Un saggio di Andrea
Carandini (Laterza) ricostruisce le vicende complesse della dinastia
Giulio-Claudia, nelle quali spicca una figura femminile del tutto
priva di scrupoli. Una stagione oscura di macchinazioni e di efferati
delitti
Museo Archeologico di Milano. Ritratto di Agrippina (59-60 d.C.) |
Il nonno era Vipsanio
Agrippa, braccio destro di Ottaviano (futuro Augusto, imperatore tra
il 27 a.C. e il 14 d.C.), del quale vale la pena di ricordare che fu
il grande artefice della vittoriosa battaglia navale di Azio contro
Marco Antonio e Cleopatra (31 a.C.). Sua madre — anche lei si
chiamava Agrippina — figlia di Vipsanio Agrippa, era nipote di
Augusto ed ebbe nove figli, di cui però ne sopravvissero solo sei.
Suo padre, Germanico, era nipote di Tiberio — imperatore tra il 14
e il 37, successore di Augusto (che lo aveva adottato) — e morì ad
Antiochia avvelenato, probabilmente su istigazione proprio di
Tiberio. Suo fratello Caligola (Gaio), successore di Tiberio, fu
imperatore tra il 37 e il 41. Suo marito (ma anche zio), Claudio,
succedette a Caligola e fu imperatore tra il 41 e il 54. Suo figlio,
Nerone, successore di Claudio, fu imperatore tra il 54 e il 68.
Un’incredibile serie di parentele ai vertici della Roma d’inizio
del primo millennio, rendono la vita di Agrippina (detta «minore»
per non confonderla con l’altra Agrippina di cui si è detto, sua
madre) davvero unica.
Quasi una sfida per
Andrea Carandini che ha deciso di far confluire anni e anni di studi
e ricerche di archeologia e storia in uno straordinario libro a lei
dedicato, Io, Agrippina. Sorella, moglie, madre di imperatori,
che sta per uscire da Laterza. Un saggio impreziosito da
illustrazioni e tavole eccellentemente curate da Maria Cristina
Capanna e Francesco De Stefano. Il modello è, fin dal titolo, Io,
Claudio di Robert Graves pubblicato nel 1934 e tradotto in
Italia, in tempi recenti, per le edizioni Corbaccio. Ma il racconto
di Carandini si differenzia in più parti da quello ben più
romanzato di Graves. Ovviamente un altro punto di riferimento sono le
Memorie di Agrippina di Pierre Grimal, un testo però meno
ricco e affascinante di quello di Carandini. Fonte di ispirazione,
più alla lontana, sono anche le Memorie di Adriano di
Marguerite Yourcenar.
Quando nel 14 muore
Augusto e gli succede Tiberio, l’esercito in Germania si rivolta a
causa dei troppi anni di servizio (oltre 16), del «soldo
inadeguato», e della crudeltà dei centurioni. Tiberio manda
Germanico a sedare la ribellione e a sorpresa i rivoltosi lo
acclamano, proponendogli di prendere il posto dell’imperatore. Ma
lui non aspirava all’impero, ottenuto «tramite eversione», per
cui resiste alla pressione della truppa. Si può probabilmente dire
che la rivolta si spegne proprio perché Germanico non aderisce ad
essa. Dopodiché il Tiberio messo in luce da Carandini loda Germanico
in Senato per aver rifiutato il potere offertogli dalle truppe.
Parole false: nei fatti Tiberio ha sentimenti ambigui nei confronti
di Germanico, che ha dato prova di essere «padrone degli eserciti».
Sospetta, Tiberio, anche della moglie di Germanico, Agrippina (madre
della protagonista del libro di Carandini) esplicitamente ambiziosa.
Il Tiberio di Carandini
fu un «uomo spregevole». Ma interessante: «dissimulava ciò che
voleva e non desiderava alcunché di quello che palesava»; «negava
quello che bramava e si interessava a quanto detestava»; «sfogava
la collera per questioni che non destavano la sua ira e dava segni di
equilibrio quando era maggiormente sdegnato». L’imperatore altresì
riteneva di non dover rivelare i propri pensieri, «ché il
conoscerli avrebbe procurato danni all’Impero»; si adirava se
qualcuno mostrava di aver intuito una sua idea e lo mandava a morte.
Manifestarsi, per lui, «era come aprire il petto davanti al nemico».
E il nemico erano adesso in primo luogo la stirpe dei Giuli, gli
appartenenti alla famiglia di Agrippina. «Colpa» — se così si
può dire — del prestigio di Germanico che cresceva ogni giorno di
più. Anche dopo la morte. Era riuscito a vendicare l’umiliante
sconfitta di Varo a Teutoburgo, sconfiggendo gli uomini di Arminio.
Nel 16 Germanico si era mosso ancora una volta all’attacco dei
Germani e al culmine dello scontro si era tolto dal capo il casco,
così da farsi riconoscere «per incitare con più efficacia i suoi a
completare il massacro». Un gesto che aveva un celeberrimo
precedente, lo aveva compiuto tre secoli e mezzo prima Alessandro
Magno. E nel 17 la tensione tra i due raggiunse l’apice. Tiberio —
consigliato all’epoca dal pretorio Seiano (che aveva irretito
l’imperatore «fino a renderlo fidente soltanto in lui» talché
«era come se avesse colonizzato la sua mente» e alla fine pagò con
la vita l’eccesso di influenza) — voleva impedire in ogni modo
che venisse attribuita a Germanico la conquista definitiva della
Germania. Così finse che l’impero fosse in pericolo e lo mandò in
Oriente. Per poi farlo avvelenare, o per lasciare che venisse
avvelenato ad Antiochia. La vedova di Germanico, Agrippina (madre),
tornò a Brindisi con le ceneri del marito, accompagnata da Caligola
che aveva sette anni. Fu accolta, Agrippina, da «una folla sdegnata
che riempiva le spiagge e le case»; lungo la via che l’avrebbe
riportata a Roma c’erano consoli, senatori, popolo accorso anche
dai paesi vicini; ma nessuna traccia di Tiberio.
A Roma, come segno di
dolore per la perdita di Germanico, «la plebe tirava pietre contro i
templi, rovesciava gli altari, gettava i Lari in strada ed esponeva
neonati, seguendo il cordoglio di barbari, re clienti e perfino del
re dei Parti che si è astenuto per qualche tempo da cacce e
festini». Nulla ferì Tiberio, secondo l’autore, «più
dell’entusiasmo del popolo verso Agrippina». La quale, inebriata
da questi tributi di affetto, fece l’errore di iniziare a sparlare
di Tiberio: l’imperatore si disfò di lei esiliandola a Ventotene
(Pandataria), dove nel 33 morì di stenti.
Ma il destino era in
agguato e la vendicò: il 16 marzo del 37, lo stesso Tiberio fu
ucciso a Miseno nella villa che era stata di Lucullo. Uccisione
descritta minuziosamente da Carandini: il principe all’improvviso
cadde in letargo e un suo uomo gli sfilò l’anello perché Caligola
lo potesse infilare all’istante; nello stesso istante Tiberio
riprese a respirare e, toccandosi la mano, balbettò: «L’anello…».
«Troppo tardi», disse Caligola e a un suo cenno il prefetto Macrone
ordinò «Fuori tutti!». Poi, rivolto alle guardie, aggiunse: «Non
ce la fa, aiutiamolo…». E fu «un accalcarsi, un premere di
mantelli, coperte e guanciali finché Tiberio morì soffocato».
Aveva vissuto poco più di 67 anni ed era stato sul trono 22 anni e
mezzo.
Due giorni dopo, il 18
marzo, Caligola — che precedentemente era stato costretto ad
assistere Tiberio a Capri per ben sei anni — fu acclamato
imperatore in un’atmosfera di giubilo generale. I Romani vedevano
in lui «un Germanico redivivo», era «il principe sognato da gran
parte dei provinciali», l’astro dei soldati che lo avevano
conosciuto bambino con le caligae di cui al suo soprannome (i sandali
militari) e «l’idolo della plebe urbana». Caligola si presenta al
Senato con un discorso critico nei confronti del suo predecessore,
unanimemente apprezzato al punto da essere successivamente letto in
pubblico una volta ogni anno.
Abolisce, Caligola, la
lesa maestà e annuncia di aver bruciato gli atti di accusa lasciati
da Tiberio «per non lasciar spazio a tardive vendette». Sette mesi
dopo, a metà ottobre del 37, giunge però il primo segno del suo
squilibrio mentale: si ammala gravemente, teme di morire e nomina
come erede Drusilla sorella e concubina (a dispetto del fatto che
fosse moglie di Emilio Lepido, anch’egli peraltro amante del
principe). «Una scelta quanto mai stramba», la definisce Carandini.
Dopodiché Caligola sopravvive e muore invece Drusilla. Qui
l’imperatore impazzisce: decreta che il giorno natale di Drusilla
sia considerato festivo, le dedica un culto speciale con venti
sacerdoti, le fa erigere statue nella Curia e nel tempio di Venere.
Al senatore Livio Gemino — che sostiene di averla vista salire in
cielo — viene concessa una regalia di un milione di sesterzi. Da
quel momento Caligola non dorme mai più di tre ore per notte, prende
a conversare con la luna, è tormentato da uno spettro marino, tuoni
e fulmini notturni lo terrorizzano al punto da indurlo, ad ogni
temporale, a cercare riparo sotto il letto. Di giorno non tiene in
alcun conto gli impegni presi all’atto dell’insediamento e supera
Tiberio in «condanne e dissolutezze». Nel 38 costringe al suicidio
il prefetto Macrone, che lo aveva aiutato a uccidere Tiberio, nonché
la moglie di Macrone, Ennia, che era oltretutto la sua amante. Poi,
dopo una lunga sequela di nuovi assassinii, nel 39 fa uccidere Marco
Lepido (altro suo amante) e manda in esilio, sempre a Ventotene, sua
sorella Agrippina, la protagonista del libro di Carandini.
Nel 40 Caligola raggiunge
la Gallia e la Germania accompagnato da pretoriani, attori,
gladiatori, donne e cavalli: «una compagnia assai poco eroica», la
definisce Carandini. Ed è qui che un figlio del re dei Britanni,
cacciato dal padre, cerca rifugio da Caligola con una piccola scorta
e a lui si sottomette: ciò che induce Caligola a «mandare una
lettera a Roma come se avesse conquistato la Britannia». Tornato a
Roma, dopo questo «trionfo», prende ad esibirsi come gladiatore,
cocchiere, ballerino e cantante. Annuncia di volersi trasferire ad
Anzio da dove raggiungerà Alessandria. Nel 40 Caligola sventa una
congiura, ma quasi non fa in tempo a gioirne perché l’anno
successivo una nuova cospirazione contro di lui è coronata da
successo.
Caligola aveva 29 anni,
era stato imperatore per quasi quattro. Nessun principe come lui,
scrive Carandini, «è stato un despota tanto estremo», ha mostrato
«dove possa giungere la crudeltà e la stravaganza di chi possiede
una potenza immane». La «sua mente disturbata, l’inesperienza
militare, politica e pratica, la passione per la scena lo hanno
trascinato in una fragorosa assurdità nella quale tragedia e farsa
si sono mescolate». Con lui giunge al culmine il «gusto per
l’arbitrio» delle monarchie orientali. Può essere considerato
«l’esatto contrario di suo padre, Germanico», avvelenato «perché
onesto e clemente», le virtù «più invidiate e temute dai
potenti». Probabilmente superò in efferatezza lo stesso Tiberio e
convinse i Romani a fidarsi meno dei prìncipi che, saliti al potere,
annunciano un’era di pace e prosperità.
Dopo di lui toccò a
Claudio, fratello di Germanico, zio e, successivamente, marito di
Agrippina. Claudio aveva difetti fisici congeniti: soffriva di crampi
allo stomaco, camminava con passo incerto e balbettava. Aveva «tratti
che lo rendevano ridicolo»: «tremava con il capo, le mani e la
voce», rideva in maniera sguaiata, la bocca sbavava ad ogni
arrabbiatura. Era poi incerto e pauroso. Ma questi difetti, secondo
Carandini, erano bilanciati da un’intelligenza non comune, aveva
studiato moltissimo alla scuola di Tito Livio ed era assai colto. Il
suo primo atto fu di richiamare Agrippina dall’esilio, dichiarare
che Caligola era pazzo e, contestualmente, mandare a morte i suoi
uccisori.
Agrippina torna dunque a
Roma con Lucio Domizio Enobarbo (il futuro Nerone) in una corte dove,
però, spadroneggia Messalina, moglie di Claudio. La prima missione
che Agrippina si dà è quella di far fuori Messalina. Per poi andare
in sposa a Claudio, far richiamare il filosofo Seneca dall’esilio
in Corsica per affidargli il proprio ragazzo, e porre il giovane
sulla via che conduce al trono (sminuendo il possibile rivale
Britannico). Claudio si accorge delle complicate trame di Agrippina,
ma non fa in tempo a pentirsi di aver adottato Nerone che muore
avvelenato. Qui vengono le pagine più avvincenti del libro di
Carandini. Agrippina non cessa di tramare (stavolta a favore di
Britannico), mentre Seneca fa di tutto per impadronirsi dell’anima
di Nerone. Questi si inebria del rapporto con la folla (oltre che
della schiava asiatica Atte) e, su istigazione di Seneca, si spingerà
a far uccidere la madre. Dopodiché nel 65 indurrà al suicidio lo
stesso filosofo (il quale, annota Carandini, aveva «una condotta
contraria al disprezzo della ricchezza che nei suoi scritti invece
consigliava»). Tre anni dopo, nel 68, sarà Nerone, all’età di
trent’anni, ad esser costretto a suicidarsi. Solo ripercorrendo la
storia di sua madre si può capire come si giunge a quella fine.
Anzi, della fine di tutti gli eredi della gens Giulio-Claudia. Un
libro davvero affascinante su una delle stagioni più spietate della
storia dell’umanità.
“Corriere della sera”,
1° maggio 2018
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