3.5.18

La gaia scienza di Italo Calvino (Piero Lavatelli)


SANREMO — Ci sono stati, finché visse, tre Calvino. Il Calvino delle prime opere, Sentiero del nidi di ragno, Ultimo venne il corvo, Fiabe italiane, Mareovaldo. Pavese gli aveva trovato una immagine folgorante: uno scoiattolo della penna, la cui astuzia è di arrampicarsi sulle piante più per gioco che per paura. È il Calvino favoloso, libero, giocoso, del personaggi picareschi che si muovono, nei loro viaggi, in un multicolore universo di storie popolari.
Poi abbiamo avuto il Calvino della trilogia I nostri antenati. L’elemento immaginoso mutava registro, le fiabe prendevano più aspetto di allegorie come nei romanzi dell'illuminismo settecentesco, i picari del nostro tempo o della tradizione fiabesca popolare lasciavano il posto a baroni rampanti, visconti dimezzati, cavalieri inesistenti.
È venuto poi, ultimo, il Calvino delle storie che si piegano su sé stesse, a riflettere sul processo genetico della loro invenzione. Storie a scatola cinese, in cui il viaggio — e per Calvino il racconto ha sempre la forma metaforica del viaggio — diventa spesso un gioco dell'ars combinatoria, che intreccia possibili percorsi, com'è appunto nel Castello dei destini incrociati. È il Calvino che più ha trovato fortuna presso gli specialisti di semiotica, i letterati, gli universitari. O anche, per certi romanzi, in chi è curioso di scienza, perché le Città invisibili, le Cosmicomiche, o Palomar, attingono molto dall’arsenale dell’immaginario scientifico.
E ora, che è iniziato il viaggio di Calvino nelle interrogazioni della memoria storica, quale immagine di lui comincia a prender forma dall’indagine critica, a entrare in dialogo con quelle preesistenti, e a porsi da termine di confronto per quelle che verranno? Una prima messa a fuoco è venuta dal Convegno nazionale di studi su Italo Calvino, che si è svolto il 28 e il 29 novembre, indetto dal Comune, a Sanremo, che di Calvino è stata a tutti gli effetti la città natale, benché fosse nato nel 1923 da genitori sanremesi a Cuba, dove visse i primi anni d’infanzia.
Dalle relazioni di Natalino Sapegno e di Franco Croce, sostanzialmente coincidenti, che aprivano il convegno, è il secondo Calvino, quello dei Nostri antenati, che via via ha preso corpo, giganteggiando su tutti gli altri. È dall’alto del Barone rampante — ha detto perentoriamente Franco Croce — che va letto anche l’ultimo Calvino, il primo essendo ancora immerso nei minori esiti della sua fase di formazione. Ma di questo secondo Calvino è stata presentata un'immagine, che poco ha a che vedere con quella, suscitata a suo tempo quando uscì la trilogia de I nostri antenati. Ha detto Sapegno: lo scrittore lucido, immaginoso, divertente, che mette in scena le allegorie dei nostri antenati scalcagnati o inesistenti, è uno scrittore il cui tema centrale è la consapevolezza dello sfacelo che in quegli anni cinquanta e sessanta investe non solo i valori etico-politici, ma gli stessi valori e strumenti della conoscenza logico-razionale e di quella estetico-letteraria. Per Calvino, infatti, gli istituti della grande letteratura novecentesca avevano ormai chiuso con Thomas Mann, da lui pure amato moltissimo, il loro ciclo. Di lui — e di sé — disse bene Calvino: Thomas Mann capì tutto del nostro mondo, ma sporgendosi da una estrema ringhiera delle nostre case; noi cerchiamo di carpirne qualche immagine precipitando dalla tromba delle scale.
È il nucleo tematico che Franco Croce ha definito, con una frase di Calvino, “un’angoscia simbolica”. La metafora di ogni racconto — il viaggio — diventa nei romanzi più maturi il percorso in un labirinto, un angosciante viaggio che non spiega la realtà, ma ne presenta, anche se in forma comica e divertita, i bui ingorghi, le perplessità, gli smarrimenti. È, nel Visconte dimezzato, il senso dell’uomo sdoppiato, irrisolto; è, nel Cavaliere inesistente, la perdita della realtà, come sarà poi, in Palomar o in Se una notte d'inverno un viaggiatore, la difficoltà del comunicare tra uomini, qui in romanzi dove l’umanità si ritrae dietro la maschera di una fredda intelligenza. Ma sono romanzi — ha precisato Franco Croce — che prendono le distanze da tutta l’imponente letteratura novecentesca dell’angoscia. Perché Calvino la racconta simbolicamente, la traduce in gioco, allegoria, simbolo logico-matematico, itinerario geometrico, scelta intellettiva. Il linguaggio che la racconta, oltre che mito, allegoria, palesa anche la sua natura segnica, di simbolo, di meccanismo combinatorio del linguaggio. E un sistema bipolare: il perfetto ricamo dei ghiribizzi linguistici è riferito all’angoscia da esorcizzare. Come II barone rampante, che «visse sugli alberi, ma amò sempre la terra*; ricamò il suo percorso terreno di albero in albero, ma per sfuggire l'angoscia che gli dava la terra amata. Non quindi per gioco, come disse Pavese, ma per paura. Una paura che si nasconde dietro al gioco.
Ma questa immagine, cosi accampata in alto, come una luce che col suo riverbero dà colore a tutta l’opera di Calvino, è davvero quella da privilegiare su tutte? E il crescente interesse di Calvino per le scoperte della scienza e l'immaginario scientifico è davvero cosi pretestuoso, come da più parti si è detto in questo convegno?
Alberto Oliverio lo ha invece collocato all'interno dell’atteggiamento di crescente interscambio tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, che porta oggi a mutui prestiti dì metafore e tematiche poi, com’è ovvio, diversamente elaborate. Il rigore linguistico di Calvino ha un preciso termine di riferimento anche nel linguaggio della scienza. Le figure di scienziati che Calvino mette in campo non assomigliano all’astronomo, pieno di fede cieca nella scienza, e perciò sciocco, su cui Pirandello esercita in una novella il suo sarcasmo. Sono invece scienziati come Palomar, erudito settecentesco, che cerca di cogliere, dubbioso e per tentativi, il significato della realtà, che sa sempre essere relativo.
Altre falle nell'immagine forte, ma esclusiva, di Calvino come interprete dì una “angoscia simbolica”, hanno aperto gli interventi di Vittorio Coletti e Giulio Einaudi. Il primo, con una acuta analisi linguistica, ha messo a fuoco il linguaggio segreto dell’invenzione letteraria di Calvino, individuando in esso una duplice matrice. Da un lato il lessico, scarso di aggettivi, che si modella sul linguaggio delle attività pratiche, dei vocabolari specialistici, mai però usati — come spesso oggi è il caso — in funzione gergale. Dall’altro lato il linguaggio dell’invenzione fantastica, non meno esatto e preciso, pur nella sua evocazione poetica. Entrambi definiscono linguisticamente l’illuminismo di Calvino. Certo, il solo oggi possibile, che sa l’impossibilità di afferrare e trattenere la realtà.
Da parte sua Giulio Einaudi ha pure offerto un contributo interessante, specie per riaprire il discorso sul primo e l’ultimo Calvino. In una serie inedita di flash giornalistici, pieni di arguzie e malizie, mandati per lettera da New York — un convegno su Calvino giornalista e in preparazione per i prossimi mesi a Firenze — il tema della città che gli si presenta dai suoi grattacieli, grigi nella nebbia come enormi rovine, è tutto sotteso, anche se non traspare, dalla ricerca di una città vivibile. Come — ha detto Giulio Einaudi — tredici anni dopo nelle Città invisibili o come molti anni prima, nel Sentiero dei nidi di ragno e in Marcovaldo.

l'Unità, 30 novembre 1986

Nessun commento:

statistiche