PRATO — Fa
freddo nella storia, dice un poeta. E uno immagina i lutti, le
devastazioni, i campi di battaglia, le deportazioni e tutto l'orrore
di cui grondano i secoli. Ma a qualcuno la storia piace calda, una
stanza, un tepore domestico, i piccoli grandi fatti d’ogni giorno,
la routine quotidiana. Cose che gli storici fino a qualche tempo fa
non si sognavano nemmeno di raccontare. Poi arrivarono le Annales, la
rivista francese fondata nel 1929 da Lucien Febvre e Marc Bloch e, in
seguito, diretta da Fernand Braudel, e la storia ebbe la sua
rivoluzione, copernicana o meno, e non fu soltanto un elenco di
battaglie, la storia del soldati e dei principi regnanti, fu anche la
storia dei senza storia, degli uomini che vivevano e morivano, che
mangiavano e che avevano paura. E, a dire il vero, anche in questa
storia spesso faceva freddo.
Fu anche una storia che
sfuggiva ai tempo dei calendari e si affidava all'onda lunga, al
movimenti secolari, millenari. La storia della lunga durata, come la
chiamò Braudel. Non solo la storia degli uomini ma anche la storia
dello spazio dentro il quale gli uomini si muovevano, la storia di un
mare, ad esempio, il Mediterraneo al quale Braudel dedicò alcuni dei
suoi studi più lucidi, più rivoluzionari. Come è profondo il mare
sulla cui superficie si combatte la battaglia di Lepanto!
In questi giorni a Prato,
città che lo vide protagonista di svariate imprese culturali, si è
tenuto un convegno per commemorare Braudel a un anno dalla morte, un
convegno che si è trovato a coincidere con una serie di polemiche,
di eterogenea provenienza e indirizzo, che hanno per oggetto la
storia. Dalle polemiche casalinghe sull'insegnamento della storia,
secondo il ministro Falcucci, alle polemiche internazionali sulla
«crisi» della storia sociale, con gli attacchi ai nipotini di
Braudel In nome del ritorno della storia politica contro l'abuso di
storia quotidiana, materiale.
Di questi argomenti
abbiamo parlato a Prato con Alberto Tenenti, storico italiano di
stanza a Parigi, collaboratore di Braudel e recente protagonista, con
Jacques Le Goff (uno dei nipotini braudeliani al centro degli
attacchi), di una trasmissione televisiva dedicata proprio alla
contestata eredità dell'insegnamento braudeliano e all’attuale
fattura delle Annales sotto la direzione dello stesso Le Goff.
Nel frattempo in
libreria, slamo sotto Natale, si annuncia l’arrivo di storie
private d’ogni tipo con i toni che di solito toccano ai romanzi di
facile successo.
Insomma i libri di
storia, certi libri di storia, almeno, sono gettonatissimi. Professor
Tenenti, perché questo successo?
«La risposta che sto per
darle non è una risposta che mi piace. Temo che il successo presso
il grande pubblico della storia sia dovuto al fatto che stiamo
perdendo noi stessi, stiamo perdendo quello che siamo stati, stiamo
perdendo i nostri padri, i nostri nonni, le nostre radici. Ci
inoltriamo in un futuro che dominiamo sempre meno, un futuro che anzi
ci domina. Questa è una sofferenza vera per ognuno di noi, ed è una
sofferenza privata, personale».
I libri di storia
alleviano questa sofferenza?
«L’amore che c’è
oggi per la storia nasce dal desiderio di chi non vuole perdere la
propria storia, e insieme dal desiderio di specchiarsi in periodi in
cui gli uomini erano membri di comunità, di gruppi e condividevano
con gli altri idee e prospettive. Il mondo contemporaneo sta
dissolvendo la profondità umana, sta cancellando le origini. La
storia è diventata importante in maniera anomala, dietro c'è
qualcosa di patologico, qualcosa che non si spiega solo con dati
razionali».
I best-seller non sono
la giusta risposta alla domanda di storia?
«Secondo me è un errore
assecondare questa domanda di storia accarezzando i gusti del grande
pubblico, ciò significa soltanto soddisfare il narcisismo dello
storico e il narcisismo del lettore. Oggi molti adottano uno stile
brillante e seducono il lettore raccontandogli come si faceva l'amore
una volta. Non voglio insistere su certe traiettorie scientifiche di
molti miei colleghi passati da una produzione solida a una leggera.
La storia è un organismo dinamico, quando il lettore ha saputo come
si ballava in un dato secolo volta la pagina ed è tutto finito. Cosi
facendo si soddisfa solo una curiosità».
Eppure la storia deve
fare i conti con le richieste del grande pubblico...
«La storia è un
nutrimento culturale. È un momento in cui assistiamo a un
allargamento del pubblico, a un aumento del lettori, ma non per
questo la storia deve essere svenduta. Non possiamo abbassarla a
livello di un rotocalco. In questo c’è una profonda dissociazione
tra gli storici di professione e gli storici che seguono le mode. Non
bisogna lasciarsi lusingare dal numero di libri venduti, né bisogna
cedere alla voga pubblicitaria. Questo successo della storia mi
ricorda l’Impero di Alessandro Magno che durò ben poco, che si
dissolse In un baleno. La storia è una costruzione solida».
Si dice che dopo
Braudel è venuto il braudelismo, una banalizzazione del pensiero e
del metodo del maestro. E, anche, un tradimento.
«Braudel non ha mai
chiesto di essere ortodosso, non ha mai chiesto patenti di fedeltà,
ha sempre cercato di non essere dogmatico. Non si è mai considerato
il detentore della formula giusta. La situazione attuale e
determinata dalla consapevolezza che la storia non esercita alcuna
egemonia sulle altre scienze sociali e umane. Questa era un’idea,
una speranza, se vuole, di Braudel. Invece non è stato cosi.
Nell’associazione di tante discipline, nella loro collaborazione la
storia non ha giocato un ruolo preponderante. Il problema attuale
della storia nasce da qui».
In che senso?
«Vede, di fronte
all’impossibilità di una funzione egemonica della storia ci sono
due possibili comportamenti. Il primo rinuncia alla pretesa egemonica
della storia, semplicemente. Il secondo consiste nell’evasione
dalla storia. Siccome la storia non riesce ad avere quella funzione
di coagulo, non riesce a tenere assieme le altre scienze umane o
sociali, molti hanno preferito lasciare invadere il territorio della
storia da altri metodi, da altre discipline. Non è, a mio parere, un
fenomeno positivo. L’antropologia storica, per fare un esempio, è
certo una disciplina importante ma non si può delegare
all’antropologia storica i compiti che sono della storia. Cosi
facendo si perde il filo. Per questo molti dicono che le Annales oggi
non è più una rivista storica. Non si può fare l’opposto di
quanto faceva Braudel».
L'eredità di Braudel
rischia quindi di disperdersi?
«Il conoscere storico
per Braudel è sempre stato un modo perché gli uomini si capissero
di più. Braudel ha cercato di riscoprire l’uomo al di là delle
differenze, delle alterità, delle distanze. Con Braudel siamo
passati dall’uomo europeo, dall’eurocentrismo, all’uomo di
tutte le razze e di tutti i popoli. La sua era una concezione
planetaria. La storia consente scambi tra gli uomini, scambi che
l’etnologia non permette».
“l'Unità”, 30
novembre 1986
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