Scritto tra il 52 e il
‘53, mentre C. L. R. James si trovava rinchiuso a Ellis Island come
«undesiderable alien» in attesa di espulsione dagli Usa, il libro
su Melville (Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman
Melville e il mondo in cui viviamo, con postafazioni di Bruno
Cartosio e Gianni Mariani e una nota biografica di Enzo Traverso,
Ombre Corte), si inserisce a pieno titolo nella discussione
inaugurata qualche anno prima da F. O. Matthiessen, che in American
Renaissance (1941) aveva rintracciato il tratto distintivo dei
grandi scrittori americani nella loro adesione alle idee di
democrazia e di libertà, dando così l’avvio a una febbrile
attività interpretativa dalle non troppo dissimulate intenzioni
politiche. Per C. L. R. James, scrittore nero, militante
panafricanista e teorico diventato marxista, a suo dire, grazie alla
contemporanea influenza di due libri, La storia della rivoluzione
russa di Trotzkij e Il tramonto dell’Occidente di
Spengler, e quindi non facilmente permeabile da suggestioni
sull’immediata espansività del sogno americano, Moby Dick
travalicava ampiamente, per la sua grandezza, i limiti del romanzo
moderno. E poiché proponeva la tragedia di un intero ordine sociale
e culturale - non quella di un singolo individuo - poteva essere
posto sullo stesso piano dell’Orestea o del Re Lear.
Il viaggio sugli oceani
del Pequod è il viaggio della civiltà moderna «alla ricerca del
suo destino». È questa dimensione propriamente tragica a
fare del microcosmo del Pequod il nostro stesso mondo, «the world we
live in», come recita il sottotitolo del libro. Per C. L. R. James,
Melville coglie in Moby Dick i primi segni della degenerazione
che avrebbe ribaltato la democrazia in totalitarismo, depositandoli
in una trama narrativa coniugata al futuro anteriore. In Achab egli
rintraccia l’apparizione del moderno dittatore dell’età delle
masse, nella ciurma molti-tudinaria e meticcia dei marinai i
rinnegati e i reietti, l’umanità selvaggia in cui si allacciano i
legami sociali della comunità a venire, nel Pequod la metonimica
cifra complessiva della fabbrica sociale fordista, in Ismaele - il
narratore, cui il critico di Trinidad è uno dei primi a prestare la
dovuta attenzione - l’alienato intellettuale contemporaneo, sospeso
tra la seduzione del potere e l’esistenza ordinaria, ma
«indistruttibile» di un equipaggio anonimo fatto di semplici
cittadini del mondo.
Parallelamente alla
Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer (uscita
qualche anno prima ad Amsterdam, nel 1947), il libro di C. L. R.
James legge il viaggio del Pequod come un’allegoria della civiltà
moderna. Il delirio di Achab espone nave ed equipaggio alla totale
autodistruzione in cui viene portata a compimento la doppia struttura
di dominio del sistema capitalistico. Il Pequod è un sistema di
fabbrica, la cui razionalità di scopo Melville, «metodico come un
sociologo», restituisce in pagine belissime («una baleniera è
stata la mia Università di Yale e la mia Harvard», Melville avrà
modo di confessare, con parole non dissimili da quelle di chi,
nell’Italia degli anni ’60, si troverà a riconoscere nella Fiat
la propria Università): pagine che raccontano ome la meticolosità e
l’orgoglio del lavoro vengano compresse ed espropriate da un
dispositivo di organizzazione che si personalizza nella follia del
suo comandante. E, allo stesso tempo, esso è quanto Achab è
disposto ostinatamente a sacrificare, in una caccia sin dall’inizio
destinata a ritorcersi contro di lui e la sua nave, in un’impresa
il cui senso finale è la pura riproduzione del suo potere personale
su uomini e cose. La verità della lotta contro la balena sono le
bombe di Nagasaki e Hiroshima; è Auschwitz, in cui la creazione
demoniaca della borghesia moderna, la civiltà della tecnica, sfugge
al controllo e trascina i suoi evocatori nella catastrofe di un
naufragio generale, in cui la pretesa di dominio sulla natura (Moby
Dick) si rovescia contro coloro che le hanno dato l’avvio.
A differenza di Adorno e
Horkheimer, tuttavia - ed è questo il motivo per cui C. L. R. James
elegge a motivo centrale della sua interpretazione quella che a molti
americanisti è sempre parso essere un narrative minore - lo
scontro non è già quello di Achab contro balena (o di Achab e
Starbuck), ma quello tra Achab e la ciurma. Marinai, rinnegati e
reietti non esaurisce negativamente il proprio sforzo critico
nella denuncia del necessario collasso della civiltà occidentale, ma
in esso si sforza di recuperare i frammenti di una possibile
redenzione futura. Lo sguardo sul romanzo (sulla grande fabbrica
fordista e sul sistema di dominio che la percorre e la sostiene) è
lo sguardo di un intellettuale nero detenuto a Ellis Island. Che vi
sperimenta - come ci viene raccontato nel tormentato settimo capitolo
del libro, tolto dalle edizioni successive e poi ripubblicato - non
soltanto la personale difficoltà della coerenza da tenere a fronte
delle autorità che lo stanno inquisendo e che da lui pretendono
un’apologia del sistema americano molto difficile, se non
impossibile da pronunciarsi, ma anche, e soprattutto, le autonome
linee di comunicazione e di solidarietà tra i migranti, le forme
della loro cooperazione globale e sovversiva, la materiale realtà di
esistenze che sconfessano la «colossale idiozia» di
un'amministrazione, che nei detenuti dell’isola vede semplici
«individui isolati in cerca di carità e di una casa negli Stati
Uniti. Perché l’America è di certo migliore dei loro paesi
d’origine, poveri e arretrati» e non comprende la potenza della
loro mobile soggettività.
I marinai, i rinnegati e
i reietti di cui si compone la ciurma del Pequod - e le cui biografie
reali, si potrebbe ricordare, compongono la trama della storia
segreta dell’Atlantico rivoluzionario recentemente ricostruita da
Peter Linebaugh e Marcus Rediker (The Many-Headed Hydra. Sailors,
Slaves, Commoners and the Hidden History of Revolutionary Atlantic,
Boston, 2000) - appartengono al futuro. Questo è ciò che fonda, per
C. L. R. James, la loro contemporaneità. Il Pequod e Ellis Island
raccontano una stessa storia. Con uno scarto significativo, però. Se
la comunità dei «vili marinai» di Melville è tenuta insieme in
termini di pura contiguità spaziale solo da una chiglia e dalla
mente geniale e folle del suo comandante, se non possiede nemmeno la
consapevolezza dell’unità che si realizza nella solidarietà e nel
lavoro di bordo e che potrebbe essere attivata contro di lui (è il
motivo del perché la ciurma non si ribella ad Achab), quella dei
detenuti di Ellis Island - che a differenza degli isolati dannati del
Pequod, «sanno tutto», come C. L. R. James si trova a constatare -
discutono tra di loro di politica internazionale e confrontano le
proprie esperienze di fuga e di lavoro, si passano articoli di
giornale e se li traducono gli uni con gli altri, sono in grado di
scegliere dove vivere orientandosi tra i diversi dispositivi di legge
nazionali. Formano, dunque, una moltitudine consapevole di sé e
capace di orientarsi da sola sulle rotte globali di un mondo
costruito come aperto dal loro gesto di defezione e di libertà.
La «suprema ironia» di
Ellis Island (e forse la segreta morale che solo parlando di lì, da
dentro quel centro di detenzione, è dato trarre dall’opera di
Melville) è - come scriverà C. L. R. James - che mentre il
Dipartimento di Giustizia degli USA, ponendo in contraddizione con se
stesso il dettato costituzionale americano, mette in atto una
spietata politica anti-immigrazione, i migranti - i marinai, i
rinnegati e i reietti che hanno rotto gli ormeggi con i propri paesi
di provenienza - «diventano sempre più consapevoli di essere
cittadini del mondo», registrando in quella consapevolezza il dato
di fatto della propria forza e della propria autonomia.
Nella lunga notte della
guerra fredda che segue gli esperimenti totalitari degli anni ‘30 e
‘40 e che contrae il sogno americano nel delirio paranoico del
senatore McCarthy, solo il gesto di liberazione del prendere il mare
e il sistema di rapporti paritario e franco della comunità di fuga
dei migranti può segnare uno scarto, per C. L. R. James, nella
parabola che fa tocquevillaneamente degenerare la moderna libertà
astratta in precondizione di dominio, la cooperazione sociale
sorvegliata in mera servitù.
“il manifesto”, 26
novembre 2003
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