«La gente della terra è
perlopiù così ignorante di alcune tra le più evidenti e tangibili
meraviglie del mondo, che senza qualche accenno ai nudi fatti della
baleneria, storici e di altro ordine, potrebbe ridere di Moby Dick
come di un’assurda favola o, cosa ancora peggiore e più odiosa, di
un’orrenda e insopportabile allegoria». Se decidessimo di
assegnare un significato ingenuo alle parole del narratore del
romanzo di Melville saremmo obbligati a inserire nel girone degli
ignoranti un discreto numero di critici e - cosa ancora più
impegnativa - tutti coloro che da centocinquant’anni si cimentano
nella lettura di Moby Dick.
Del resto, che quel
narratore non sia intenzionato a porsi sullo stesso piano del
pubblico e che lo affronti, anzi, con una buona dose di ambiguità,
lo potevamo intuire sin dalle prime battute, in uno degli esordi più
celebri della storia del romanzo occidentale. Il pubblico ha bisogno
di un prestanome che garantisca per la storia che si accinge ad
ascoltare? E sia, il narratore lo accontenta: «Cali me Ishmael» -
dice - e facciamola finita. Basterebbero anche solo questi pochi
indizi per attribuire a Ismaele uno spirito autoritario, rivestito di
moralità e dissimulato nella giustapposizione tra i suoi poteri di
testimone e i poteri, più evidenti, del tiranno del Pequod. Quasi a
subirne ..il crisma, nero, £awaid Morgan Foster condannerà al
fallimento qualsiasi tentativo orientato a leggere il romanzo in
chiave allegorica, archiviando il caso con un tono perentorio: «Nulla
si può dire a proposito di Moby Dick se non che si tratta di una
battaglia. Il resto è canto». ^
Un lettore diverso,
invece, Cyril Lionel Robert James, decide di trasformare Ismaele nel
proprio og getto di analisi. Marinai, rinnegati e reietti. La
storia di Herman Melville e il mondo in cui viviamo è
l’importante referto di questa analisi dalla sfortunata vicenda
editoriale, che oggi Ombre Corte traduce finalmente in italiano. Nato
a Port of Spain nel 1901, pioniere nello studio delle condizioni
soggettive della schiavitù, nipote di schiavi ma cresciuto
all’insegna della più classica formazione britannica, James occupa
un posto di rilievo nella storia del marxismo. Coinvolto
nell’elaborazione di un programma che consentisse al Socialist
Worker’s Party di attivare la mobilitazione delle comunità
afroamericane, a James appaiono subito chiare le insolvenze di una
prospettiva limitata alla questione di classe: un paradigma che
giudica incompleto, troppo «meccanico» e incapace di cogliere
l’originalità di quelle forme di oppressione che vengono
esercitate ai margini del ciclo produttivo.
Senza mai rompere del
tutto con i vizi e le virtù della critica dell’economia politica -
come ha scritto Federico Gattolin (C.L.R. James. Il Platone nero,
Prospettiva edizioni) - James è tra i primi, comunque, a lamentarne
le asfissie. Ma un curriculum di questo tipo, negli Stati Uniti,
all’inizio degli anni Cinquanta, a pochi mesi dall’esecuzione dei
coniugi Rosenberg, non può portare che guai. James viene rinchiuso
tra i prigionieri politici di Ellis Island ed è sull’isola, nel
1952, sotto la rigida sorveglianza di un «lettore istituzionale»
come l’Fbi, che lavora al saggio su Melville. Un lettore
istituzionale che, qualora l’analisi di Moby Dick dovesse
suscitarne le premure, rischierebbe di trasformarsi nel più
ingombrante dei lettori impliciti. Il rischio è concreto.
Per James, infatti, la
grandezza di Melville consisterebbe nell’avere situato Ismaele nel
solco di un processo storico segnato dalla continuità tra le nevrosi
del capitale e il totalitarismo, una realtà che «in America si
poteva già intravedere» nel 1851. Una realtà che si rende
osservabile solo nel momento in cui da «coscienza critica di Achab»,
rappresentante di una proposta esegetica e di una nazione che si
presumono innocenti, Ismaele si trasforma nell’«alter-ego
intellettuale» del suo capitano. Qui, nella trama di questa
degradazione, si annidano i meriti e le difficoltà di una lettura
comunque formidabile, resa possibile da una premessa di metodo per
molti versi contigua ai saggi sul realismo di Lukacs.
Ismaele è solitario, di
buona famiglia newyorkese e di buone letture, isolato dall’equipaggio
e dalle relazioni «spontanee» che l’equipaggio sa instaurare al
proprio interno, con il mare e con gli strumenti di navigazione. Del
suo orribile capitano si potrebbero dire le stesse cose. Entrambi
rimangono rinchiusi in un punto di vista ancora una volta «meccanico»
(che i francofortesi avrebbero definito «strumentale»), una
prospettiva inflessibile alla quale sottomettono la natura e
sacrificano se stessi: Achab all’inseguimento della balena bianca,
Ismaele alla ricerca di una nuova patente sociale. Il loro
rovesciamento della razionalità mercantile nel tentativo estremo di
opporsi al capitalismo di Nantucket, ne mantiene intatti la forma
logica e produttiva, le dinamiche di sfruttamento della natura e il
sadismo.
Achab, negli abiti del
tiranno, è una premonizione di Hitler e di Stalin. Ismaele incarna
il tipo intellettuale, presente «all’angolo di ogni strada» e
pronto a esercitare la forza dell’astrazione laddove i dittatori
manipolano le masse e deportano gli avversari politici. La
conclusione di James, allora, non potrebbe essere più chiara: Achab,
Ismaele - e, con loro, l’America che Melville osteggiava - sono
condannati allo stesso destino suicida di Stalin e del Terzo Reich.
Eppure Moby Dick
non termina qui, con l’inabissamento del Pequod e con l’inferno
che il capitano e il suo alter-ego avrebbero stivato, come una bomba
a orologeria, sotto il ponte della baleniera. Perché all’oceano
che si richiude sfuggono quattro assi di legno e un epilogo. Grazie a
un «ingegnoso meccanismo a molla» Ismaele può rimanere a galla:
gli squali gli passano «accanto mansueti» e i falchi lo sorvolano
«col becco inguainato», per due giorni, prima che l’equipaggio di
un’altra imbarcazione lo avvisti e lo tragga in salvo. Deve così
le sue prerogative di testimone alla tecnologia, a un patto di non
belligeranza con il mare e alla comunità dei marinai. È, per un
momento soltanto, un abitante del mondo armonioso che Melville
avrebbe tentato di opporre al «mondo in cui viviamo»,
all’individualismo liberal e alla pianificazione sovietica.
James cancella questo
momento, forse per riunire nella catastrofe i destini paralleli del
capitano e del suo alter-ego, probabilmente per non esporsi alle
ritorsioni di quel lettore implicito che lo ha tormentato nelle
difficili giornate di scrittura e che si sarebbe pur sempre potuto
immedesimare con la raffigurazione agiografica di Melville. Perché
ciò che trascura è un segmento della storia nel quale - a volerlo
decodificare sulla base delle sue stesse premesse - tra la voce di
Melville e la voce di Ismaele si viene a creare una distanza
inferiore a quella che Marinai, rinnegati e reietti intendeva
preservare.
Salvare Melville
significava concedere agli Stati Uniti una speranza, resa verosimile
dall’ostensione di un contenuto nazionale interdetto alle patologie
del narratore. Ma adesso, quando il romanzo termina davvero,
l’intellettuale di New York che rifornisce la sua storia di
documenti falsi e di prescrizioni non è più così diverso
dall’autore che lo ha messo in scena. E mentre Ismaele riorganizza
il mondo nelle rubriche della baleneria, per esaurirne i confini e la
storia in un quadro totale - simile all’ufficio delle lettere
smarrite di Washington in cui, due anni dopo, il narratore di
Bartleby vorrà rinchiudere il dramma dell’«umanità» intera -
siamo indotti a sospettare che lo scrivere romanzi non sia del tutto
immune dalle tentazioni di dominio che Cyril Lionel Robert James si
ostinò a circostanziare, forse, nell’inutile tentativo di salvare
se stesso.
“il manifesto”, 26
novembre 2003
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