La sera del 29 marzo
1963, per l’esattezza alle 18, lo storico della scienza Giorgio de
Santillana teneva al teatro Carignano di Torino, per invito
dell’Associazione Culturale Italiana, una conferenza sul tema Il
Fato nell’antichità e nell’era atomica. Il tema era
inconsueto, l’oratore pieno di passione e di ironia: e, a quel che
si racconta,riuscì, in un’ora, a scuotere molte idee ricevute.
Saverio Vertone su “l'Unità” stroncò la conferenza: “Erudita,
proclive ad una sorta di citazionismo universale […] e non di rado
confusa ed ermetizzante, la esposizione del filosofo ha finito col
ridursi ad una specie di inno, tra il lirico e il patetico,
all’irrazionalismo. Di qui[…] anche […] gli accenni polemici al
marxismo e alla sua pretesa «meccanizzazione della storia»”. Ma
quell'esposizione colpì profondamente Italo Calvino, che ne riparlò
più volte nella sua vita e che, a detta degli studiosi ne trasse
ispirazione per le sue Cosmicomiche.
Su Santillana e su quella conferenza lo scrittore ritornò più di
vent'anni dopo quando Adelphi ne decise la pubblicazione in volume
insieme con altri studi e con titolo lievemente modificato. Fu
l'occasione per tracciare un quadro d'insieme sulle ricerche di
Santillana, un geniale outsider degno anche oggi di attenzione. (S.L.L.)
Giorgio de Santillana |
"Cinque volte nel
corso di otto anni avviene che la stella Venere si levi al momento
che precede il levar del sole (momento solenne in molte civiltà).
Ora, i cinque punti così marcati sull' arco delle costellazioni, e
congiunti secondo l' ordine del loro succedersi, si rivelano formare
un pentagramma perfetto (cioè il disegno d' una stella a cinque
punte). Questo sembra proprio un dono degli dèi agli uomini, un modo
di rivelarsi. Onde i Pitagorici dicevano: Afrodite si è rivelata nel
segno del Cinque. E il segno è diventato magico. Ma quale intensità
di attenzione e di memoria non ci volle per fermare in mente nelle
loro posizioni i cinque lampeggiamenti in otto anni del pianeta che
appare per poi perdersi subito nella luce del mattino - per
ricostruire con l'intelletto il diagramma che essi suggerivano".
Da questa straordinaria precisione degli antichi nell'osservare la
volta del cielo, parte Giorgio de Santillana in un libro piccolo di
mole quanto denso e affascinante di contenuto: Fato antico e fato
moderno (Adelphi).
Va detto subito cosa
Santillana intende per "antichi" e per "precisione".
Gli "antichi" sono coloro che nel V millennio a.C. tra
Caldea, Egitto e India elaborarono "i lineamenti colossali di
una vera astronomia arcaica, quella che fissò il corso dei pianeti,
che dette il nome alle costellazioni dello zodiaco, che creò
l'universo astronomico - e con esso il cosmo - quale lo troviamo già
pronto quando comincia la scrittura, verso il 4000 a.C.". Le
testimonianze di questa sapienza nel calcolo del tempo astrale sono
nelle proporzioni degli zigguratt della Mesopotamia (la Torre
di Babele del calunniato Memrod era uno di questi complicati modelli
dell'ordine del cosmo), così come nella disposizione dei megaliti di
Stonehenge. Quando comincia la scrittura e con essa ciò che noi
intendiamo per Storia, sembra che quella identificazione della mente
umana coi movimenti celesti cominci a venir meno; Platone è ancora
"l'ultimo degli arcaici e il primo dei moderni"; con
Aristotele la sapienza cosmica è già dissolta.
Quanto alla precisione, è
"una passione di misura, che fa tutto centrato sul numero e sui
tempi... In alto vi saranno i numeri puri, poi le orbite del cielo,
più giù le misure terrestri, i dati geodetici, poi l'astromedicina,
le scale e gli intervalli musicali, poi le unità di misura, capacità
e peso, poi la geometria, i quadrati magici...". Gli egiziani
simboleggiavano la precisione in una piuma leggerissima che serve da
peso sul piatto della bilancia delle anime. "Quella piuma
leggera ha nome Maat, Dea della Bilancia, Dea del rigore e della
stretta osservanza, di quella implacabile giustezza che tien luogo di
giustizia nello scompartire il bene dal male... Il geroglifico di
Maat indicava anche l' unità di lunghezza, i 33 centimetri del
mattone unitario, e anche il tono fondamentale del flauto".
Questa precisione sembra a Santillana molto più essenziale di quella
della fisica moderna, cui dedica questo passo: "È ben vero che
la realtà fisica per conto suo tira calci per vendicarsi dei suoi
conoscitori, sparandoci in faccia una confusione di particelle
elementari transeunti e mal distinte, insulto al buon senso, fra cui
lo scienziato si aggira ormai come l'impallinato nella notte".
(Citazione che merita di figurare in un'antologia ideale, a
testimoniare il piglio e lo stile del Santillana scrittore, e la
causticità del suo sarcasmo; ma che va situata alla data in cui è
stata scritta, una ventina d' anni fa: prima, cioè, della nuova
ventata d'euforia che - se bene intendo - è tornata a gratificare la
fisica subatomica).
Giorgio de Santillana
(1901 - 1974), romano, vissuto per trentacinque anni o più negli
Stati Uniti dove era professore al M.I.T., è stato uno storico della
scienza (Processo a Galileo è uno dei suoi libri più noti)
che nella sua indagine sulla storia del pensiero sopratutto
matematico e astronomico ha dato largo spazio al mito ("primo
linguaggio scientifico") e all'immaginazione letteraria. La sua
monumentale opera Il mulino di Amleto, scritta in
collaborazione con una etnologa tedesca (allieva di Frobenius), Herta
von Dechend, ha per sottotitolo Saggio sul mito e sulla struttura
del tempo ed è paragonabile al Ramo d'oro di Frazer per
la sterminata ricchezza di fonti antropologiche e letterarie che
intesse in una fitta rete attorno a un tema comune. La chiave di
tutti i miti, che per Frazer era il sacrificio rituale del re e i
culti della vegetazione, per Santillana-Dechend sono le regolarità
del tempo zodiacale e i suoi cambiamenti irreversibili su lunghissima
scala (precessione degli equinozi) dovuti all'inclinazione
dell'eclittica rispetto all'equatore. L'umanità porta con sè una
memoria remota degli spostamenti celesti, tanto che tutte le
mitologie conservano la traccia d'avvenimenti che si producono ogni
2.400 anni circa, quali il cambiamento del segno zodiacale in cui si
trova il sole all'equinozio; non solo, ma quasi altrettanto antica è
la previsione che l'incessante lentissimo movimento del firmamento si
saldi in un immenso ciclo o Grande Anno (26.900 anni dei nostri).
I crepuscoli degli dèi
registrati o previsti in varie mitologie si collegano a queste
ricorrenze astronomiche; saghe e poemi celebrano la fine dei tempi e
l'inizio d'ere nuove, quando "i figli degli dèi uccisi
troveranno nell' erba i pezzi tutti d'oro del gioco di scacchi che fu
interrotto dalla catastrofe". Risalendo dalle fonti della
leggenda d'Amleto nelle cronache danesi e nelle mitologie nordiche, e
coinvolgendo poi africani Dogon, induismo, aztechi, autori greci e
latini, Santillana e Dechend rintracciano l'affiorare d'una prima
problematica filosofica: l'idea d'un cosmo ordinato le cui norme
risultano sconvolte da una catastrofe fisica e morale; e, in risposta
a ciò, l'aspirazione al ritrovamento d'un'armonia.
Il mulino d'Amleto
è stato tradotto in Italia da Adelphi l'anno scorso (era uscito in
America nel 1969); se su queste colonne non se n'è parlato allora, è
stato - come talora succede - proprio per il troppo entusiasmo di
noialtri recensori, che ci ha fatto prima disputarci il libro tra
noi, poi divorare le cinquecento pagine troppo in fretta, per poi
lasciarci bloccati di fronte al compito di riassumerlo. La
pubblicazione di Fato antico e fato moderno mi dà l'occasione
di riparare almeno in parte, perché il volumetto uscito ora è un
po' un' introduzione, una dichiarazione preliminare delle tesi
dell'opera maggiore. Infatti il testo che apre il libro e gli dà il
titolo è una conferenza che Santillana fece per l'ACI in varie città
italiane nel 1963, e pubblicò poi su “Tempo presente” di Nicola
Chiaromonte (in quegli anni una delle più belle riviste italiane).
Ascoltando la conferenza nel 1963, ne ebbi come la rivelazione d'un
nodo d' idee che forse già ronzavano confusamente nella mia testa ma
che m'era difficile esprimere; e sarebbero state difficili da
esprimere anche dopo, ma da quel momento sono stato cosciente d'una
distanza da colmare, d'un qualcosa a cui "far fronte".
(Santillana: "Ed è cosa da poco che il nome stesso della
scienza in greco, epistème, significhi far fronte?").
Dico l'idea che nessuna storia e nessun pensiero umani possano darsi
se non situandoli in rapporto a tutto ciò che esiste
indipendentemente dall'uomo; l'idea d'un sapere in cui il mondo della
scienza moderna e quello della sapienza antica si riunifichino.
Rileggendo ora il testo, ritrovo l'emozione di quando Santillana uscì
con l'esempio inaspettato di Pierre Bezuchov in Guerra e pace,
che fatto prigioniero e in pericolo di vita guarda le stelle e pensa
che tutto questo cielo è in lui, è lui.
Il tema comune dei
quattro saggi di questo piccolo libro è il nesso tra Fato e libertà,
cioè il posto dell'uomo nell'universo così come lo concepivano gli
antichi, o meglio gli arcaici (e quegli arcaici conservatisi tali
fino alle soglie del nostro tempo, cioè i cosiddetti primitivi): il
Fato che sovrasta tutti, uomini e dèi (gli dèi sono identificati
nei pianeti, che comandano ogni mutamento) e la libertà che può
essere raggiunta solo da chi comprenda e rispetti le leggi e le
misure del Grande Orologio.
Il Fato era dunque ben
diverso da quella potenza imperscrutabile, oscuramente connessa con
le nostre colpe, che è diventato dai tempi della tragedia greca fino
ai nostri: al contrario, l'idea di Fato implicava la conoscenza
precisa della realtà fisica, e la coscienza del suo impero su di
noi, necessario e ineluttabile. I veri rappresentanti d'uno spirito
scientifico erano dunque loro, gli arcaici; non noi che crediamo di
poterci servire delle forze naturali a nostro piacimento, e dunque
partecipiamo d' una mentalità più vicina alla magia. Il coincidere
col ritmo dell'universo era il segreto dell'armonia, "musica"
pitagorica che ancora in Platone regola l'astronomia come la poesia e
l'etica. Ma è anche il senso della necessità, quello che risorgerà
in mutata forma con Keplero, Galileo, Bruno, "in cui
l'intelletto si apre a fini che non son più limitatamente umani, e
si sente di abbracciare e complettere il tutto in uno splendido amor
Fati".
È dunque un determinismo
rigoroso quello che Santillana sostiene? Certo in ogni teorizzazione
in questo senso, dal Timeo di Platone alla predestinazione
calvinista o all'abbandono islamico, egli trova motivi di consenso
("le più grandi energie libere della storia" sono state
scatenate da idee che sembrano nate apposta per reprimerle), ma
vediamo come egli continuamente contrappone due atteggiamenti diversi
che si ripresentano in ogni epoca di fronte all'ineluttabile: da una
parte un tragico senso di colpa e dall'altra la serenità classica di
chi - "primitivo" o supercivilizzato - accettando la
necessità stabilisce il proprio posto nel mondo, l'armonia. E certo
le simpatie di Santillana vanno a questi ultimi - per quanto egli
sappia con pari sensibilità evocare i valori degli uni e degli
altri. Silenzio, musica e matematica: il programma pitagorico è
contenuto in questo trinomio; e sui Pitagorici - comprensibilmente
prediletti da Santillana - questo libro dà di scorcio definizioni
illuminanti, così come un'ampia e convincente interpretazione di
Parmenide. (Precisazioni che s' aggiungono a quanto è detto su
entrambi gli argomenti in una precedente, molto utile opera di
Santillana, Le origini del pensiero scientifico, Sansoni 1966,
ora reperibile ai Remainder' s.) Ma è difficile stabilire nettamente
dove Santillana è pro e dove è contro. Se talora egli sembra
esaltare un'età dell'oro prealfabetica e tingere in nero la cultura
tecnologica d'oggi asservita alla macchina, egli è pur sempre pronto
a dissolvere ogni illusione idillica sulle civiltà arcaiche,
mostrando tutti gli orrori e i traumi psichici che comportava il
vivere a quei tempi; così come d'ogni situazione nuova sa mettere in
luce i valori, le possibilità che realizza - insieme ai disvalori e
alle perdite.
Uno straordinario saggio
storico contenuto in questo volume nasce come relazione a un convegno
di cardiologia, sui diversi tipi di stress a cui furono sottoposti
gli uomini nelle varie società: una storia delle civiltà in
negativo che non può essere utilizzata né dai sostenitori del
progresso né dai loro antagonisti sistematici: ogni epoca ha le sue
nevrosi collettive, e non è detto che fossero tutte inevitabili.
"Lasciamo dunque le virtù del buon tempo antico. Lasciamo la
douceur de vivre. La prima descrizione clinica di un manicomio
è quella di Arthur Haslam, che fu primario di Bedlam. Vi si vedono
non solo condizioni inconcepibili, ma casi di psicosi che non hanno
riscontro nei nostri manuali. Un altro mondo".
Se il lettore di
Santillana cerca delle generalizzazioni di cui convincersi su due
piedi (il pensiero spazializzatore che domina la scienza negli ultimi
secoli è male, mentre è bene il pensiero fondato sul tempo; oppure:
la coscienza non aggiogata al pensiero individuale era un vantaggio
sulle nostre angosce), può anche trovarle; ma saranno smentite alla
pagina seguente, se non nello stesso capoverso. Il suo è il
movimento stesso dell'intelligenza, che comprende più ancora che non
giudichi, e talora giudica per comprendere, pronto a giudicare
diversamente quando si tratta di comprendere una cosa diversa:
atteggiamento necessario per lo storico, purché sappia evitare ogni
meccanica dialettica così come ogni relativismo morale; lui ci
riesce avendo sempre sveglio il senso dei valori: verità oggettiva
ed empatia umana. Per esempio, tutti i benefici che gli psichiatri e
i neurologi riscontrano nell'assenza di dubbio e di scelta, non
possono far dimenticare a Santillana che ciò vuol dire anche assenza
di sense of humour: una perdita che certo lui non si sarebbe
sentito mai d' affrontare.
“la Repubblica”, 10
luglio 1985
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