Per il secondo centenario
della nascita di Hegel, nell'agosto del 1970, “l'Espresso” dedicò
gran parte del supplemento a colori (“l'Espresso colore”) al
filosofo tedesco. Il pezzo forte era costituito da una lunga
conversazione con Gyorgy Lukacs dal titolo Dov'è oggi lo Spirito
del mondo, ma era preceduto
dalla rievocazione di un momento significativo della vicenda umana di
Hegel, il suo coinvolgimento passivo nella battaglia di Jena (1806)
che ebbe come protagonista Napoleone. Valerio Riva che ne è
l'autore costruisce l'articolo, che qui è postato, seguendo in
parallelo gli atti e i movimenti del filosofo e quelli
dell'imperatore. Buona lettura. (S.L.L.)
Il 12 ottobre 1806
Napoleone fu risvegliato a mezzanotte in punto dal suo cameriere
particolare. Erano a Gera, in Sassonia. A 60 chilometri di lì c’era
Weimar, e sulla strada di Weimar, poco prima d’arrivare alla città,
a Kapellendorf, c’era il ’’povero” re di Prussia, ’’così
buono”. L’imperatore si alzò, si lavò il viso, si rivestì,
fece una rapida colazione, poi si mise a tavolino. Scrisse a sua
moglie Giuseppina: «Sto benone; sono perfino ingrassato, da che sono
partito; e dire che ogni giorno faccio, proprio io, di persona, dalle
venti alle venticinque leghe, come mi capita, a cavallo, in carrozza.
Vado a dormire alle otto e mi sveglio a mezzanotte; e qualche volta
penso che a quell’ora forse tu non ti sei ancora coricata».
Quando ebbe finito di
scrivere la lettera, firmò, mise il sigillo e notò l’ora, in
calce: le due del mattino. Era già cominciato il 13 ottobre. A
quell’ora, per la stretta gola che fa il Muhlthal quando pasa sotto
i Landgrafenbergen, quindicimila uomini dell’armata prussiana si
ritiravano in buon ordine, lentamente, in direzione di Weimar. La
notte era quasi tiepida, umida: c’era una gran nebbia. In casa sua,
nel centro di Jena, il professore straordinario Giorgio Guglielmo
Federico Hegel, che da un mese e mezzo aveva compiuto i 36 anni e
versava in gravi preoccupazioni finanziarie, sospese per un attimo il
lavoro: sentiva sparare frequenti colpi di cannone dalle parti di
Gempenbachtal e di Winzerla. La sera prima era stato sulle mura, al
tramonto, e aveva visto gli scontri a fuoco delle pattuglie francesi
e dei soldati prussiani di retro-guardia. Era molto preoccupato: due
pacchi contenenti metà del manoscritto della sua prima opera
importante, la Fenomenologia dello spirito, piedistallo di un
nuovo sistema filosofico, erano stati spediti da una settimana
all’editore Gòbhardt di Bamberga, e il professor Hegel non sapeva
se erano arrivati a destinazione. Ora aveva tra le mani la seconda
metà del manoscritto: bisognava mandarla, d’urgenza, il libro
doveva ad ogni costo uscire per il 1807 e lui in un impeto di
disperazione s’era impegnato a finire gli invii proprio entro
quella settimana. Ma la guerra era arrivata troppo presto: il primo
dei due pacchi era stato spedito fin dall’8, ma Hegel non sapeva
che già dal giorno prima i francesi erano entrati a Bamberga.
La ’’Fenomenologia”
viaggiava attraverso la foresta della Turingia, varcava la Saale,
puntava verso il Meno: e le osti francesi le andavano incontro, con
la rapidità del baleno, travolgendo l’esercito prussiano, mettendo
a sacco le città, portando i vessilli della rivoluzione. Cosa
sarebbe successo di quel fascio di fogli? Dietro ai vessilli
francesi, nei solchi di quei carriaggi viaggiava la libertà assoluta
diventata oggetto a se stessa: in quelle armate l’autocoscienza
aveva imparato “che cosa la libertà sia”; ma quelle spade
avevano pure imparato a suo tempo a dare «la più fredda e piatta
morte, senza altro significato che quello di tagliare una testa di
cavolo o di prendere un sorso d’acqua ».
Prima ancora che la notte
cedesse al giorno e la fitta nebbia si dileguasse, il maresciallo
Lannes, entrato in Jena, aveva deciso di non perdere il contatto con
il nemico. Gli esploratori francesi scoprirono che per scavalcare i
Landgrafenbergen non era strettamente necessario seguire passo passo
i prussiani: per due sentieri difficili e seminascosti si poteva
arrivar fino in cima all’orlo dell’altopiano e di là guardar giù
nella grande vallata che si stendeva tra Jena e Weimar. Per quelle
scorciatoie Lannes spedì una compagnia: giunti in alto i soldati di
Suchet furono attaccati dalle avanguardie del generale prussiano
Hohenlohe a cui Federico Guglielmo aveva affidato la difesa di
Weimar: il generale Reille dovette mandare in rinforzo un battaglione
del 40. Ma in alto, a circa 400 metri, ai francesi si offrì uno
spettacolo terribile e straordinario. La nebbia cominciava a
dissiparsi, la giornata era magnifica: si poteva distintamente
scorgere tutto l’esercito prussiano schierato in battaglia su tre
file, per una distesa di chilometri e chilometri; le alture ad
anfiteatro nereggiavano d’uomini, dal villaggio di
Gross-Schwabhausen fino alle sorgenti dell’Ilm, all’altezza di
Kapellendorf.
Il centro dello
schieramento era a Cospeda, un paese fortemente tenuto dal nemico. In
più sulla strada per Weimar c’era un accampamento di trentamila
uomini. Lannes spedì subito un corriere per portare la notizia
all’imperatore. Erano le sette del mattino.
Tra le 8 e le 9 entrarono
in città i tiratori francesi, seguiti dalle truppe regolari. Era il
momento che Hegel temeva di più: da più d'un mese lo tormentava
l’idea che come conseguenza immediata della guerra sarebbero venuti
dei soldati e avrebbero preteso di installarsi in casa sua. Quegli
“acquartieramenti”, come li chiamava nelle lettere piene di
lamentele al benevolo Niethammer, erano proprio la sua idea fissa.
Avesse potuto andarsene prima da Jena! Quella città una volta tanto
agognata, quando c’erano Schelling e Fichte, adesso gli sembrava un
convento: i suoi amici erano fuggiti quasi tutti, chi in Baviera, chi
nel Baden. Anche Hegel sperava ardentemente di trovare il modo di
trasferirsi ad Heidelberg; ma Kastner gli aveva scritto che il
governo di Karlsruhe era avverso alla nuova filosofia. Per
ingraziarsi il consigliere aulico Voss, che tutti dicevano fosse la
pedina giusta, il professore gli scrisse una letterina esponendogli i
suoi programmi futuri: prima, voleva «insegnare alla filosofia a
parlare tedesco» così come Lutero aveva fatto parlar tedesco alla
Bibbia e lo stesso Voss a Omero; e poi voleva tenere un corso di
estetica nel senso di quel che i francesi chiamavano un “cours de
littérature”. Voss cortesissimo gli aveva risposto, fra tante lodi
e complimenti, che non aveva fondi per un professore in più. Così
Hegel era rimasto a Jena a fantasticare intorno a una rivista di
critica che la smettesse col malvezzo imperante delle recensioni
formalistiche, superficiali, stupide, buone solo ad assolvere e
condannare. E invece la guerra lo aveva incastrato in quella città
che ormai odiava, in mezzo ad abitanti stupidissimi, che nemmeno
sapevano come difendere i loro sacrosanti diritti. L’imperatore
stesso, sosteneva Hegel, aveva autorizzato gli abitanti delle città
tedesche occupate a rifiutarsi di ottemperare a requisizioni
indiscriminate. Bastava comportarsi con dignità e prudenza e dare
alle truppe vittoriose solo quel tanto che era loro strettamente
necessario. Quel 13 ottobre Hegel provò a mettere in pratica la
teoria: ai soldati francesi che gli irruppero in casa diede da
mangiare e da bere. Ma quando ebbero mangiato e bevuto, gli occupanti
vollero dell’altro. Hegel si offese, gridò, ma gli altri gli
andaron sotto il muso coi pugni e con le spade, si lanciarono sui
cassetti, sventrarono i pagliericci, squadernarono gli armadi.
Cristiana Carlotta Giovanna Burckardt, nata Fischer, che era la
padrona di casa, cominciò a piangere: era una donna belloccia, con
un’aria sensuale, e quei manigoldi di francesi non nascosero
d’averci fatto un pensierino. Hegel perse la testa. Per fortuna, si
accorse che uno dei saccheggiatori portava sul petto il nastrino
della legion d’onore. Lo prese per il bavero e con voce che tremava
di sdegno, gli gridò che sperava almeno che un uomo insignito di una
tale onorificenza avrebbe riservato un trattamento onorevole a un
semplice studioso tedesco. I soldati si calmarono e finirono per
prendere solo il vino.
A una lega a nord della
città, in quel momento, i soldati prussiani fecero prigioniero
l’ufficiale francese Eugène de Montesquiou: gli tolsero la
sciabola, la borsa e l’orologio, e lo condussero alla tenda del
principe Hohenlohe.
Al principe, Montesquiou
rivelò di essere latore di una lettera dell’imperatore diretta al
re di Prussia. Era una lettera degna in tutto del “signore del
mondo”: la lettera di una «persona solitaria che si pone di contro
a tutti», immane autocoscienza il cui movimento e il cui godimento
sono anch’essi una “sfrenatezza immane”. Proponeva, la lettera,
di far la pace, subito, visto che quella guerra era proprio
impolitica: «Vostra maestà», aveva scritto Napoleone
(probabilmente sghignazzando), «aveva posto come condizione per il
ristabilimento della pace che le truppe francesi uscissero dal
territorio della confederazione. La condizione è stata osservata:
solo che invece di ripassare il Reno, abbiamo varcata la Saale e
siamo usciti dalla parte opposta ».
Passata la prima paura,
ora Hegel era tornato a pensare ai suoi ’’scartafacci”. Come
fare per spedire il resto a Bamberga? L’unica era augurarsi che i
francesi uscissero vittoriosi anche dalla prossima battaglia, che il
fronte si allontanasse il più possibile, e che la strada
Jena-Bamberga diventasse presto una strada di retrovia, con tanta
maggior sicurezza del servizio di posta. Impiegò tutto il resto del
giorno a trovare un corriere: la signora Voigt gli fece sapere che
avrebbe fatto partire un postiglione l’indomani mattina. Hegel si
precipitò da lei: trovò la casa trasformata in alloggio dello stato
maggiore francese. Suggerì alla Voigt di chiedere una scorta
militare per il postiglione francese. Suggerì alla Voigt di chiedere
una scorta militare per il postiglione. I francesi acconsentirono. La
mattina del 14, l’ultima parte della Fenomenologia partiva
da Jena accompagnata da un drappello di soldati dell’imperatore.
Ma quando Hegel tornò a
casa, capì che la situazione sarebbe presto divenuta insostenibile.
I soldati erano di nuovo minacciosi; già tutt’intorno molte case
erano preda agli incendi. Lui e la signora Burckardt, da soli, non
avrebbero potuto resistere a lungo. Incominciò allora la
peregrinazione.
Presero una cesta, la
riempirono di tutto quello che potevano, e corsero a rifugiarsi nella
casa del commissario Hellfeld. La casa dava sulla piazza del mercato.
Stanco, innervosito, inquieto Hegel si affacciò ad una finestra e
vide tutto il mercato illuminato da una fila di fuochi accesi dai
battaglioni francesi. La piazza era piena di roba saccheggiata dalle
botteghe della città. Era avvenuta la più grande ridistribuzione di
beni che la storia di Jena potesse ricordare. Quello che era stato
proprietà di borghesi, di cittadini, era diventato adesso proprietà
di nessuno o bene comune, su quella grande piazza. Anche Hegel aveva
perso le sue proprietà: probabilmente erano ammucchiate nella
piazza, tra i falò dei bivacchi. Gli venne da pensare quanto fosse
poco vera l’affermazione di Kant secondo cui proprietà e non
proprietà sono in sé non contraddittorie. Considerate
dialetticamente, come faceva in quel momento, apparivano entrambe
molto contraddittorie. Il saccheggio e la ridistribuzione erano
avvenuti in nome dell’eguaglianza dei singoli: ma per quei soldati
il bisogno che avevano di quella roba era diverso dal bisogno che ne
aveva Hegel: per loro era un bisogno accidentale, momentaneo, usare e
gettare: per lui, era il bisogno di procurarsi un bene stabile, un
uso senza termine. Ma ecco la contraddittorietà: se quei beni
venivano distribuiti secondo i bisogni, appariva l’ineguaglianza:
se distribuiti secondo l’uguaglianza, «la quota di partecipazione
alla proprietà dei singoli non aveva rapporto al bisogno». In
quella gran trasmigrazione e deperimento di beni. la proprietà gli
appariva fondamentalmente contraddittoria: benché valga in quanto
solo è stabile, la sua natura consiste nell’essere usata, nel
“dileguare”.
A Jena, Napoleone arrivò
alle due del pomeriggio. I notabili della città gli avevano
preparato una degna accoglienza. Ma Napoleone si fermò solo un
attimo. Lannes gli aveva fatto sapere che i prussiani s’erano già
messi in moto: due grandi corpi di armata avevano abbandonato Weimar
e ora marciavano uno verso Naumbourg e l’altro verso Jena, agli
ordini del principe Hohenlohe. L’imperatore non ebbe esitazioni:
meglio andar subito a vedere dall’alto del Landgrafenberg com’era
la situazione. Risalì a cavallo, e uscì dalla città, diretto alle
colline.
Al professor Hegel sembrò
di vederlo uscire in ricognizione. Il primo pensiero che gli venne,
fu dove potesse mai essere in quel momento il re di Prussia. Dicevano
che stava a una decina di chilometri da Iena, ma vedendo Napoleone
seduto su un cavallo uscire al trotto dalla città, Hegel non poté
fare a meno di dirsi, sorridendo, che forse il buon Federico
Guglielmo doveva esser già molto più lontano di Kapellendorf.
Il re era invece press’a
poco dove lo situava la voce popolare. Napoleone lo sapeva benissimo:
e sapeva anche che finché lui restava dentro Jena dominata dalla
scarpata dell’altopiano, sarebbe stato come dentro un sacco.
Bisognava portare tutto l’esercito su in alto, in posizione
dominante, e trasportare lassù soprattutto l’artiglieria.
Napoleone non era capace di star fermo: faceva continuamente la spola
tra la città e l’altopiano, e quand’era lassù si spingeva tanto
avanti da correre il rischio di capitare tra le file del nemico. Ora
il sole era molto calato sulla linea dell’orizzonte e il crepuscolo
mostrava cose e persone come avvolte in una ambigua penombra. A un
certo momento le sentinelle francesi videro una sagoma davanti a
loro, la presero per un ricognitore nemico, spararono: per un
miracolo non centrarono l’imperatore. Ma come mai l’artiglieria
non era ancora arrivata? Napoleone aveva fretta. Preso da un’ansia
febbrile, decise di tornare di nuovo in pianura: e a metà strada la
vide, la sua artiglieria: bloccata nel letto d’un torrente così
angusto che i mozzi delle ruote degli affusti s’incastravano nelle
sponde di pietra dell’incassatura. Gli venne una furia immensa,
l’ira gl’impediva di parlare. Riuscì appena a chiedere dove
fosse il generale comandante dell’artiglieria; gli fu risposto che
non era ancora arrivato. Senza più dire una parola, s’avvicinò ai
serventi che cercavano a colpi di piccone e di pala di allargare il
passaggio, prese una lanterna, l’accese e tendendo il braccio
illuminò la roccia perché potessero lavorar meglio. I soldati
raddoppiarono i colpi. Restò lì fino a notte inoltrata: finalmente,
pezzo per pezzo, l’artiglieria riuscì a passare. Ora, in silenzio,
al buio, l’esercito francese prendeva ordinatamente posizione, a
due passi dal nemico. La nebbia ricominciava a levarsi. Napoleone
aveva ritrovato il suo buon umore. Era mezzanotte.
A quell'ora Hegel aveva cambiato un’altra volta di casa. Neanche dagli Hellfeld era stato possibile fermarsi. Sempre seguito dalla Burckardt e dalla cesta, Hegel si ricordò di un suo allievo, il Gabler. che avrebbe potuto dargli una mano. Il padre di Gabler era prorettore; Hegel sapeva che adesso in casa sua alloggiava un ufficiale superiore dell’esercito francese: il luogo era dunque sicuro. Ma per quella coppia spaventata e infelice i Gabler non avevano posto. Il figlio si ricordò però che in soffitta era vuota una cameretta da studente. Accompagnò il filosofo e la Burckardt fin lassù in cima: la stanzetta era angusta, fredda, mal illuminata. Ma per la prima volta Hegel si sentì al sicuro. Mentre la Burckardt si stendeva sul letto, il professore, seduto su una poltrona sgangherata riusciva finalmente a riflettere. Rivedeva la scena del pomeriggio, l’imperatore, tanto agognato, sogno di tanti giorni, mesi, anni, l’uomo a cui, bene o male, apertamente o meno, aveva dedicato sostanzialmente quel suo primo grande tentativo di sistemazione filosofica che era la Fenomenologia: quell’uomo di cui aveva parlato in quelle pagine in termini oscuri, faticosi, ma come animati da un brivido e da una foga misteriosi. Era lui “il signore del mondo”? Era la persona assoluta che in sé raccoglie ogni essere determinato e per la cui coscienza non esiste nessuno spirito più alto? Lo aveva visto tutto «concentrato in un punto», «seduto su un cavallo», «irradiarsi sul mondo e dominarlo». Era la coscienza di quel contenuto che, liberato dalla propria forza negativa, si svelava come il caos delle potenze spirituali scatenate quali essenze elementari, prese pazzamente da una furia di distruzione? Oppure era, come gli era sembrato un’altra volta, lo «spirito coscienzioso», il concreto spirito morale, che non compie questo o quel dovere, ma sa e fa ciò che è concretamente giusto? Il trotto deciso di quel cavallo, la subitanea consapevolezza di Hegel, in quell’attimo, che qualunque cosa facesse il re di Prussia, qualsiasi fossero gli auspici della giornata, Federico Guglielmo avrebbe perso e Napoleone trionfato, gli avevano dato una improvvisa intuizione: aveva lì, din#hzi a sé, non più l’inerte coscienza della moralità, non più l’oscillante certezza della coscienza, ma una certezza incrollabile, la consapevolezza di compiere solo il dovere puro, che ha la sua verità nella certezza immediata di se stesso. Quel pomeriggio su quel cavallo egli aveva visto veramente passare 1’”anima del mondo”.
Ma a chi poteva dirle
quelle cose? Alla Burckardt che dormicchiava su quel letto? Aveva
forse potuto scriverle apertamente nella sua opera? Da quando,
allievo di teologia a Tubinga, aveva piantato di nascosto in un
campo, con i suoi amici, un albero della libertà e segretamente
s’era pasciuto di riviste proibite, di clandestine notizie dalla
Francia, da quando negli scritti cosiddetti teologici aveva cercato
di scardinare il cristianesimo in nome della santità della polis
greca, e poi, svanita l’idealizzazione che aveva fatto
dell’antichità s’era impadronito della religione disvelata e ne
aveva fatto un edificio interamente laico, da allora egli si era
sentito il filosofo della rivoluzione, l’aveva analizzata,
descritta, riassunta e tutta rappresentata. Ma in termini oscuri, in
una retorica faticosa, in una specie di tormentosa ipocondria: ora le
aveva innalzato un sistema, e un pezzo di quel sistema lo aveva
finalmente lì davanti agli occhi. Ma sapeva già anche come sarebbe
andata a finire: «Di nuovo si ricostituisce l’organizzazione delle
masse spirituali, nelle quali viene distribuita la folla delle
coscienze individuali. Queste, che hanno provato la paura del loro
signore assoluto», che sono cioè passate attraverso il terrore e la
morte, «si rassegnano di nuovo alla negazione e alle differenze,
tornano a ordinarsi sotto le masse». La restaurazione seguiva alla
rivoluzione. Eppure il ciclo non doveva continuare in eterno:
guardando di colpo tutto all’indietro, come se la storia fosse
finita in quel momento, Hegel intuiva che per un ribaltamento
improvviso, il puramente negativo poteva diventare puramente
positivo. Non più un governo anarchico, ma la volontà universale,
la libertà assoluta passata dall’autodistruzione
all’autocoscienza, essenza perfetta e compiuta. Nella notte, nel
gran silenzio seguito a una giornata di rombi e di scoppi, in mezzo a
tutto quel fumo e alle luci di tutti quegli incendi, il professor
Hegel si sentiva finalmente al termine della storia. La ’’Bastiglia
tedesca” stava per cadere.
Cadde infatti il giorno
dopo. Il 15 ottobre cominciò con una nebbia così spessa che
l’aiutante di campo di Lannes, Meyer, spedito ad ordinare alla
brigata Claparède di appoggiare a sinistra, sperdutosi nella nebbia
sentì d’un tratto delle voci vicinissime e s'accorse di essere
andato a finire tra i tedeschi. Le armi cominciarono a sparare, da
una parte e dall’altra: erano le nove del mattino, non ci si vedeva
di qui a lì, e francesi e tedeschi facevano fuoco davanti a loro a
casaccio, nella nebbia. Ma quando il sole a poco a poco forò la
nebbia, i due schieramenti si ritrovarono l’uno addosso all’altro:
da una parte gli indecisi prussiani, impreparati ad una battaglia per
quel giorno; dall’altra i francesi che «manovravano come ad una
parata». Napoleone aveva dato ordini ben precisi: attaccare
arditamente tutto ciò che è in marcia, non dare al nemico la
possibilità di riunirsi e di riorganizzarsi, approfittare di tutti
gli sbagli o gli equivoci dell’avversario, non lasciarlo fermare,
non combattere da fermi, adottare la tattica del movimento perpetuo.
Sulle alture di Jena, l’anima del mondo calava l’hegelismo nella
strategia militare. Alla fine della giornata il re di Prussia cercava
scampo in una disperata fuga attraverso i campi, i soldati prussiani
si disperdevano in disordine per tutta la campagna, migliaia e
migliaia di prigionieri coperti di sangue sfilavano disfatti dinnanzi
all’imperatore. Napoleone tornò a Jena che era già notte. Murat e
Rapp correvano al gran galoppo verso Weimar, superando di volo i
resti di ventotto squadroni e ventisei battaglioni prussiani accorsi
troppo tardi sul teatro della battaglia: sul bordo della strada
videro il corpo del comandante tedesco, Ruchel, esanime, straziato da
una palla nel petto. I due francesi avrebbero voluto acciuffare la
regina,che Napoleone considerava la causa della guerra. Ma la regina
era scappata da qualche ora, in lacrime. Non rimaneva che la vecchia
duchessa. Ci fu qualche confusione nel palazzo, all’arrivo dei
francesi, ma durò poco. Scossa, ma fierissima, la vecchia signora
accolse con apparente serenità i due ufficiali francesi ed
educatamente li invitò a cena. I due accolsero l’invito. Goethe,
che aveva appena finito di scrivere il “Faust" e faceva anche
lui il tifo per Napoleone annotava: «la nobildonna è stata di una
ammirevole dignità».
Tra gli incendi, in mezzo
alle grida dei soldati francesi ormai dediti al saccheggio più
sfrenato, la città di Jena passava l’ultima notte di grande paura.
Dall’alto dell’abbaino in cui li aveva messi lo zelante ma
beffardo Glaber, il professore e Cristiana Burckardt avevano smesso
di guardare atterriti le stragi e le devastazioni. Avevano chiuso la
finestra, tirate le tendine, stavano entrambi sul letto, e si
stringevano disperatamente. «L’amore», aveva scritto qualche anno
prima il professore, «è più forte della paura... L’amore è un
reciproco prendere e dare. Timoroso che i suoi doni possano venir
scherniti, timoroso che un opposto non voglia cedere al suo prendere,
esso cerca di far la prova per vedere se la speranza non lo ha
ingannato... Ciò che più intimamente è proprio si unifica nella
carezza, contatto sensuale, fino a smarrire la coscienza: e un
embrione di immortalità si è fatto». Nove mesi dopo Cristiana
Burckardt partoriva un figlio illegittimo di Hegel, lo chiamava
Ludwig, e gli dava il suo cognome di zitella, Fischer. Il professore
era già da molti mesi a Bamberga; per nessuna ragione sarebbe mai
più tornato indietro, a quell’abbaino alto sopra gli incendi, a
quella donna che ora gli sembrava opaca e spudorata. Cominciava
quella che Lukàcs ha chiamato «la tragedia tedesca».
"L'Espresso colore", ritaglio senza data, ma agosto 1970
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