Lo scritto che segue, di Franco Fortini, originariamente pubblicato sul “Quotidiano dei Lavoratori” e poi inserito nel volume Insistenze (Garzanti, 1985), risente del clima che seguì il rapimento di Aldo Moro, l’uccisione della sua scorta, il voto di fiducia a un governo Andreotti, un monocolore Dc che si presentava come espressione della solidarietà nazionale e che il Pci di Berlinguer, attestato sulla linea del “compromesso storico”, votò compattamente.
Una delle più sgradevoli manifestazioni di quel clima fu la polemica contro i “cattivi maestri” e in particolare contro quegli intellettuali di grande prestigio internazionale come Leonardo Sciascia, o come Fortini, appunto, che rifiutavano di trasformare la loro abissale distanza dalle teorie e dalle pratiche delle Brigate Rosse in un sostegno all’“unità nazionale contro il terrorismo” e al governo che pretendeva di incarnarla.
Al tempo non ero d’accordo con quegli intellettuali, pure ammiratissimi: approvavo la linea della “fermezza” sostenuta dal mio partito. Tuttavia dissentivo dal tono di Amendola o di altri “destri” come Napolitano o Bufalini, che lanciavano scomuniche verso i “vili” intellettuali, traditori della patria assediata. La mia “diversità” era peraltro doppiamente marginale, per il mio ruolo poco significativo nel partito e perché limitata ai toni.
Il conservare nel blog questo testo di Fortini non è adesione postuma alle sue tesi , è un invito a me stesso e ad altri a guardare senza tabù a quel momento, a sforzarsi di capire se non prendesse corpo, proprio in quei giorni, una “tendenza” all’unità ad ogni costo, un modo di essere del Pci che trova le sue propaggini ultime oggi. Nell’indecente supporto del presidente Napolitano al governo di Monti e della grande finanza speculativa; nel voto Pd a tutte le scelte governative, anche le più brutalmente antipopolari, in nome di un’emergenza patriottica. (S.L.L.)
Rifiuto di associarmi al coro unanime che dall'«Osservatore Romano» al «Corriere della Sera», passando per «l'Unità», chiede di non sottilizzare, di non distinguere, di non offrire coperture intellettuali al terrorismo.
Il coro domanda in realtà la sospensione del giudizio critico. Vuole atti di fede. Non li compio. Non ho nessuna difficoltà a chiamare assassini gli assassini e a ritrarmene con disgusto. Ma rifiuto il tentativo di usare le parole unità, democrazia, nazione, bene pubblico come copertura di una azione politica, di quella, voglio dire, che ha portato ad un governo senza opposizione, dove convivono i rappresentanti degli sfruttatori e degli sfruttati, gli interessi degli assassini e quelli degli assassinati. Nella precisa proporzione in cui il mio dissenso della politica del compromesso storico non ha alcuna presente alternativa da indicare, il mio dovere, in sede strettamente politica, sarebbe di tacere.
Ma siccome non c'è solo quella sede, ho anche un altro dovere: cercare di interpretare i sentimenti di coloro che vorrebbero avere ma non hanno alcuna alternativa, appunto, agli attuali stendardi politici. Ero in piazza del Duomo nove anni fa quando la classe lavoratrice chiese verità e giustizia intorno alle vittime di piazza Fontana. Non permetto a nessuno di invocare la folla di ieri come un alibi per continuare, quella giustizia, a non farla o ad amministrarla nella imperterrita continuità del regime. Un poeta ebbe a scrivere che, alla liberazione di Parigi, nel '44, per non punire i colpevoli si rapavano delle puttane. Per non punire o per non saper punire i colpevoli si dice oggi alle folle di scendere in piazza a sdegnarsi sugli assassini e a siglare il patto di «unità nazionale». Bene, voto contro.
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