Fatti tutti i conti,
della letteratura italiana intorno alla metà del secolo, Buzzati è
uno degli autori sicuri che resistono al passare degli anni. Dico il
Buzzati del Deserto dei Tartari (1940) e dei primi racconti (I
sette messaggeri, 1942) e degli altri tra quelli scritti poi che
appartengono alla stessa vena. Dico il Buzzati che si mette a
scrivere facendosi forte d'un’idea di precisa evidenza, d’una
struttura narrativa solida, d’una strategia d’effetti sicura.
Altri autori dell’epoca
risentono di più della distanza dall’oggi: occorre maneggiarli con
circospezione, trovare l’illuminazione giusta, rimettersi «in
situazione» e in sintonia per apprezzarne tensione espressiva,
temperie esistenziale, atmosfera psicologica. Lui, proprio perché
più in stile con lo stile dell’epoca, quel Novecento con qualche
sovrastruttura eclettica che s’estendeva dalla letteratura
all’arredamento, sembra aver raggiunto per la via più rapida
quell’atemporalità che è il traguardo dei classici.
Insomma avevano ragione
gli stranieri, soprattutto i francesi, presso i quali Buzzati ha
goduto subito d’una quotazione critica certo più alta che in
patria. E avevano ragione le nostre reazioni di lettura giovanili,
che ne erano affascinate; almeno così fu per me adolescente, da
quando cominciai a distinguere la sua firma sotto gli elzeviri del
«Corriere» a quando il titolo dei Sette messaggeri campeggiò
nella grafica azzurra e bianca di quella prima collana Mondadori di
narratori nuovi, stampata sulla carta cattiva del tempo di guerra.
Ero nell’età in cui
Poe regnava sul mio Pantheon (e forse non è stato mai detronizzato)
così come aveva regnato su quello di Buzzati; e Buzzati indicava che
la strada di Poe la si poteva ritrovare lì a due passi, così come
Poe m’apriva dietro a Buzzati prospettive dilatate. Devo dire che
lo stampo del racconto buzzatiano, preciso come un meccanismo che si
tende dal principio alla fine in un crescendo d’attesa, di
premonizione, d’angoscia, di paura, diventando un crescendo
d’irrealtà, diede forma al mio modo di concepire una narrazione.
Tanto che quando appena finita la guerra mi misi a scrivere storie
che passavano per neorealiste, era l’insorgere d’angoscia, di
paura, d’irrealtà delle situazioni buzzatiane che operava in me
come modello.
Una mosca
nell’inchiostro
In seguito scrittori più
problematici e più densi di coscienza intellettuale ebbero su di me
un ascendente che sembrava mettere in ombra quella prima lezione, ma
si trattava d’un altro tipo d’influenze. L’iper-intellettualismo
dei tempi che seguirono sembrava scivolasse, senza sfiorarlo, intorno
a quest’uomo asciutto e civilissimo che vedevamo muoversi
imperturbabile e gentile attraverso le sere milanesi degli inverni
esistenzialisti e ideologici. Oggi comprendiamo che la sua misura nel
mantenersi in una dimensione artigiana dello scrivere era la sua
forza ; una dimensione il cui valore oggi la cultura letteraria
dovrebb’essere in grado di riconoscere, ma che allora rifiutava.
Anzi, i difetti di una parte della sua produzione (soprattutto i
commenti, le sottolineature, le didascalie inutili che guastano anche
racconti che potrebbero essere di prim’ordine) suonano come
stonature perché vanno contro a una regola di buon artigianato,
prima ancora che di sapienza poetica.
Confesso che per fedeltà
a questa forma di racconto chiusa e stilizzata non hi mai voluto
leggere Un amore (1963) né ho tenuto in molto conto le brevi
prose di In quel preciso momento ( 1950), testi che vedo messi
in valore dalla scelta d Giuliano Gramigna per il «Meridiano» dei
Romanzi e racconti (1975). (Ma sono d’accordo con l’idea
critica fondamentali di Gramigna: che la definizione di «borghese»
più volte attribuita a Buzzati sia di intendersi non in senso
limitativo della sua poesia ma come la sua sostanza attiva).
In un’inchiesta de «Le
Monde» del 1972 a una domanda sui migliori esempi di «fantastico»,
Buzzati elenca, oltre a Poe, Hoffmann e altri esempi prevedibili, un
racconto della Mansfield, La mosca «sebbene appartenga alla
letteratura realistica». È un racconto che sperimenta i senso della
morte attraverso un’immagine simbolica: una mosca annegata
nell’inchiostro, seguita con minuziosa crudeltà. Questo è il
fantastico per Buzzati: la morte come vertigine dell’ignoto
assolute che si esplora attraverso simboli.
L’epopea del
nulla
La schematicità delle
sue invenzioni, che poteva talora apparire come un freddo supporto di
tubi cromati, era la semplicità dei temi fondamentali — come
l’attesa e i preannunci della morte — che quanto più sono comuni
a ogni tempo tanto più si caricano d’un senso storico, perché è
nel diverso modo di sentirli che si definisce un’epoca. Così
l’ambientazione indeterminata in cui si svolge Il deserto dei
Tartari (che il bel film di Zurlini ha tradotto in uniformi
austroungariche, inserendolo così in una genealogia mitteleuropea,
chiave di lettura anche questa plausibile) per il lettore che è
stato giovane quarant’anni fa restituisce perfettamente l’atmosfera
italiana d’entre-deux-guerres, il modo in cui i lunghi
periodi di vita militare incidevano nelle giovinezze borghesi, col
loro tempo diverso e sospeso, e soprattutto l’atmosfera interiore,
il senso d’un mondo rinserrato su se stesso, con le sue depressioni
e i suoi deliri.
La forza di Buzzati sta
nella sua capacità d’astrazione: ossia di convertire un’emozione
incorporea in immagini concrete che abbiano la nettezza di concetti
astratti. (Così cerco di ricostruire l’impressione che mi fece una
novella come Dolore notturno). Un racconto stringato come il
famoso Sette piani può definirsi una riduzione ai minimi
termini d’un’opera enciclopedica come «La montagna incantata»
di Thomas Mann (per quanto strano possa parere, questo romanzo è una
delle letture che Buzzati dichiara come sue fondamentali, anche per
Il deserto dei Tartari), ma come la formula d’una funzione
algebrica che descrive il meccanismo essenziale del suo movimento. E
Il deserto dei Tartari, dopo un inizio che dà al lettore il
senso del vero piacere del romanzo, dell’ingresso in un mondo
d’immaginazione cui abbandonarsi senza riserve, dimostra con
l’evidenza d’un teorema come oggi non possa più darsi avventura,
come l’immobilità blocchi da ogni parte i nostri spiriti vitali,
come solo il nulla celebri la sua epopea. Il modo come lungo tutto il
libro si mescolano il fascino del romanzesco e l’impossibilità del
romanzo è il segreto della bellezza assorta e austera di quest’opera
unica, che resta il capolavoro di Dino Buzzati.
“la Repubblica”, 1
novembre 1980
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