Un disegno di Topor |
Può capitare, quando si
assiste ad una proiezione cinematografica, che per alcuni istanti il
quadro stenti a prendere posizione sullo schermo, e dia vita così a
quel saltellare fastidioso delle immagini, incapace di dar movimento
e azione alle scene impresse sulla pellicola che non riesce a
scorrere come vorrebbe. Questo contrattempo ci sta svelando il trucco
che ci diverte: immagini staccate una dall’altra, fotografie
immobili, sezioni parzialissime di realtà movimentate da un
trascinamento artificiale e meccanico. Eppure, anche se condotti dal
cattivo funzionamento del proiettore all’arcano del cinema, quando
il fotogramma assume il suo passo normale noi percepiamo non il
movimento del proiettore ma quello presente nell’immagine. In poche
parole, come afferma Gilles Deleuze nel suo splendido
L’immagine-movimento, «il cinema non ci dà un’immagine
alla quale aggiungerebbe movimento, ci dà immediatamente
un’immagine-movimento. Ci dà certo una sezione, ma una sezione
mobile, e non una sezione immobile + movimento astratto». A scoprire
l’immagine-movimento, che il libro di Deleuze farà valere come
nozione essenziale per una nuova ermeneutica del cinema, è il primo
capitolo di Materia e memoria del filosofo Henri Bergson.
Il cinema, a dir la
verità, compare ben poco in questo libro del filosofo francese
(siamo nel 1896), ma il problema di questo strumento che «al di là
delle condizioni della percezione naturale» era in grado di
immettere una nuova dose di irrealtà nel nostro quotidiano,
ritornerà con frequenza nelle pagine di Bergson. A volte come un
ambiguo e cattivo alleato (è un’illusione di movimento, è un
«falso movimento») a volte come un’utile metafora. Quando ad
esempio, Bergson deve spiegare come la sua filosofia, inizialmente
legata a quella di Spencer, se ne debba distaccare perché «in essa
il tempo non serviva a nulla, non produceva niente», aveva appena
finito di descrivere un mondo a cui era sottratto il cosciente e il
vivente. Questo universo abbandonato dalla vita noi lo potremmo
prevedere e calcolare in ognuno dei suoi stati successivi, proprio
«come le immagini giustapposte sulla pellicola cinematografica prima
che essa sia fatta scorrere» (H. Bergson, Il possibile e il
reale, in «aut aut», 204, 1984). L’esperienza del cinema, con
i suoi enigmatici rapporti tra immagine e movimento, è una delle
porte attraverso cui entrare nella filosofia di Bergson, di cui
Mondadori ci presenta alcuni capitoli fondamentali. Innanzitutto
Materia e memoria in una nuova traduzione, dopo quella
introvabile edita nel 1982 da una piccola casa editrice di Reggio
Emilia, Città Armoniosa. Il volume presenta, poi, due testi
altrettanto importanti: il Saggio sui dati immediati della
coscienza del 1889, seguito in appendice dalla prima traduzione
completa della tesi scritta in latino, sostenuta da Bergson per il
dottorato, Quid Aristoteles de loco senserit (tradotta da
Ferruccio Franco Repellino, L’idea di luogo in Aristotele).
Il volume corredato da alcune lettere di Bergson al filosofo
americano William James, a Papini e allo psicologo Th. Ribot, compare
nelle librerie nella collana di classici economici con il titolo
Opere 1889-1896, accuratamente annotata e prefata da P.A.
Rovatti. Le traduzioni sono di Federica Sossi. L’edizione
mondadoriana di questi importanti testi bergsoniani viene a colmare
una consistente lacuna nella conoscenza del filosofo francese.
L’arco temporale
segnato da queste opere copre, infatti, la fase iniziale della
filosofia bergso-niana, la cui conoscenza è indispensabile per chi
voglia tentarne una definizione aggiornata. Sia nel Saggio che
in Materia e memoria Bergson si trova di fronte a due crisi
congiunte, quella della metafisica e della psicologia. Entrambe
stanno ristrutturando i loro paradigmi e le loro categorie alla luce
delle nuove acquisizioni scientifiche. Le questioni poste dalla prima
si imbattono nelle difficoltà della seconda. È il caso, nel Saggio,
del problema della libertà e del determinismo o, in Materia e
memoria, del dualismo corpo e spirito, difficile da superare
persistendo lo scontro tra realismo e idealismo. Giudicando
«eccessive» entrambe le tesi, Bergson cercherà in tutto il libro
di dissolverne gli effetti metafisici depositatisi in una
innumerevole serie di pseudoproblemi di cui quello della relazione
tra corpo e spirito è un esempio tra i più tradizionali.
È Michel Serres a
indicarci questa volta un nuovo ingresso nelle problematiche
bergsoniane : il lavoro teorico di Bergson è la messa in questione
delle «proibizioni positiviste e cartesiane», in cui concetti e
nozioni si cristallizzano in segni e parole che si vorrebbero
«doppioni» del reale. Per riprendere l’immagine della pellicola
immobile dell’inizio, si potrebbe dire che lo spirito puro e
attento del cartesianesimo è l’agente di questa immobilità. La
filosofia è stata costretta a trovare la propria metaforica sulla
base della geometria ordinaria: «(...) i nostri concetti sono stati
formati ad immagine dei solidi, la nostra logica è soprattutto la
logica dei solidi; per lo stesso motivo, la nostra intelligenza
trionfa nella geometria, in cui si rivela la parentela del pensiero
logico con la materia inerte» (H. Bergson, L’evoluzione
creatrice).
Ma questa è soltanto una
«sezione» della realtà, la sezione immobile che dobbiamo
movimentare se vogliamo che il film torni a raccontarci la sua
storia. Certo i solidi ci servono, la stabilità abitudinaria di una
parte della nostra esperienza ci mostra che all’inerte dobbiamo in
qualche modo affidarci se vogliamo rispondere con successo alle
stimolazioni ambientali. Ma, ed è il tema del capitolo terzo di
Materia e memoria, lo spirito ha una doppia direzione. Ha il potere
di risalire, voltando le spalle all’azione immediata, utile alla
nostra sopravvivenza, verso una regione apparentemente oscura,
indistinta, impotente, che aspetta l'«appello del presente» per
realizzarsi. «In ogni momento, la coscienza illumina dunque con il
suo bagliore quella parte immediata del passato che, proteso sul
futuro, lavora per realizzarlo e per annetterselo» (Materia e
memoria, p. 258).
Il corpo, ci dice
Bergson, è esso stesso un «taglio trasversale nel divenire
universale», un taglio paradossale perché costretto ad
immobilizzare, a fotografare la realtà e, nel medesimo tempo, capace
di esonerarsi dall’attenzione alla vita, per muoversi verso regioni
in penombra: «Noi restiamo collocati in questa parte illuminata
della nostra storia, in virtù della legge fondamentale della vita,
che è una legge d’azione; di qui la nostra difficoltà a concepire
dei ricordi che si conserverebbero nell’ombra. La nostra ripugnanza
ad ammettere la completa sopravvivenza del passato dipende, quindi,
dall’orientamento stesso della nostra vita psicologica, vero e
proprio svolgimento di stati in cui il nostro interesse è di
guardare ciò che si svolge, e non ciò che è completamente svolto»
(Materia e memoria, p. 258). Questo immergersi della vita
psichica in un divenire attraversato di volta in volta dalle
necessità dell’attenzione alla vita, assume la figura di una
continua biforcazione differenziatrice di passato e presente, ricordo
e percezione. Vladimir Jankélévitch in L’irréversible et la
nostalgie sintetizza molto efficacemente le caratteristiche di
questo punto cruciale del bergsonismo: «(...) in Materia e memoria
la percezione, plasmata dai ricordi, è essenzialmente orientata
verso la modellatura del reale e l’edificazione del futuro, vale a
dire verso l’azione e la lotta per l’esistenza; se la durata non
è tesaurizzazione, né propriamente parlando arricchimento, essa è
comunque creatrice».
Una «durata» con queste
caratteristiche ha bisogno, per essere descritta, di una nuova
metaforica, non quella dei solidi geometrici, bensì quella
«acquatica» dei flussi e dello stream of consciousness,
capace di intuire i bordi fluidi delle cose. In tal modo Bergson
perviene a una nozione di divenire che è il contrario dell’eraclitea
fuga di tutte le cose in un passato e in un «già stato»
irrevocabile e impotente. Bergson non ha nostalgia di ciò che mai si
ripeterà due volte, semplicemente perché è convinto che il passato
della memoria saprà sempre rispondere all’appello di un presente
che non ne può fare a meno.
Le immagini vive della
memoria, però, portano con sé nuove domande che Marguerite Yorcenar
ha così descritto in Il tempo grande scultore: «bisognerebbe
sapere perché mi si sono immediatamente imposte in quanto nozioni
viventi, assimilabili, su cui la mia mente non ha smesso di lavorare.
E se vi è stata affabulazione, bisognerebbe spiegare perché ho
costruito questi miraggi, e proprio questi. È strano serbare
nell’immaginazione o nella memoria (nell’una o nell’altra
oppure nell’una e nell’altra) l’equivalente del calco di una
realtà che forse non è una realtà».
“il manifesto”,
s.i.d. ma 1986
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