2.4.18

“Quel Deserto che ho attraversato anch'io”. Il capolavoro di Dino Buzzati (Italo Calvino)


Fatti tutti i conti, della letteratura italiana intorno alla metà del secolo, Buzzati è uno degli autori sicuri che resistono al passare degli anni. Dico il Buzzati del Deserto dei Tartari (1940) e dei primi racconti (I sette messaggeri, 1942) e degli altri tra quelli scritti poi che appartengono alla stessa vena. Dico il Buzzati che si mette a scrivere facendosi forte d'un’idea di precisa evidenza, d’una struttura narrativa solida, d’una strategia d’effetti sicura.
Altri autori dell’epoca risentono di più della distanza dall’oggi: occorre maneggiarli con circospezione, trovare l’illuminazione giusta, rimettersi «in situazione» e in sintonia per apprezzarne tensione espressiva, temperie esistenziale, atmosfera psicologica. Lui, proprio perché più in stile con lo stile dell’epoca, quel Novecento con qualche sovrastruttura eclettica che s’estendeva dalla letteratura all’arredamento, sembra aver raggiunto per la via più rapida quell’atemporalità che è il traguardo dei classici.
Insomma avevano ragione gli stranieri, soprattutto i francesi, presso i quali Buzzati ha goduto subito d’una quotazione critica certo più alta che in patria. E avevano ragione le nostre reazioni di lettura giovanili, che ne erano affascinate; almeno così fu per me adolescente, da quando cominciai a distinguere la sua firma sotto gli elzeviri del «Corriere» a quando il titolo dei Sette messaggeri campeggiò nella grafica azzurra e bianca di quella prima collana Mondadori di narratori nuovi, stampata sulla carta cattiva del tempo di guerra.
Ero nell’età in cui Poe regnava sul mio Pantheon (e forse non è stato mai detronizzato) così come aveva regnato su quello di Buzzati; e Buzzati indicava che la strada di Poe la si poteva ritrovare lì a due passi, così come Poe m’apriva dietro a Buzzati prospettive dilatate. Devo dire che lo stampo del racconto buzzatiano, preciso come un meccanismo che si tende dal principio alla fine in un crescendo d’attesa, di premonizione, d’angoscia, di paura, diventando un crescendo d’irrealtà, diede forma al mio modo di concepire una narrazione. Tanto che quando appena finita la guerra mi misi a scrivere storie che passavano per neorealiste, era l’insorgere d’angoscia, di paura, d’irrealtà delle situazioni buzzatiane che operava in me come modello.

Una mosca nell’inchiostro
In seguito scrittori più problematici e più densi di coscienza intellettuale ebbero su di me un ascendente che sembrava mettere in ombra quella prima lezione, ma si trattava d’un altro tipo d’influenze. L’iper-intellettualismo dei tempi che seguirono sembrava scivolasse, senza sfiorarlo, intorno a quest’uomo asciutto e civilissimo che vedevamo muoversi imperturbabile e gentile attraverso le sere milanesi degli inverni esistenzialisti e ideologici. Oggi comprendiamo che la sua misura nel mantenersi in una dimensione artigiana dello scrivere era la sua forza ; una dimensione il cui valore oggi la cultura letteraria dovrebb’essere in grado di riconoscere, ma che allora rifiutava. Anzi, i difetti di una parte della sua produzione (soprattutto i commenti, le sottolineature, le didascalie inutili che guastano anche racconti che potrebbero essere di prim’ordine) suonano come stonature perché vanno contro a una regola di buon artigianato, prima ancora che di sapienza poetica.
Confesso che per fedeltà a questa forma di racconto chiusa e stilizzata non hi mai voluto leggere Un amore (1963) né ho tenuto in molto conto le brevi prose di In quel preciso momento ( 1950), testi che vedo messi in valore dalla scelta d Giuliano Gramigna per il «Meridiano» dei Romanzi e racconti (1975). (Ma sono d’accordo con l’idea critica fondamentali di Gramigna: che la definizione di «borghese» più volte attribuita a Buzzati sia di intendersi non in senso limitativo della sua poesia ma come la sua sostanza attiva).
In un’inchiesta de «Le Monde» del 1972 a una domanda sui migliori esempi di «fantastico», Buzzati elenca, oltre a Poe, Hoffmann e altri esempi prevedibili, un racconto della Mansfield, La mosca «sebbene appartenga alla letteratura realistica». È un racconto che sperimenta i senso della morte attraverso un’immagine simbolica: una mosca annegata nell’inchiostro, seguita con minuziosa crudeltà. Questo è il fantastico per Buzzati: la morte come vertigine dell’ignoto assolute che si esplora attraverso simboli.

L’epopea del nulla
La schematicità delle sue invenzioni, che poteva talora apparire come un freddo supporto di tubi cromati, era la semplicità dei temi fondamentali — come l’attesa e i preannunci della morte — che quanto più sono comuni a ogni tempo tanto più si caricano d’un senso storico, perché è nel diverso modo di sentirli che si definisce un’epoca. Così l’ambientazione indeterminata in cui si svolge Il deserto dei Tartari (che il bel film di Zurlini ha tradotto in uniformi austroungariche, inserendolo così in una genealogia mitteleuropea, chiave di lettura anche questa plausibile) per il lettore che è stato giovane quarant’anni fa restituisce perfettamente l’atmosfera italiana d’entre-deux-guerres, il modo in cui i lunghi periodi di vita militare incidevano nelle giovinezze borghesi, col loro tempo diverso e sospeso, e soprattutto l’atmosfera interiore, il senso d’un mondo rinserrato su se stesso, con le sue depressioni e i suoi deliri.
La forza di Buzzati sta nella sua capacità d’astrazione: ossia di convertire un’emozione incorporea in immagini concrete che abbiano la nettezza di concetti astratti. (Così cerco di ricostruire l’impressione che mi fece una novella come Dolore notturno). Un racconto stringato come il famoso Sette piani può definirsi una riduzione ai minimi termini d’un’opera enciclopedica come «La montagna incantata» di Thomas Mann (per quanto strano possa parere, questo romanzo è una delle letture che Buzzati dichiara come sue fondamentali, anche per Il deserto dei Tartari), ma come la formula d’una funzione algebrica che descrive il meccanismo essenziale del suo movimento. E Il deserto dei Tartari, dopo un inizio che dà al lettore il senso del vero piacere del romanzo, dell’ingresso in un mondo d’immaginazione cui abbandonarsi senza riserve, dimostra con l’evidenza d’un teorema come oggi non possa più darsi avventura, come l’immobilità blocchi da ogni parte i nostri spiriti vitali, come solo il nulla celebri la sua epopea. Il modo come lungo tutto il libro si mescolano il fascino del romanzesco e l’impossibilità del romanzo è il segreto della bellezza assorta e austera di quest’opera unica, che resta il capolavoro di Dino Buzzati.

“la Repubblica”, 1 novembre 1980

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