Che Silvio Berlusconi, il personaggio più inquietante uscito dalla ricomposizione della destra italiana dopo la fine della prima repubblica, fosse presente il primo gennaio di cinque anni fa al funerale di Giorgio Gaber, si spiega sicuramente come un gesto di cortesia nei confronti della moglie del cantautore, esponente del suo partito, Forza Italia. Che però si sia rimasti tutti alquanto perplessi nel vedere il magnate di Arcore porgere l'ultimo saluto a colui che nel mondo della canzone fu, per molto tempo, la coscienza critica, l'intelligenza più lucida e lo «chansonnier» più vicino alla sinistra di movimento in Italia si spiega ugualmente.
Gaber fu artista di grande talento, personaggio irrequieto e dalle molteplici vite ma, se se ne analizza l'opera, nulla, almeno in apparenza, potrebbe mai far immaginare una possibile vicinanza a lui del cavaliere, abituato di solito a demonizzare chi bazzica ambiti così lontani dai propri e a considerare sempre le commemorazioni come un fatto di parte (come dimostra, ad esempio, la sua tradizionale assenza alle manifestazioni in ricordo del 25 aprile). Non aveva, infatti, Gaber esorcizzato quella P2, alla quale Berlusconi era iscritto in La presa del potere? Non aveva egli messo in guardia, ne La peste, dalla continua rinascita di quel neofascismo che il capo di Forza Italia avrebbe definitivamente, come oggi si suole dire, «sdoganato»? Non aveva egli, più volte, denunciato quell'americanizzazione grossolana (Lamerica), quell'istupidimento televisivo (La strana famiglia), quel conformismo moralista (La chiesa si rinnova) e quel populismo autoritario (La collana) che sono la cifra più profonda del programma politico dell'ex presidente del consiglio? Che cos'era dunque successo?
La carriera dell'artista milanese è nota: partito come chitarrista rock'n'roll nei tardi anni Cinquanta, Gaber divenne un personaggio televisivo popolare nel decennio successivo, sia come cantante che come conduttore, ma intanto le sue composizioni, legate ai personaggi della periferia milanese (La ballata del Cerutti, Le nostre serate, Trani a gogo, Com 'è bella la città), già brillavano per quelle singolari caratteristiche di umorismo e di pathos esistenziale che lo facevano essere parte di quei «cantautori» che stavano all'epoca rivoluzionando la canzone italiana. Tuttavia, con una svolta improvvisa e radicale, nel 1970 Gaber mollò il mondo televisivo e cominciò a lavorare in teatro con una serie di spettacoli, a cadenza pressoché annuale, che entravano nel vivo della difficile situazione politica dell'Italia di quegli anni. Il signor G presentato al Piccolo Teatro di Milano nella stagione 1970-71 è ancora opera «giovanile»: in esso vengono trattate tematiche come la solitudine, l'alienazione, i rapporti di classe, che troveranno sistematizzazione ben più coerente nelle opere successive. In Dialogo tra un impegnato e un non so, del 1972, questi temi cominciano a definirsi meglio, il linguaggio si fa meno rarefatto e il senso del lavoro di Gaber comincia ad essere più chiaro: un «teatro-canzone» di intervento civile ma venato di individualismo, dove il politico e il personale si intrecciano continuamente e dove si rifugge dal facile canzonettismo per approdare a un nuovo tipo di linguaggio scenico in cui i riferimenti colti a quelli che da allora in poi saranno gli autori prediletti dal cantautore (Adorno e Céline, soprattutto, ma anche Pasolini, Beckett e gli «anti-psichiatri» Laing e Cooper) si tradurranno in una stra ordinaria fisicità scenica, con una mimica facciale e una gestualità strepitose, per dare corpo e voce a idee complesse di non facile esposizione al di fuori delle opere letterarie nelle quali erano state concepite. I riferimenti della nuova canzone di Gaber sono inizialmente quelli francesi, soprattutto Jacques Brèl, di cui riprende alcuni espedienti musicali, ad esempio il famoso «crescendo» del grande artista belga, e anche alcuni brani (ancora non si capisce, infatti, come sia stato possibile tradurre e adattare canzoni come Jef, divenuta L'amico e Les bourgeois, divenuta I borghesi senza indicare sui dischi l'autore originale), mentre più avanti guarderà anche a Dylan sviluppando poi nel tempo parti musicali sempre più complesse e suggestive, con riferimenti al jazz-rock e alla musiche etniche. Già nel Dialogo, però, pur essendo chiaramente un militante della sinistra, Gaber assume una posizione critica e insofferente: ne è un esempio Gli operai, in cui sbeffeggia il mito della «centralità della classe operaia» («È una vita che fate la retorica sugli operai; ma basta con questi discorsi, basta»), o Un'idea, in cui avverte la discrasia fra teoria e prassi («Se potessi mangiare un'idea avrei fatto la mia rivoluzione»). Gli spettacoli degli anni successivi (Far finta di essere sani, del 1973, Anche per oggi non si vola, del1974, Libertà obbligatoria, del 1976, fino a Polli d'allevamento del 1978) continueranno con sempre maggiore consapevolezza, e con una scrittura sempre più tagliente e implacabile (che dal 1973, almeno ufficialmente, si avvale della collaborazione per i testi del pittore Sandro Luporini), a ritagliare all'attore-cantautore un ruolo da «corvo», da scomodo compagno di strada, da inflessibile accusatore delle contraddizioni della militanza, degli sbandamenti e dell'annegamento degli ideali rivoluzionari in un dilagante conformismo ipocrita. Ed è proprio Polli d’allevamento la pietra dello scandalo: contestazioni, accuse di qualunquismo, fischi, interruzioni per uno spettacolo in cui Gaber spara a zero su tutti i miti della sinistra rivoluzionaria del tempo, come in Quando è moda è moda: «Sono diverso e certamente solo e parlo molto male di prostitute e detenuti da quanto mi fa schifo chi ne fa dei miti. Non sono più compagno né femministaiolo militante, mi fanno schifo le vostre animazioni, le ricerche popolari e le altre cazzate e finalmente non sopporto le vostre donne liberate con cui voi discutete democraticamente». Non pago del risultato, il cantautore raddoppia la dose nel 1981 con Anni affollati, in cui attacca l'impegno in musica («Anni affollati di mani sentenziose che maltrattano le chitarre, anni affollati per fortuna siete già passati»), preceduto, nel 1980, dalla registrazione su una sola facciata di un disco autoprodotto, Io se fossi dio. Canzone di rara potenza demiurgica e di eccezionale coraggio, l'invettiva di Io se fossi dio, senza badare alle possibili conseguenze, distrugge l'Italia che stava per immergersi negli effimeri anni Ottanta, dai «grigi compagni del Pci» ai socialisti «insinuanti, astuti e tondi», dai radicali («la parola compagno non so chi te l'ha data ma in fondo ti sta bene tanto ormai è squalificata»), fino ai giornalisti, ai brigatisti e al leader della Dc Aldo Moro, assassinato due anni prima («E se al mio dio gli fa rabbia chi spara, gli fa rabbia anche il fatto che un politicante qualunque, se gli ha sparato un brigatista, diventa 'l'unico statista'. Io se fossi dio ci avrei ancora il coraggio di dire che Aldo Moro, insieme a tutta la democrazia cristiana, è il responsabile maggiore di trent'anni di cancrena italiana»). Un brano che non ha precedenti nella storia della canzone, e non solo italiana; una sferzata che può trovare qualche antecedente solo in alcune durissime composizioni di Léo Ferré (Il n'y a plus rien o Le chien, tra le altre) che comunque risultano meno circostanziate.
Anni affollati chiude un ciclo, quello più creativo e quello per il quale, soprattutto, l'artista rimarrà nella storia della canzone: il distacco con i suoi vecchi fan del Gaber «teatrale», però, è ormai sancito. Gli anni seguenti saranno trionfali, con un pubblico sempre più eterogeneo e la continuazione della solida collaborazione con Luporini, ma ormai Gaber gira in tondo: il contesto non sembra più ispirarlo come un tempo e, a parte Il grigio, spettacolo di sola prosa del 1989, la bravura dell'interprete supplisce spesso alla carenza di idee nuove; ne sono spia sia la frequente ripresa di vecchi brani, sia certi titoli (E pensare che c' era il pensiero, del 1995, Un’idiozia conquistata a fatica, del 1997), dove è evidente che si indulge su una rappresentazione ormai scontata di una società rimbambita dal dominio del mercato e dei mass media, una visione principalmente derivata dalle teorie di Adorno nel frattempo fortemente ridimensionate dall'affermazione di nuovi studi sociologici che cominciavano a intravedere, nella stessa cultura di massa, forme di «resistenza» simbolica e di riappropriazione culturale. Un capitolo a parte merita il brano Qualcuno era comunista, amaro bilancio di un'intera stagione politica, con parole di grande efficacia e penetrazione per descrivere quell'umanità che sdoppiava la propria vita tra le fatiche della quotidianità e l'impegno a «spiccare il volo per cambiare veramente la vita» finendo poi per ritrovarsi ormai definitivamente inserita nel sistema ma senza più le ali per volare: «Due miserie in un corpo solo». Poi, a fianco di tutto questo, per un artista che non ha mai rinnegato esplicitamente la propria «appartenenza», cose incomprensibili (ma forse non troppo) nonostante gli equilibrismi verbali messi in campo per motivarle: il sostegno alla moglie Ombretta Colli candidata nelle liste di Forza Italia e Berlusconi che, intervistato dal “Corriere della sera” dopo la sua scomparsa, ricordava, ineffabile, il Gaber della sua gioventù: «Tutti abbiamo canticchiato le sue canzoni. Io sono nato negli stessi quartieri di Gaber a Milano e mi piacciono i testi di ambientazione ambrosiana. Come molti di noi ho nel cuore La ballata del Cerutti». Sul resto, dunque, silenzio. Cosa resta allora di Gaber? Da un lato un grande autore che ha saputo raccontare in musica e versi il politico e il privato di un'epoca (con un'insolita e precorritrice attenzione per gli aspetti emotivi e corporei della sfera privata), dall'altro un personaggio che rispecchia, nel suo percorso spiraliforme, le ambiguità, le aporie e i controversi destini di molte personalità che presero parte attiva a quegli anni turbolenti.
Alias – il manifesto, 19 GENNAIO 2008
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