declinandola al passato la rende anche una sorta di memento mori per tutti gli intoccabili del passato e del presente. Il sottotitolo del libro, La nascita della Casta in Italia, dà invece il senso dell’operazione: la Casta prima della Casta, prima che tutti la conoscessimo così, un’etichetta nata con il best-seller di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, bersaglio e fonte di gloria per Beppe Grillo, che sugli anatemi alla classe politica ha costruito il successo del M5S. Ma il primo a usare quel termine fu don Luigi Sturzo. Anno 1950, sul giornale il 24 Ore (che ancora non si era fuso con il Sole), il prete di Caltagirone di fronte al malcostume «di dare posti di consolazione a ministri, sottosegretari e deputati fuori uso» bastona i parlamentari, perché più che a rappresentare il popolo «sembrano ormai impegnati a voler creare o consolidare una casta».
Nessuno pare aver inventato niente di nuovo. I professionisti della politica, refrain ventennale su cui ha edificato il suo successo da parvenu il tycoon brianzolo Silvio Berlusconi per marcare una distanza, erano già presenti nelle invettive di Guglielmo Giannini, il padre dell’Uomo Qualunque, uno che già alla fine del 1944 chiedeva amministratori, per gestire la cosa pubblica, «non politici». «“Casta”, “cricca”, “professionisti”, il vocabolario dell’antipolitica italiana, nel primo quindicennio repubblicano, pare già incredibilmente aggiornato - spiega Battaglia -. Così come il catalogo degli scandali, almeno a leggere le cronache dei quotidiani e dei periodici dell’epoca: corruzione e concussione, ricatti e dossier incrociati, sprechi e tangenti affiorano a decine nelle prime tre legislature. Molti anni, anzi molti decenni prima di Tangentopoli».
Pagina 99
Data 01-11-2014
I mandarini spuntano ovunque, su un terreno, quello della Prima Repubblica, tenero e molto favorevole alla loro coltivazione. De, Pci, repubblicani, monarchici: tutti i partiti banchettano allo stesso tavolo. Ed è impressionante, scorrendo questi ultimi 70 anni, la sensazione di vivere in un unico grande déjà-vu. Quando la storia di ieri è cronaca di oggi. Qualche esempio: “pianisti” e diaria. Nel 1963 il settimanale “Il Borghese” fa i conti in tasca ai deputati: un onorevole incassa in un mese quanto nove operai per sole 150 sedute l’anno. A gonfiare lo stipendio di 740 mila lire interviene il «rimborso spese», vera manna dal cielo per i non certo indaffaratissimi parlamentari. Il regolamento prevede che sia variabile in base alle presenze in aula, certificate da apposito registro. A compilarlo ci pensa un compagno del Pci, benemerito, che infila qua e là anche le firme dei colleghi assenti. Anni dopo l’imbroglio sarà riproposto con altri metodi: deputati a favore di telecamera che pigiano per la votazione al posto di altri deputati impegnati altrove. Gli scandali si moltiplicano. Roma è già piena di debiti, attrici e attricette della Hollywood sul Tevere finanziata dallo Stato scorrazzano in cerca delle grazie di qualche politico per elemosinare qualche particina in un film. L’attualità dei Palazzi è generosa con i cronisti.
Filippo Maria Battaglia nel suo racconto affonda il naso nei giornali dell’epoca, grandi e piccoli, in articoli di cronisti sconosciuti o di grandi firme. Oggi si parla tanto delle municipalizzate da tagliare e del Cnel da mandare in soffitta, ma già nel 1963 sul Corsero, Indro Montanelli ingaggia una battaglia contro gli enti inutili. Sono a centinaia: dall’Opera di assistenza delle province redente all’ufficio dello Stato per prigionieri italiani della Seconda Guerra Mondiale. Il romanzo della Casta è appassionante, con immancabili risvolti hard. Pensavamo di aver visto tutto, quel memorabile 5 aprile 2011, il giorno in cui il Parlamento italiano votò contro l’autorizzazione alle perquisizioni per il caso Ruby, stabilendo che la ragazza marocchina coinvolta nelle “cene eleganti” di Silvio Berlusconi fosse la nipote del rais egiziano Mubarak. La Camera approvò una balla ad personam.
Ma di bunga bunga i nostri padri ne sapevano già qualcosa. A Roma nel 1967 non si parla d’altro che della porticina che il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi si era fatto aprire su un lato del Quirinale, in via dei Giardini. «Si mormora che di lì passino le amicizie femminili del Presidente» scrive il settimanale Abc. Anche in quel caso il Parlamento si piegò a far passare qualche leggina per le favorite del Capo dello Stato.
Il potere ha sempre amato infilarsi sotto le lenzuola. E la Casta in questo caso non si è rivelata per niente casta. La Capitale poi è tentatrice: sesso, coca e auto blu. Il caso di Wilma Montesi, 1953, è emblematico: un intreccio degno di James Ellroy tra Capocotta e Roma, ville lussuriose, festini e giri di stupefacenti che interessano marchesi anfitrioni, prefetti, uomini di chiesa, politici e tutto il sottobosco ministeriale. Notti selvagge che sollevano prima una «questione morale» (scrive Pietro Ingrao), poi rivelano una doppia, tripla morale.
Ovvio che anche quando si alzano i polveroni poi a terra rimane ben poco. Le campagne stampa sono aspre, ma alla fine gli anticorpi della politica prevalgono. L’immunità è una garanzia dapprincipio. I rapporti con la magistratura si fanno difficili subito e nel libro, con dati inediti alla mano, si dimostra come nelle prime tre legislature, lungo i primi quindici anni di vita della Repubblica, le richieste di autorizzazione a procedere inviate alle Camera sono 1.154, una media di 76,9 l’anno, cifre decisamente alte, ben più di quelle che ottengono il via libera: solo il 13,3%, molto al di sotto della media di tutti gli anni che arrivano fino a Tangentopoli. Altro che Prima, Seconda e Terza Repubblica: sin dai suoi albori, che pensavamo integerrimi ma non lo erano, la Repubblica è sempre stata una, indivisibile e fondata sul privilegio.


“Pagina 99”, 1 novembre 2014

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