3.4.18

Le settecentesche riflessioni di Samuel Johnson “sugli ultimi fatti relativi alle Isole Falkland” (Italo Calvino)


Un'arida e cupa solitudine, un’isola bandita da ogni commercio umano, tempestosa d’inverno, e sterile d’estate; un’isola che nemmeno i selvaggi meridionali hanno considerato degna d’essere abitata; in cui una guarnigione la si deve tenere in uno stato tale da far pensare con invidia agli esili della Siberia; che avrà un costo continuo, e un uso solo saltuario; e che, se la fortuna arriderà ai nostri sforzi, potrà tutt’al più diventare un nido di contrabbandieri in pace, e in guerra il rifugio di futuri bucanieri».
L’isola descritta con colori così poco allettanti è la maggiore delle Falkland, e chi ne parla è un propagandista governativo inglese, che difende dagli attacchi dell’opposizione la decisione di non scatenare una guerra per un territorio di nessun valore. Siamo nel 1771 e il propagandista governativo è il più illustre letterato inglese dell’epoca, il dottor Johnson.

Le navi di St. Malo
Scovare questo pamphlet noto solo agli eruditi e tradurlo mentre le cronache della guerra di questa primavera sono ancora fresche nella nostra memoria (anche se il consumo di notizie belliche quest’anno procede a ritmo incalzante) è un bel record per una casa editrice che non si è mai mostrata smaniosa di correre dietro all’attualità (Samuel Johnson, Riflessioni sugli ultimi fatti relativi alle Isole Falkland, a cura di Ludovico Terzi, Adelphi). È un modello di giornalismo politico, e si legge d’un fiato (almeno per una cinquantina di pagine; ripetizioni e prolissità sono per fortuna accantonate alla fine), e Ludovico Terzi vi ha premesso una prefazione molte ricca, utile e gustosa.
Già allora, come il dottor Johnson spiega, gli inglesi chiamavano Falkland’s queste isole (o almeno la più grande, mentre l'altra era chiamata Pepys, dal nome del segretario dell’Ammiragliato, a noi noto come l’autore dei famosi diari), mentre Maluinas (nome dato dai francesi, in onore delle navi di St. Malo che secondo loro erano state le prime ad approdarvi) era la «denominazione ora usata dagli spagnoli, che fino a tempi molto recenti non sembravano averle considerate così importanti da meritare un nome». Letto oggi, il pamphlet non è certo fatto per piacere agli argentini, ma nemmeno agli inglesi (dico, ai nazionalisti delle due parti).
Johnson fa brevemente la storia delle isole che molti pretesero d’essere stati i primi a scoprire, ma dove nessuno aveva trovato convenienza di fermarsi; finché nel 1765 gli inglesi non installarono una guarnigione a Port Egmont (oggi Port Stanley), con scopi militari immediati ma poco convinti di doverci restare; e il racconto di questo insediamento è una pagina finissima per scetticismo implicito ed economia espressiva. Ma Johnson non spiega (sebbene dal contesto risulti chiaro), che nello stesso tempo gli spagnoli avevano una guarnigione loro in un altro porto della stessa isola, Puerto Soledad (che Johnson scrive Solidad), dove era insediato un governatore di Sua Maestà Cattolica. (Si trattava dell’ex-porto dei francesi, Port Louis, da loro venduto agli spagnoli, e cui poi gli inglesi ridiedero il vecchio nome francese). Dunque l’isola era degli inglesi solo per metà, o meglio: ciò che importava era solo il possesso dei porti, non dei territori aridi, che non servivano a niente.
(Siccome bastano pochi mesi per farci dimenticare fatti, nomi e carte geografiche che hanno occupato i nostri canali televisivi e mentali fino a ieri, non è inutile un pocket-book che si trova in queste settimane nelle librerie e edicole italiane e che contiene tutti i dati e le date e i fatti del recente conflitto e dei suoi precedenti: Dobson-Mil-ler-Payne, The Falkland Conflict, Coronet Books).
L’ironia di Johnson è tutta indirizzata a minimizzare l’importanza del possesso: «Una cosa di cui noi stessi eravamo quasi stufi, non pensavamo che nessun altro potesse invidiarcela; e perciò immaginavamo di essere autorizzati a risiedere nell’Isola di Falkland, signori incontestati delle solitudini battute dalla tempesta».
La prima impressione a leggere questa cronaca settecentesca è che le situazioni si sono ripetute identiche (nel 1769 una goletta spagnola s’avvicina e gli inglesi le intimano d'allontanarsi; l’anno dopo gli spagnoli arrivano con quattro fregate e gli inglesi si convincono a lasciare l’isola); la seconda impressione è che tutto è stato differente (la guerra non ci fu: perché gli spagnoli, appena visto che gli inglesi erano pronti a far sul serio e avevano con velocità senza precedenti allestito una flotta da guerra, fecero marcia indietro e restituirono l’isola; e perché gli inglesi si contentarono che gli spagnoli, pur non rinunciando a sostenere un proprio «diritto prioritario» sulle isole, ne riconoscessero il «possesso di fatto» agli avversari).
Erano insomma tutti molto meno stolti d’adesso, e non perdevano il senso delle proporzioni. Gli inglesi anche allora seguivano il sacrosanto principio di non arrendersi di fronte alla prepotenza e all’aggressione (nelle cose piccole, come allora e come quest’anno, e nelle grandi, come nel 1940), ma riuscirono a evitare la guerra perché fu sufficiente mostrare la loro «forza di dissuasione», e qui va reso merito al realismo del governo spagnolo che s’affrettò a sconfessare il governatore di Buenos Aires, Buccarelli. (Già allora la massima autorità dell’Argentina aveva un nome italiano!).

Onore offeso
C’era, sia da una parte che dall'altra, la coscienza che per il diritto di chiamare quegli scogli Falkland’s o Malvinas non valeva la pena di far morire centinaia di persone. Almeno, questo si ricava dalla prosa di Johnson, che questa coscienza ce l’aveva ben chiara: «Che un tale insediamento possa essere utile in guerra, considerando la sua posizione nessuno potrebbe negarlo. Ma la guerra non è la sola cosa che conti nella vita; c’è di rado, e ogni uomo di buona volontà o di buon senso vorrebbe che fosse ancor meno frequente».
Certo allora non era in gioco quel catalizzatore della stupidità collettiva che è il nazionalismo. L’introduzione di Ludovico Terzi sottolinea i vantaggi che il linguaggio politico d’allora aveva su quello d’adesso. (Gran parte della controversia si svolse attraverso scambi epistolari a tutti i livelli: tra capitani di corvetta e governatori di porti, e tra le cancellerie dei due imperi). Allora da una parte e dall’altra si parlava di «onore» e di «ingiuria fatta alla corona», concetti quanto mai astratti ma codificabili, che non soffocavano il senso della realtà e lasciavano sempre una possibilità di aggiustare le cose. (Contro ciò che era definito «ingiuria» bastava trovare qualcosa che potesse essere definito «soddisfazione»). Assurdo per assurdo, il linguaggio d’allora non arrivava agli estremi di ridicolo (nella tragedia) di quello d’oggi che tira in ballo l’«imperialismo» e l'«antimperialismo» per territori popolati da pinguini.
Il dottor Johnson ha la rara ventura per un propagandista ufficiale di trovarsi a difendere una causa saggia e per di più già vinta: la «soddisfazione» di tornare a occupare l’isola senza sparare un colpo gli inglesi l’avevano avuta, anche se il loro possesso era solo provvisoriamente accettato dalla Spagna poi dall'Argentina, come si vede dalle vicissitudini del 1820, del 1833 e della primavera scorsa); mentre l’opposizione di Pitt il vecchio, con cui egli polemizza, per sostenere la tesi della guerra alla Spagna a ogni costo, esasperava la questione dell’«onore offeso». Dal che si vede che quel linguaggio poteva dar adito a soluzioni sagge quand’era usato da gente con la testa sul collo; e poteva combinare disastri quando era in bocca a scriteriati. (Se la stessa cosa si possa dire del linguaggio d’oggi non lo so, perché gente con la testa sul collo non ne vedo).
Di parlare più diffusamente di Samuel Johnson si presenteranno altre occasioni: vedo che «Il Saggi tore» preannuncia un’edizione di suo «conte philosophique», Rasselas. Per ora voglio solo indicare quintessenza della sua saggezza in questo passo: «Si direbbe che qua tutti gli storici cadano nell’errore di credere che, come in fisica, così anche in politica ogni effetto abbia una causa proporzionata ad esso. Nell'azione inanimata della materia sulla materia il moto prodotto non può essere che pari alla forza della sua causa efficiente; ma i meccanismi della vita umana, sia pubblica che privata, non ammettono simili leggi. I capricci dell'azione volontaria rendono ogni calcolo ridicolo. Non è sempre vero che c’è una forte ragione per ogni grande evento».


"la Repubblica", ritaglio senza data, ma 1982

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