«Sono un trovatello. Ma
fino all’età di otto anni ho creduto di avere, al pari degli altri
ragazzi, una madre, poiché quando piangevo una donna mi stringeva
così dolcemente tra le sue braccia, cullandomi, che le mie lacrime
cessavano di scorrere».
Raramente si è offerto,
al giovane lettore, un incipit perentorio e preciso come quello che
Hector Malot scelse, nel 1878, per Sans Famille, feuilleton di
robustissimo impianto dedicato a sua figlia Lucie. Nella frase
d’attacco sono risolti sia la figura del protagonista, la cui
qualità di enfant trouvé è subito svelata, sia il nodo
essenziale della vicenda, poiché appare ovvio che, dopo aver avuto
un modesto assaggio di amor materno, l'eroe della storia tenterà
l’impossibile per gustarne di nuovo il sapore.
Il fulminante «sono un
trovatello» con cui Remigio si presenta non connota solo
un’autentica entrata a effetto, ma contiene ed esprime l’universo
del libro per l’infanzia, popolato come nessun’altro di orfani ed
esposti, di abbandonati e trovati, di mamme perdute e padri assenti,
insomma di bambini soli, impegnati in avventure che riguardano tanto
la sopravvivenza del piccolo e del debole in un mondo ostile abitato
da mostri e giganti, quanto la fantastica ricerca, attraverso un
viaggio di tipo scopertamente iniziatico, di un’identità da
guadagnare.
Per l’uno e per l’altro
verso, il romanzo per bambini s’imparenta alla fiaba e addirittura
al mito, ove l’eroe è sovente un bastardo («Sargon il re potente,
il re di Agade io sono. Mia madre fu una vestale, mio padre non l’ho
conosciuto»...), uno scambiato, un orfano, qualcuno che viene
gettato nelle braccia della sorte da un difetto di nascita: e tanto
più questo è grave, tanto più gloriosa sarà la rivincita, la
conquista di un regno e di un trono.
Ma non è solo per meglio
innalzarlo che l’eroe bambino è inizialmente umile o umiliato;
nota Beatrice Solinas Donghi, in La fiaba come racconto
(Marsilio 1976), che i genitori o chi per loro sono un intralcio: la
loro protettiva presenza impedisce al racconto di decollare, e
diventa indispensabile fame dei cari estinti, degli assenti più o
meno giustificati e, a volte, degli snaturati (è Marc Soriano a
sottolineare, nel suo studio sui Contes di Perrault, che
l'indegnità des parents è una costante fiabesca), come
accade nel romanzo popolare, dal rosa all’appendice.
Legati a ragioni
simboliche quanto narrative, nonché alla rêverie infantile che
Freud chiama «romanzo familiare» (ossia l’idea d’esser figli
d’altra e più potente famiglia, ben diversa da quella che ci ha
allevato), l’assenza e l’abbandono del genitore, come la
solitudine e i perigliosi percorsi dell’infante sono anche riflesso
ed eco di condizioni storicamente riconoscibili. I piccoli
protagonisti delle vicende narrate da Thouar e Tarra, da Dickens e da
Malot potremmo incontrarli anche nei registri e negli elenchi delle
Opere Pie che dal medioevo cominciarono ad accogliere gli «inventi»
e i «fittatelli», e che nel secolo scorso si assunsero il compito
non solo di allevare, ma anche di governare e indirizzare l’infanzia
abbandonata (traviabile e potenzialmente «pericolosa» per la
società), convertendola in forza lavoro a basso costo.
Personaggi come il
Remigio di Sans Famille e l’Oliver di The Adventures of
Oliver Twist sono specchio di una realtà infantile simile a
quella descritta da Jack London in The People of Abyss (frutto
di una discesa nell’infemo dell’East End londinese compiuta nel
1902), o da Paola Carrara Lombroso in La vita dei bambini,
libro degli anni ’20 che si conclude con il racconto di strazianti
storie di bimbi poveri, destinati a una via fatta di «sofferenze,
lavoro passivo e soggezione».
A differenza dei piccoli
torinesi derelitti citati dalla Lombroso, però, Remigio e Oliver
sono eroi borghesi, tenuti a non smentire la loro «buona» ancorché
ignota nascita, che mantengono intatta la loro innocenza pur tra
tante peripezie, e che alla fine si vedranno aprire le porte di un
futuro da «padroni delle ferriere». Per loro fortuna, «le belle
fasce hanno detto il vero», e il trionfo degli orfani conculcati
diviene anche quello di una classe sociale che chiede ai propri
figli, ricondotti a casa dalla mano del destino, di riconoscersi nei
suoi valori, rinunciando con gioia alla ribalda e anarchica libertà
dello straccione e del senza famiglia. A rivendicarla, sia pur senza
troppe speranze, provvede piuttosto un altro tipo di trovatello
quell’Huck Finn che Leslie Fiedler definisce «un orfano adottato
da vedove e zitelle, derelitto, perseguitato dal suo stesso padre,
incompreso dalla comunità rispettabile» e, in conclusione, «vero
ragazzo cattivo» tra i tanti della letteratura americana, perché
indipendente e ribelle.
E mentre Remi si gode,
nel castello di Milligan Park, «il nome onorato dei suoi avi» e il
considerevole patrimonio, Huck medita di partire verso i Territori
indiani, perché «zia Sally vuole di nuovo adottarmi e
incivilizzarmi, e quella è una cosa che proprio non mi va».
Ma non a tutti è dato di
vivere su una zattera, navigando lungo un grande fiume e spesso
l’abbandono coincide con l’ingresso in una famiglia vicaria,
composta di parenti malevoli o distratti... È un destino che tocca
in particolar modo alle bambine: di rado l’autore di libri per
l’infanzia acconsente a mandarle raminghe e indifese per il mondo,
e preferisce sistemarle presso zie perfide o nonni scorbutici. Ma
anche a esse è assicurata la finale epifania che attende orfani e
trovatelli dei libri per bambini Un’epifania garantita anche quando
il punto d’arrivo non è la Famiglia, ma l’Istituzione, come
nella parabola fascista di Giovanni Ernesto Nuccio, Il richiamo
dei fratelli (1934). Nuccio inserisce due orfanelli siciliani in
una «Casa della maternità» così descritta: «Nessun fanciullo
italiano, di quelli che non hanno genitori, deve più patire fame,
freddo o abbandono, a migliaia vengono curati e raccolti
amorosamente, e tutti trovano una casa e una madre e tanti
fratelli...». Accanto alla direttrice dagli occhi turchini, Mamma
Alba, ecco apparire anche un padre: «Lui, il Bersagliere
dalle cento e una ferita, che non si lamentò mai! Lui che
comanda il Bene!». Così, attraverso un’istituzione «totale»,
l’immagine santa della famiglia viene comunque ricomposta, e il
trovatello conosce la sua apoteosi quando si trasforma in Balilla.
Ben diverso è lo sguardo
che sull’istituzione ci consente di gettare Rasmus pa luffen
(ovvero «Rasmus il vagabondo») che Astrid Lindgren pubblicò nel
1956, narrandoci la vita di un orfanotrofio svedese inizio secolo,
dove i bambini sanno di dover parlare con «quel particolare tono da
trovatello che piace al prete e alla direttrice», e dove si attende
con ansia («Oh dio, fa che vogliano me!») la visita di possibili
genitori adottivi, che però scelgono sempre le bambine coi ricci. Da
questo limbo costretto e doloroso Rasmus fugge per vivere le consuete
peripezie dei piccoli e degli orfani, e per trovarsi, come nelle
migliori tradizioni, una famiglia... Ma non sarà un’agnizione a
farlo appartenere a qualcuno, bensì l’amorosa tenacia con cui
vorrà seguire il vagabondo che si è scelto per padre. Rasmus
finisce per diventare un raro esempio di orfano accolto, ma non
«beneficato», di trovatello che è persona e non solo stereotipo:
segno di una nuova capacità propositiva dello scrittore per
l'infanzia, che riesce a prescindere anche dal lieto fine. La
contrapposizione abbandono/controllo (facce diverse di una medesima
medaglia) tipica del romanzo ottocentesco, sfuma e si fa più
ambigua, più articolata, affidando il rapporto adulto-bambino alla
reciproca accettazione e a una scelta consapevole, ma prendendo atto
di sconfitte e di delusioni, destinate, come nella vita, a non essere
sanate
E mentre la realtà
irrompe nella fiaba dell’orfano allo sbaraglio, diventa
indispensabile accennare a un altro approdo, offerto da quel filone
della letteratura per l’infanzia che propone come protagonista
l’orfano per scelta, il bambino senza genitori che vive, da solo,
un’avventura destinata a condurlo nei più remoti «altrove» o ad
affrontare il quotidiano in piena e motivata libertà. Non è un
trovatello, ma qualcuno che non si fa trovare, un imprendibile
folletto che non abbandonerà mai l’Isola che non c’è per farsi
adottare, crescere e andare a lavorare nella City. Appartengono a
questa razza privilegiata i ragazzi perduti, come Peter Pan o il
Martin creato da W.H. Hudson, ma anche le bambine forti e beffarde,
come Pippi Calzelunghe, che a differenza di Alice e Dorothy, torna da
papà solo in visita, e mai per troppo tempo.
Spensierati, innocenti e senza cuore questi eterni orfanelli hanno compiuto una scelta più radicale di quella attribuita da Roald Dhal al suo ultimo personaggio, la geniale Matilde che decide di abbandonare due genitori «indegni» per vivere con l’amata maestra. Perpetuamente in viaggio, essi ci propongono un’infanzia onnipotente che assurge alla dimensione di archetipo. E non si capisce se la loro immagine nasca dal desiderio e dal rimpianto dell’adulto davanti a un’immagine fuggitiva e quasi divina, o dal sollievo di chi è infine riuscito a far tacere ogni voce nella stanza dei bambini, convincendoli a volare lontano, verso «la prima stella a destra e poi avanti fino al mattino» : i Peter Pan sanno badare a se stessi, ma dei trovatelli qualcuno dovrà pure occuparsene.
Spensierati, innocenti e senza cuore questi eterni orfanelli hanno compiuto una scelta più radicale di quella attribuita da Roald Dhal al suo ultimo personaggio, la geniale Matilde che decide di abbandonare due genitori «indegni» per vivere con l’amata maestra. Perpetuamente in viaggio, essi ci propongono un’infanzia onnipotente che assurge alla dimensione di archetipo. E non si capisce se la loro immagine nasca dal desiderio e dal rimpianto dell’adulto davanti a un’immagine fuggitiva e quasi divina, o dal sollievo di chi è infine riuscito a far tacere ogni voce nella stanza dei bambini, convincendoli a volare lontano, verso «la prima stella a destra e poi avanti fino al mattino» : i Peter Pan sanno badare a se stessi, ma dei trovatelli qualcuno dovrà pure occuparsene.
"la talpa giovedì - il manifesto", 20 aprile 1989
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