Quando uno Stato mantiene
i suoi cittadini nel terrore, fiorisce sempre la nefasta pianta della
delazione spontanea: quando, in linea generale, si ammettono e anzi
si incoraggiano le denunce, uomini altrimenti onesti si trasformano
per paura in informatori; solo per allontanare da sé il sospetto di
«non aver onorato adeguatamente Dio», ogni cittadino si mette a
spiare e a guardare in modo sospettoso i suoi concittadini. Lo «zelo
della paura» è ciò che muove tutti i denunciatori, e di lì a
qualche anno il Concistoro avrebbe perfino potuto sospendere la
propria sorveglianza, perché tutti i ginevrini si erano trasformati
in inquisitori volontari. Il torbido fiume della delazione scorreva
incessante, mettendo in moto la ruota dell’inquisizione religiosa.
Come sentirsi al sicuro
in mezzo a questo terrore? Come sentirsi esenti da qualche tipo di
trasgressione alle leggi divine, se Calvino ha vietato tutto,
indistintamente, ciò che allieta la vita e la rende degna di essere
vissuta? Il teatro, i divertimenti, le feste popolari, il ballo e il
gioco sono proibiti; perfino un’attività così innocente come il
pattinaggio sul ghiaccio scatena il disgusto di Calvino; è proibito
ogni abito che non sia austero e quasi monacale; i sarti non possono
confezionare nuovi modelli senza il permesso del magistrato; alle
ragazze è proibito indossare abiti di seta prima dei quindici anni
e, passata quest’età, abiti di velluto; sono proibite le vesti con
ricami d’argento e d’oro, trecce, nodi e fermagli, e allo stesso
modo sono proibiti ori e gioielli. Agli uomini è proibita la
scriminatura e alle donne ogni acconciatura e arricciatura dei
capelli; proibiti pizzi, guanti, fronzoli e calzature ricercate;
proibito servirsi di portantine e «voitures roulantes», proibite le
riunioni familiari di più di venti persone; proibito, in occasione
di fidanzamenti e battesimi, servire più di un determinato numero di
portate o offrire dolciumi, come frutta candita; proibito bere altro
vino che non sia il rosso locale; proibito fare brindisi, proibita la
selvaggina, il pollame, il pâté. Agli sposi è proibito
scambiarsi doni in occasione delle nozze, fino a sei mesi dopo;
proibito, ovviamente, ogni rapporto fra i sessi all’infuori del
matrimonio; senza alcuna indulgenza neanche per i fidanzati. Ai
cittadini con stabile domicilio in città è proibito frequentare le
locande, e agli albergatori dare a un forestiere cibo e bevande prima
che questi abbia recitato le sue preghiere; il locandiere ha anche
l’obbligo di riferire e vegliare «diligemment» su ogni
atto o parola sospetta del suo ospite. E proibito far stampare un
libro senza il permesso delle autorità, proibito scrivere
all’estero; è proibita l’arte in qualsiasi forma, proibiti i
quadri e le sculture sacre, proibita la musica; perfino nel canto dei
Salmi, le Ordinanze prescrivono che «si abbia cura di non rivolgere
l’attenzione alla melodia», ma allo spirito e al significato delle
parole, perché «soltanto nella parola di vita Dio vuole essere
lodato». Nemmeno la libera scelta del nome di battesimo per i propri
figli è ormai concessa a quei cittadini che un tempo erano stati
uomini liberi. Sono proibiti nomi che erano in uso da secoli, come
Claude o Amadé, perché non si trovano nella Bibbia, e se ne
impongono altri, di biblica risonanza, come Isacco o Adamo. E
proibito recitare in latino il Padre nostro, proibiti i
festeggiamenti per il Natale e la Pasqua, proibito tutto quello che
interrompe la grigia monotonia dell’esistenza. Proibito (inutile
dirlo) ogni ombra o barlume di libertà spirituale nelle parole
proferite o stampate, ed è proibita, come il peggiore fra i delitti,
qualsiasi critica alla dittatura di Calvino; fra rulli di tamburi i
cittadini sono espressamente esortati a non parlare dei pubblici
affari «in qualsiasi sede che non sia il Consiglio».
Proibito, proibito,
proibito: è un ritornello che fa rabbrividire. E viene da chiedersi
che cosa, fra tante proibizioni, sia ancora permesso ai cittadini di
Ginevra. Ben poco. Hanno il permesso di nascere e morire, lavorare,
obbedire, andare in chiesa; quest'ultima attività, anzi, non è
soltanto permessa, ma imposta per legge sotto pene severe: guai al
cittadino che non ascolti le prediche della sua parrocchia (due di
domenica, tre durante la settimana), e dimentichi di mandare i figli
all’ora d’istruzione obbligatoria. Nemmeno nel giorno festivo si
allenta il giogo della coercizione; la ruota del dovere gira
inesorabile... Dopo il faticoso lavoro per guadagnarsi il pane
quotidiano, c’è il servizio divino; la settimana è dedicata al
lavoro, la domenica alla chiesa: soltanto così si può uccidere
Satana nell’uomo... ma naturalmente si uccide anche ogni libertà e
ogni gioia di vivere.
Viene da chiedersi con
stupore come una città repubblicana, che aveva vissuto lunghi
decenni nella libertà elvetica, abbia potuto sopportare una simile
dittatura alla Savonarola. Come ha potuto tollerare,un gioioso popolo
con il carattere del Sud, questo annullamento di tutti i piaceri
della vita? Com’è stato possibile, per un solo uomo, un usceta
intellettuale, violare la gioia di vivere di migliaia e migliaia di
persone? Il segreto di Calvino non è nuovo, è il vecchio, eterno
segreto di tutte le dittature: il terrore. Non ci si illuda: la forza
che non arretra di fronte a nulla, che schernisce come segno di
debolezza ogni senso di umanità, è una forza smisurata. Un terrore
di Stato ideato sistematicamente e dispoticamente attuato paralizza
la volontà dei singoli, dissolve e mina le basi di qualsiasi
comunità; come un morbo distruttore, corrode le anime, e - questo è
il suo segreto finale - ben presto la generale codardia si fa
collaboratrice e complice, al punto che ciascuno, sentendosi
sospettato, inizia a diffidare degli altri, e la paura spinge i
timorosi a prevenire e assecondare gli ordini e le proibizioni dei
loro li ranni. Un regime organizzato del terrore può sempre compiere
miracoli, e Calvino, se si trattava della sua autorità, non esitò
mai a ripetere miracoli di questo genere. In tema d’inflessibilità,
nessun despota spirituale lo ha mai superato; e il suo implacabile
rigore non è giustificato dal fatto di essere, come tutte le qualità
di Calvino, un prodotto della sua ideologia. Certamente, quest’uomo
dedito allo spirito, questo tipo nervoso, questo intellettuale,
doveva provare un grande orrore per gli spargimenti di sangue; era
incapace, come egli stesso afferma, di sopportare atti di crudeltà e
non sarebbe mai stato in grado di assistere a una sola delle scene di
tortura o atti di fede che si praticavano a Ginevra. E questa è
appunto la colpa più grave dei teorici: gli stessi individui che non
avrebbero il coraggio di assistere a un’esecuzione e tantomeno di
compierla - come Robespierre -, pronunciano senza esitare centinaia
di condanne, sentendosi interiormente protetti dalla loro «Idea»,
dalla loro teoria, dal loro sistema. L’essere duro e inflessibile
verso quei «peccatori» era considerato da Calvino come il supremo
postulato del suo sistema, e attuare integralmente questo sistema
corrispondeva, dal punto di vista filosofico, ad assolvere il compito
affidatogli da Dio stesso. Calvino riteneva quindi che fosse un suo
dovere educarsi all’inflessibilità, anche a dispetto del proprio
temperamento, e abituarsi con sistematica disciplina alla crudeltà;
si «esercitava» a essere spietato come ci si esercita in un’arte
sopraffina: «Mi adopero a essere severo nel debellare il vizio
universale».
Da Castellio contro
Calvino, Castelvecchi, 2015 (I
ed. 1936)
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