3.5.18

La Roma dei veleni. Agrippina, madre di Nerone, esempio di lotta feroce per il potere (Paolo Mieli)


Un saggio di Andrea Carandini (Laterza) ricostruisce le vicende complesse della dinastia Giulio-Claudia, nelle quali spicca una figura femminile del tutto priva di scrupoli. Una stagione oscura di macchinazioni e di efferati delitti
Museo Archeologico di Milano. Ritratto di Agrippina (59-60 d.C.)
 Il nonno era Vipsanio Agrippa, braccio destro di Ottaviano (futuro Augusto, imperatore tra il 27 a.C. e il 14 d.C.), del quale vale la pena di ricordare che fu il grande artefice della vittoriosa battaglia navale di Azio contro Marco Antonio e Cleopatra (31 a.C.). Sua madre — anche lei si chiamava Agrippina — figlia di Vipsanio Agrippa, era nipote di Augusto ed ebbe nove figli, di cui però ne sopravvissero solo sei. Suo padre, Germanico, era nipote di Tiberio — imperatore tra il 14 e il 37, successore di Augusto (che lo aveva adottato) — e morì ad Antiochia avvelenato, probabilmente su istigazione proprio di Tiberio. Suo fratello Caligola (Gaio), successore di Tiberio, fu imperatore tra il 37 e il 41. Suo marito (ma anche zio), Claudio, succedette a Caligola e fu imperatore tra il 41 e il 54. Suo figlio, Nerone, successore di Claudio, fu imperatore tra il 54 e il 68. Un’incredibile serie di parentele ai vertici della Roma d’inizio del primo millennio, rendono la vita di Agrippina (detta «minore» per non confonderla con l’altra Agrippina di cui si è detto, sua madre) davvero unica.
Quasi una sfida per Andrea Carandini che ha deciso di far confluire anni e anni di studi e ricerche di archeologia e storia in uno straordinario libro a lei dedicato, Io, Agrippina. Sorella, moglie, madre di imperatori, che sta per uscire da Laterza. Un saggio impreziosito da illustrazioni e tavole eccellentemente curate da Maria Cristina Capanna e Francesco De Stefano. Il modello è, fin dal titolo, Io, Claudio di Robert Graves pubblicato nel 1934 e tradotto in Italia, in tempi recenti, per le edizioni Corbaccio. Ma il racconto di Carandini si differenzia in più parti da quello ben più romanzato di Graves. Ovviamente un altro punto di riferimento sono le Memorie di Agrippina di Pierre Grimal, un testo però meno ricco e affascinante di quello di Carandini. Fonte di ispirazione, più alla lontana, sono anche le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.
Quando nel 14 muore Augusto e gli succede Tiberio, l’esercito in Germania si rivolta a causa dei troppi anni di servizio (oltre 16), del «soldo inadeguato», e della crudeltà dei centurioni. Tiberio manda Germanico a sedare la ribellione e a sorpresa i rivoltosi lo acclamano, proponendogli di prendere il posto dell’imperatore. Ma lui non aspirava all’impero, ottenuto «tramite eversione», per cui resiste alla pressione della truppa. Si può probabilmente dire che la rivolta si spegne proprio perché Germanico non aderisce ad essa. Dopodiché il Tiberio messo in luce da Carandini loda Germanico in Senato per aver rifiutato il potere offertogli dalle truppe. Parole false: nei fatti Tiberio ha sentimenti ambigui nei confronti di Germanico, che ha dato prova di essere «padrone degli eserciti». Sospetta, Tiberio, anche della moglie di Germanico, Agrippina (madre della protagonista del libro di Carandini) esplicitamente ambiziosa.
Il Tiberio di Carandini fu un «uomo spregevole». Ma interessante: «dissimulava ciò che voleva e non desiderava alcunché di quello che palesava»; «negava quello che bramava e si interessava a quanto detestava»; «sfogava la collera per questioni che non destavano la sua ira e dava segni di equilibrio quando era maggiormente sdegnato». L’imperatore altresì riteneva di non dover rivelare i propri pensieri, «ché il conoscerli avrebbe procurato danni all’Impero»; si adirava se qualcuno mostrava di aver intuito una sua idea e lo mandava a morte. Manifestarsi, per lui, «era come aprire il petto davanti al nemico». E il nemico erano adesso in primo luogo la stirpe dei Giuli, gli appartenenti alla famiglia di Agrippina. «Colpa» — se così si può dire — del prestigio di Germanico che cresceva ogni giorno di più. Anche dopo la morte. Era riuscito a vendicare l’umiliante sconfitta di Varo a Teutoburgo, sconfiggendo gli uomini di Arminio. Nel 16 Germanico si era mosso ancora una volta all’attacco dei Germani e al culmine dello scontro si era tolto dal capo il casco, così da farsi riconoscere «per incitare con più efficacia i suoi a completare il massacro». Un gesto che aveva un celeberrimo precedente, lo aveva compiuto tre secoli e mezzo prima Alessandro Magno. E nel 17 la tensione tra i due raggiunse l’apice. Tiberio — consigliato all’epoca dal pretorio Seiano (che aveva irretito l’imperatore «fino a renderlo fidente soltanto in lui» talché «era come se avesse colonizzato la sua mente» e alla fine pagò con la vita l’eccesso di influenza) — voleva impedire in ogni modo che venisse attribuita a Germanico la conquista definitiva della Germania. Così finse che l’impero fosse in pericolo e lo mandò in Oriente. Per poi farlo avvelenare, o per lasciare che venisse avvelenato ad Antiochia. La vedova di Germanico, Agrippina (madre), tornò a Brindisi con le ceneri del marito, accompagnata da Caligola che aveva sette anni. Fu accolta, Agrippina, da «una folla sdegnata che riempiva le spiagge e le case»; lungo la via che l’avrebbe riportata a Roma c’erano consoli, senatori, popolo accorso anche dai paesi vicini; ma nessuna traccia di Tiberio.
A Roma, come segno di dolore per la perdita di Germanico, «la plebe tirava pietre contro i templi, rovesciava gli altari, gettava i Lari in strada ed esponeva neonati, seguendo il cordoglio di barbari, re clienti e perfino del re dei Parti che si è astenuto per qualche tempo da cacce e festini». Nulla ferì Tiberio, secondo l’autore, «più dell’entusiasmo del popolo verso Agrippina». La quale, inebriata da questi tributi di affetto, fece l’errore di iniziare a sparlare di Tiberio: l’imperatore si disfò di lei esiliandola a Ventotene (Pandataria), dove nel 33 morì di stenti.
Ma il destino era in agguato e la vendicò: il 16 marzo del 37, lo stesso Tiberio fu ucciso a Miseno nella villa che era stata di Lucullo. Uccisione descritta minuziosamente da Carandini: il principe all’improvviso cadde in letargo e un suo uomo gli sfilò l’anello perché Caligola lo potesse infilare all’istante; nello stesso istante Tiberio riprese a respirare e, toccandosi la mano, balbettò: «L’anello…». «Troppo tardi», disse Caligola e a un suo cenno il prefetto Macrone ordinò «Fuori tutti!». Poi, rivolto alle guardie, aggiunse: «Non ce la fa, aiutiamolo…». E fu «un accalcarsi, un premere di mantelli, coperte e guanciali finché Tiberio morì soffocato». Aveva vissuto poco più di 67 anni ed era stato sul trono 22 anni e mezzo.
Due giorni dopo, il 18 marzo, Caligola — che precedentemente era stato costretto ad assistere Tiberio a Capri per ben sei anni — fu acclamato imperatore in un’atmosfera di giubilo generale. I Romani vedevano in lui «un Germanico redivivo», era «il principe sognato da gran parte dei provinciali», l’astro dei soldati che lo avevano conosciuto bambino con le caligae di cui al suo soprannome (i sandali militari) e «l’idolo della plebe urbana». Caligola si presenta al Senato con un discorso critico nei confronti del suo predecessore, unanimemente apprezzato al punto da essere successivamente letto in pubblico una volta ogni anno.
Abolisce, Caligola, la lesa maestà e annuncia di aver bruciato gli atti di accusa lasciati da Tiberio «per non lasciar spazio a tardive vendette». Sette mesi dopo, a metà ottobre del 37, giunge però il primo segno del suo squilibrio mentale: si ammala gravemente, teme di morire e nomina come erede Drusilla sorella e concubina (a dispetto del fatto che fosse moglie di Emilio Lepido, anch’egli peraltro amante del principe). «Una scelta quanto mai stramba», la definisce Carandini. Dopodiché Caligola sopravvive e muore invece Drusilla. Qui l’imperatore impazzisce: decreta che il giorno natale di Drusilla sia considerato festivo, le dedica un culto speciale con venti sacerdoti, le fa erigere statue nella Curia e nel tempio di Venere. Al senatore Livio Gemino — che sostiene di averla vista salire in cielo — viene concessa una regalia di un milione di sesterzi. Da quel momento Caligola non dorme mai più di tre ore per notte, prende a conversare con la luna, è tormentato da uno spettro marino, tuoni e fulmini notturni lo terrorizzano al punto da indurlo, ad ogni temporale, a cercare riparo sotto il letto. Di giorno non tiene in alcun conto gli impegni presi all’atto dell’insediamento e supera Tiberio in «condanne e dissolutezze». Nel 38 costringe al suicidio il prefetto Macrone, che lo aveva aiutato a uccidere Tiberio, nonché la moglie di Macrone, Ennia, che era oltretutto la sua amante. Poi, dopo una lunga sequela di nuovi assassinii, nel 39 fa uccidere Marco Lepido (altro suo amante) e manda in esilio, sempre a Ventotene, sua sorella Agrippina, la protagonista del libro di Carandini.
Nel 40 Caligola raggiunge la Gallia e la Germania accompagnato da pretoriani, attori, gladiatori, donne e cavalli: «una compagnia assai poco eroica», la definisce Carandini. Ed è qui che un figlio del re dei Britanni, cacciato dal padre, cerca rifugio da Caligola con una piccola scorta e a lui si sottomette: ciò che induce Caligola a «mandare una lettera a Roma come se avesse conquistato la Britannia». Tornato a Roma, dopo questo «trionfo», prende ad esibirsi come gladiatore, cocchiere, ballerino e cantante. Annuncia di volersi trasferire ad Anzio da dove raggiungerà Alessandria. Nel 40 Caligola sventa una congiura, ma quasi non fa in tempo a gioirne perché l’anno successivo una nuova cospirazione contro di lui è coronata da successo.
Caligola aveva 29 anni, era stato imperatore per quasi quattro. Nessun principe come lui, scrive Carandini, «è stato un despota tanto estremo», ha mostrato «dove possa giungere la crudeltà e la stravaganza di chi possiede una potenza immane». La «sua mente disturbata, l’inesperienza militare, politica e pratica, la passione per la scena lo hanno trascinato in una fragorosa assurdità nella quale tragedia e farsa si sono mescolate». Con lui giunge al culmine il «gusto per l’arbitrio» delle monarchie orientali. Può essere considerato «l’esatto contrario di suo padre, Germanico», avvelenato «perché onesto e clemente», le virtù «più invidiate e temute dai potenti». Probabilmente superò in efferatezza lo stesso Tiberio e convinse i Romani a fidarsi meno dei prìncipi che, saliti al potere, annunciano un’era di pace e prosperità.
Dopo di lui toccò a Claudio, fratello di Germanico, zio e, successivamente, marito di Agrippina. Claudio aveva difetti fisici congeniti: soffriva di crampi allo stomaco, camminava con passo incerto e balbettava. Aveva «tratti che lo rendevano ridicolo»: «tremava con il capo, le mani e la voce», rideva in maniera sguaiata, la bocca sbavava ad ogni arrabbiatura. Era poi incerto e pauroso. Ma questi difetti, secondo Carandini, erano bilanciati da un’intelligenza non comune, aveva studiato moltissimo alla scuola di Tito Livio ed era assai colto. Il suo primo atto fu di richiamare Agrippina dall’esilio, dichiarare che Caligola era pazzo e, contestualmente, mandare a morte i suoi uccisori.
Agrippina torna dunque a Roma con Lucio Domizio Enobarbo (il futuro Nerone) in una corte dove, però, spadroneggia Messalina, moglie di Claudio. La prima missione che Agrippina si dà è quella di far fuori Messalina. Per poi andare in sposa a Claudio, far richiamare il filosofo Seneca dall’esilio in Corsica per affidargli il proprio ragazzo, e porre il giovane sulla via che conduce al trono (sminuendo il possibile rivale Britannico). Claudio si accorge delle complicate trame di Agrippina, ma non fa in tempo a pentirsi di aver adottato Nerone che muore avvelenato. Qui vengono le pagine più avvincenti del libro di Carandini. Agrippina non cessa di tramare (stavolta a favore di Britannico), mentre Seneca fa di tutto per impadronirsi dell’anima di Nerone. Questi si inebria del rapporto con la folla (oltre che della schiava asiatica Atte) e, su istigazione di Seneca, si spingerà a far uccidere la madre. Dopodiché nel 65 indurrà al suicidio lo stesso filosofo (il quale, annota Carandini, aveva «una condotta contraria al disprezzo della ricchezza che nei suoi scritti invece consigliava»). Tre anni dopo, nel 68, sarà Nerone, all’età di trent’anni, ad esser costretto a suicidarsi. Solo ripercorrendo la storia di sua madre si può capire come si giunge a quella fine. Anzi, della fine di tutti gli eredi della gens Giulio-Claudia. Un libro davvero affascinante su una delle stagioni più spietate della storia dell’umanità.

“Corriere della sera”, 1° maggio 2018

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