Norbert Elias |
BOLOGNA
Norbert Elias è nato nel
1897. È dunque uno degli ormai scarseggianti grandi vecchi della
cultura europea. Nella fattispecie, della sociologia: di una
sociologia sconfinante nella storia e tutta nutrita di storia. È
venuto qui da Amsterdam, dove vive da alcuni anni, per tenere una
conferenza presso l'Associazione il Mulino. Titolo: Cambiamenti
nell'equilibrio di potere tra i sessi. È
un tema che lo appassiona da qualche tempo, e che non è
estraneo al grande tema di tutta la sua vita, che è il "processo
di civilizzazione", come dimostrano i libri che il Mulino ha
pubblicato a partire dal 1980, compreso l'ultimo, intitolato La
solitudine del morente. Come altri grandi vecchi, è
disponibilissimo alla conversazione. Un po' meno a mettere in
questione, eventualmente, i princìpi di fondo della sua opera, e
anche a ricordare maestri, influssi, amici. Con tutta evidenza - e
non è un male -, nell' andar degli anni, l'amore dell'Opera, la
fedeltà all'Opera si fanno esclusivi e quasi perentori: va bene
così.
Quest'opera è diventata
pubblica abbastanza tardi... Ecco così la prima domanda: Signor
Elias, i suoi libri principali sono usciti relativamente tardi, non
solo in Italia. Il processo di civilizzazione - che da noi è
diviso in due volumi, La civiltà delle buone maniere e Potere
e civiltà - è del 1939. La società di corte del 1969.
Nel 1939, lei aveva già 42 anni...
"Sì. La società di
corte deriva dal mio saggio di abilitazione, che avevo discusso a
Francoforte prima che Hitler salisse al potere. Fino a quella data
avevo avuto una vita universitaria normale, ed ero assistente di Karl
Mannheim. Poi, di colpo fu impossibile finire e pubblicare qualsiasi
lavoro di quel tipo".
Per ragioni politiche?
"Dire politiche
è dir poco: tutt'a un tratto, nulla era più possibile. Il
processo di civilizzazione venne pubblicato da un piccolo editore
svizzero alla vigilia della seconda guerra; lui era disperato perché
tutte le copie gli ingombravano il magazzino; poi, a poco a poco,
vennero anche i lettori".
Lei nel frattempo era
emigrato?
"Non ero emigrato:
emigrare si può anche volontariamente. Io venni strappato
brutalmente dal mio paese e mandato in esilio".
In America?
"No. Per andare in
America occorrevano relazioni e agganci professionali che io non
avevo. Solo Thomas Mann una volta mi mandò un biglietto per
chiedermi se la cosa mi poteva interessare. Andai in Francia, poi in
Inghilterra".
In Francia aveva rapporti
intellettuali?
"Assolutamente no.
Lavoravo all'École Normale, ma con un sussidio olandese. Per il
resto ero solo un esiliato".
Torniamo alla Germania...
"Come lei forse
saprà, a quel tempo in Germania vigeva nelle scienze sociali una
rigida contrapposizione: quella tra civilizzazione e
Cultura...".
Appunto. Si può dire che
allora quasi tutta la cultura, mi scusi il bisticcio, era dalla parte
della Cultura. Lei si occupava di civilizzazione, cioè di
qualcosa che a un tedesco appariva futile, inautentico, superficiale,
decadente, parlamentare, spregevole. Anche a un tedesco come Thomas
Mann, perlomeno al Thomas Mann che scriveva le Considerazioni di
un impolitico.
"Esattamente. In
quel libro è espressa nettamente la vecchia posizione conservatrice.
Ma poi Mann cambiò. Nel suo Diario annota: 'Letto Elias;
meglio di quanto credessi'... La Germania è stata l'unico paese in
cui esistesse questa contrapposizione: non se ne parlava in Francia,
in Inghilterra o, per quanto ne so, in Italia. Mi dispiacerebbe dire
troppo crudamente che, fin da Kant, la Cultura
era la cultura della borghesia e la civilizzazione
quella della nobiltà; però è più o meno così. Salvo che, in
Germania, questa contrapposizione di classe diventò una
contrapposizione nazionale: Cultura
diventò ciò che era "specificatamente tedesco";
civilizzazione tutto il
resto, compreso il parlamentarismo e la democrazia".
Per questo il concetto di
Cultura diventò reazionario, per esempio in Spengler? "In
Spengler e in molti altri".
Se uno pensa alla grande
cultura storico-sociologica tedesca degli anni della sua formazione,
da Ferdinand Tnnies a Georg Simmel a Max Weber, non riesce bene a
trovare le coordinate della sua ricerca. "Vede, io sono sempre
stato esitante a parlare di origini intellettuali, perché questo
concetto implica che ci si forma sui libri. Io, certo, leggevo. Ma
più dei libri per me erano importanti le esperienze".
Per esempio quale
esperienza?
"Per esempio la
prima guerra mondiale, alla quale partecipai diciassettenne".
Come Junger...
"Come chi?"
Junger. Ernst Junger.
"No. Innanzitutto io
ero più giovane di Junger (in tedesco suona meglio: "Ich war
junger als Junger", n.d.r.), in secondo luogo lui era ufficiale
e io no, in terzo luogo, per lui la guerra fu un'esperienza eroica e
gloriosa, per me un'esperienza orrenda e terrificante".
Dunque, nessun influsso
intellettuale?
"Da studente avevo
rapporti con Karl Jaspers. Max Weber l'ho letto tardi e non sempre
l'ho apprezzato. A volte vorrei dire come Goethe: 'Ero un pazzo su
basi tutte mie...'. Insomma, molto presto trovai un modo mio di
affrontare i temi sociologici, e potrei dire che questo modo si
riassume in questa formula: studio dei processi di lungo periodo, di
quelle evoluzioni che attraversano lentamente le epoche".
Dunque direbbe che la sua
è una sociologia totalizzante?
"Assolutamente no.
Il concetto di totalità è del tutto vuoto. Ciò che mi interessa
sono i nessi, le connessioni, le interdipendenze, e ciò che si può
dire è che queste interdipendenze vanno non solo analizzate ma anche
integrate. Di recente ho scritto un articolo dove analizzo i nessi
tra sport e parlamentarismo nell'Inghilterra del XIX secolo. Ecco,
questo intendo".
Dunque, il suo lavoro è
estraneo anche alla sociologia più recente, per esempio al
Funzionalismo alla Talcott Parsons, alla teoria dei sistemi sociali,
ecc.?
"Certamente - e
questo naturalmente non facilita la comprensione del mio lavoro. Ma
quelle teorie operano con concetti rigidi e statici; per esse, ad
esempio, lo sport e il parlamentarismo stanno in cassetti diversi e
separati; per me sono componenti del processo di civilizzazione.
Oppure, se si studiano i rapporti tra i sessi in ambiti temporali
ristretti, non si capisce quasi niente. Se si studiano, come io li
sto studiando, su tempi lunghi o lunghissimi, tutto si fa più
chiaro. Dal punto di vista umano, gli antichi romani non erano
diversi da noi".
Dunque, lei si sente un
outsider?
"In certo modo sì:
nel senso che io sono più vicino di altri alla realtà umana, che la
mia sociologia vuole vedere in concreto che cosa succede tra gli
uomini, vuol essere una sociologia umanistica. E così credo che il
futuro è dalla mia parte".
Proviamo a riassumere.
Lei ha studiato i complessissimi meccanismi di vita e di potere alla
corte di Luigi XIV. Poi ha studiato le modificazioni delle maniere,
dei costumi, del linguaggio, dei sentimenti (per esempio della
vergogna e del pudore) nel lentissimo passaggio dalla società
guerriera medievale alla monarchia assolutistica moderna alle
democrazie di massa contemporanee. Le sue ricerche sono suggestive
anche letterariamente o addirittura giornalisticamente: conosco molte
persone che si sono divertite a scoprire che ancora tre o quattro
secoli fa era raro l'uso del cucchiaio e della forchetta, che a
tavola si sputava e si vomitava con disinvoltura, che i bisogni
corporali e sessuali venivano soddisfatti in pubblico. Personalmente
mi sono divertito a leggere le prescrizioni di Erasmo per
l'educazione dei ragazzi... Voglio dire: lei chiama tutto questo
processo di civilizzazione. E' questo il concetto fondamentale
del suo lavoro?
"E' uno dei concetti
fondamentali. Un altro è quello di potere, per esempio di potere
statale".
Ecco, ma questo processo
sembra non aver inizio e non aver cause, a differenza, per esempio,
che in Marx.
"Infatti, il
concetto di causa viene dalle scienze naturali, e anche Marx finì
per abbandonarlo. Io cerco, piuttosto, spiegazioni relative a un
insieme di reticoli praticamente infinito".
Bene. Però nelle sue
spiegazioni non si trovano mai certi concetti correnti, per esempio i
concetti di rivoluzione o di progresso.
"Questo non è
esatto. Progressi ci sono stati. Ma per me il progresso non è un
dogma metafisico, necessario e predeterminato, per cui la società va
inevitabilmente nel senso del meglio. Per questo preferisco nozioni
come "evoluzione" o "mutamento", e per questo ho
studiato le maniere: nei libri di maniere del Cinquecento trovavo
materiali utili a profilare una differenza nella civiltà di allora e
nella nostra".
Mi consenta un' ultima
domanda. Nel suo lavoro, il processo di civilizzazione sembra
implicare un aumento del controllo personale e sociale, e un aumento
delle coercizioni. Lei pensa dunque che, come in un celebre studio di
Marcuse e in parte anche in Freud, civiltà implichi aumento di
nevrosi?
"Non direi proprio.
Non esiste una società priva di controlli degli istinti. Ciò che
caratterizza la fase attuale della nostra civiltà è una
complessissima reciprocità dei controlli e un aumento del controllo
statale. La nevrosi... La nevrosi: non saprei. Non ho mai pensato
alla cosa sotto questo profilo".
“la Repubblica”,15
settembre 1985
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