Articolo un po'
qualunquistico. Tacendo sulla campagna dei comunisti sui
“forchettoni”, mettendo dentro tutti, senza indicare quantità e
qualità, l'articolo finisce per assolvere i corrotti passati e
presenti. Lo “posto” perché contiene qualche curiosità, qualche
spunto da approfondire, ma suggerisco una lettura “cum granu salis”
È il giorno di San
Valentino del 1947, la Repubblica italiana sta ancora gattonando,
fragile, con i suoi denti da latte, quando alla Camera durante il
dibattito per la fiducia al nuovo governo De Gasperi si alza il
leader del Movimento indipendentista siciliano Andrea Finocchiaro
Aprile e punta il dito contro quei parlamentari che «vanno in cerca
affannosa di tutti i posti più largamente retribuiti». Trai nomi
che cita, ci sono anche due ministri: Pietro Campilli, al Commercio
estero, ed Ezio Vanoni, al Bilancio. Il primo è finito in una storia
di speculazioni in Borsa, per il secondo l’accusa sembra più
pesante: avrebbe intascato uno stipendio d’oro da commissario del
Cln alla Banca dell’Agricoltura. La denuncia finisce sui giornali,
parte una campagna stampa, ma l’aspetto che si rivelerà più
interessante, visto dall’Italia del 2014, è la difesa di Campilli,
contenuta in una dichiarazione del direttore generale del Tesoro: la
speculazione forse c’è proprio stata, ma il ministro «non ne
sapeva nulla». Anni e anni dopo lo scudo lessicale si andrà
affinando fino a trovare una formula, quell’«a mia insaputa»,
adattabile a case con vista Colosseo e a milioni sottratti dai
tesorieri a partiti in liquidazione. L’altro ministro, Vanoni,
invece, spiegherà che dei soldi elargiti a suo favore aveva
trattenuto solo una piccola parte: il resto era andato allaDc.
Questo a dimostrazione
che Tangentopoli non è stata una parentesi dell’Italia:
Tangentopoli è l’Italia, la Sin City della mazzetta. All’origine
della Repubblica ci sta già tutto il suo destino. In nuce ci sono
già le malefatte sui rimborsi di Franco “Batman” Fiorito e Luigi
Lusi, le spese pazze dei consiglieri regionali e il caviale del
tesoriere della Margherita. Vizi, vizietti, vezzi, avidità,
impunibilità. Il curriculum della politica italiana è bello lungo,
e molto ripetitivo. Per chi volesse dilettarsi nel gioco del trova le
somiglianze tra ieri e oggi, un libro ne fa una summa divertente: Lei
non sa chi ero io! di Filippo Maria Battaglia, giornalista di Sky
con la passione per gli archivi, storpia in un’esclamazione
grottesca lapiù classica delle battute dei pavoni del potere, ma
declinandola al passato la rende anche una sorta di memento mori
per tutti gli intoccabili del passato e del presente. Il sottotitolo
del libro, La nascita della Casta in Italia, dà invece il
senso dell’operazione: la Casta prima della Casta, prima che tutti
la conoscessimo così, un’etichetta nata con il best-seller di Gian
Antonio Stella e Sergio Rizzo, bersaglio e fonte di gloria per Beppe
Grillo, che sugli anatemi alla classe politica ha costruito il
successo del M5S. Ma il primo a usare quel termine fu don Luigi
Sturzo. Anno 1950, sul giornale il 24 Ore (che ancora non si era fuso
con il Sole), il prete di Caltagirone di fronte al malcostume «di
dare posti di consolazione a ministri, sottosegretari e deputati
fuori uso» bastona i parlamentari, perché più che a rappresentare
il popolo «sembrano ormai impegnati a voler creare o consolidare una
casta».
Nessuno pare aver
inventato niente di nuovo. I professionisti della politica, refrain
ventennale su cui ha edificato il suo successo da parvenu il
tycoon brianzolo Silvio Berlusconi per marcare una distanza, erano
già presenti nelle invettive di Guglielmo Giannini, il padre
dell’Uomo Qualunque, uno che già alla fine del 1944 chiedeva
amministratori, per gestire la cosa pubblica, «non politici».
«“Casta”, “cricca”, “professionisti”, il vocabolario
dell’antipolitica italiana, nel primo quindicennio repubblicano,
pare già incredibilmente aggiornato - spiega Battaglia -. Così come
il catalogo degli scandali, almeno a leggere le cronache dei
quotidiani e dei periodici dell’epoca: corruzione e concussione,
ricatti e dossier incrociati, sprechi e tangenti affiorano a decine
nelle prime tre legislature. Molti anni, anzi molti decenni prima di
Tangentopoli».
Pagina 99
Data 01-11-2014
I mandarini spuntano
ovunque, su un terreno, quello della Prima Repubblica, tenero e molto
favorevole alla loro coltivazione. De, Pci, repubblicani, monarchici:
tutti i partiti banchettano allo stesso tavolo. Ed è impressionante,
scorrendo questi ultimi 70 anni, la sensazione di vivere in un unico
grande déjà-vu. Quando la storia di ieri è cronaca di oggi.
Qualche esempio: “pianisti” e diaria. Nel 1963 il settimanale “Il
Borghese” fa i conti in tasca ai deputati: un onorevole incassa in
un mese quanto nove operai per sole 150 sedute l’anno. A gonfiare
lo stipendio di 740 mila lire interviene il «rimborso spese», vera
manna dal cielo per i non certo indaffaratissimi parlamentari. Il
regolamento prevede che sia variabile in base alle presenze in aula,
certificate da apposito registro. A compilarlo ci pensa un compagno
del Pci, benemerito, che infila qua e là anche le firme dei colleghi
assenti. Anni dopo l’imbroglio sarà riproposto con altri metodi:
deputati a favore di telecamera che pigiano per la votazione al posto
di altri deputati impegnati altrove. Gli scandali si moltiplicano.
Roma è già piena di debiti, attrici e attricette della Hollywood
sul Tevere finanziata dallo Stato scorrazzano in cerca delle grazie
di qualche politico per elemosinare qualche particina in un film.
L’attualità dei Palazzi è generosa con i cronisti.
Filippo Maria Battaglia
nel suo racconto affonda il naso nei giornali dell’epoca, grandi e
piccoli, in articoli di cronisti sconosciuti o di grandi firme. Oggi
si parla tanto delle municipalizzate da tagliare e del Cnel da
mandare in soffitta, ma già nel 1963 sul Corsero, Indro Montanelli
ingaggia una battaglia contro gli enti inutili. Sono a centinaia:
dall’Opera di assistenza delle province redente all’ufficio dello
Stato per prigionieri italiani della Seconda Guerra Mondiale. Il
romanzo della Casta è appassionante, con immancabili risvolti hard.
Pensavamo di aver visto tutto, quel memorabile 5 aprile 2011, il
giorno in cui il Parlamento italiano votò contro l’autorizzazione
alle perquisizioni per il caso Ruby, stabilendo che la ragazza
marocchina coinvolta nelle “cene eleganti” di Silvio Berlusconi
fosse la nipote del rais egiziano Mubarak. La Camera approvò una
balla ad personam.
Ma di bunga bunga i
nostri padri ne sapevano già qualcosa. A Roma nel 1967 non si parla
d’altro che della porticina che il presidente della Repubblica
Giovanni Gronchi si era fatto aprire su un lato del Quirinale, in via
dei Giardini. «Si mormora che di lì passino le amicizie femminili
del Presidente» scrive il settimanale Abc. Anche in quel caso
il Parlamento si piegò a far passare qualche leggina per le favorite
del Capo dello Stato.
Il potere ha sempre amato
infilarsi sotto le lenzuola. E la Casta in questo caso non si è
rivelata per niente casta. La Capitale poi è tentatrice: sesso, coca
e auto blu. Il caso di Wilma Montesi, 1953, è emblematico: un
intreccio degno di James Ellroy tra Capocotta e Roma, ville
lussuriose, festini e giri di stupefacenti che interessano marchesi
anfitrioni, prefetti, uomini di chiesa, politici e tutto il
sottobosco ministeriale. Notti selvagge che sollevano prima una
«questione morale» (scrive Pietro Ingrao), poi rivelano una doppia,
tripla morale.
Ovvio che anche quando si
alzano i polveroni poi a terra rimane ben poco. Le campagne stampa
sono aspre, ma alla fine gli anticorpi della politica prevalgono.
L’immunità è una garanzia dapprincipio. I rapporti con la
magistratura si fanno difficili subito e nel libro, con dati inediti
alla mano, si dimostra come nelle prime tre legislature, lungo i
primi quindici anni di vita della Repubblica, le richieste di
autorizzazione a procedere inviate alle Camera sono 1.154, una media
di 76,9 l’anno, cifre decisamente alte, ben più di quelle che
ottengono il via libera: solo il 13,3%, molto al di sotto della media
di tutti gli anni che arrivano fino a Tangentopoli. Altro che Prima,
Seconda e Terza Repubblica: sin dai suoi albori, che pensavamo
integerrimi ma non lo erano, la Repubblica è sempre stata una,
indivisibile e fondata sul privilegio.
“Pagina 99”, 1
novembre 2014
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