L’approvazione di una legge
contro la negazione del cosiddetto “Olocausto”, il tentato genocidio nazista
degli ebrei culminato nei campi di sterminio del Terzo Reich, è cosa molto
discutibile. Essa affida alla legge, alle sanzioni, ai tribunali, la difesa di
una verità storica che invece dovrebbe essere affidata all’evidenza delle prove
e degli argomenti in un dibattito aperto, scientifico e democratico.
Una legge siffatta costituisce inoltre
un grave precedente per costruire una sorta di “storia di stato”, capace di
bloccare ogni ricerca sul passato guidata dal dubbio e dalla spregiudicata
interrogazione dei documenti e delle testimonianze.
C’è di più, e forse di peggio:
dentro questa operazione c’è una sorta di “sacralizzazione”, che è – come la
negazione – una operazione deformante. Il testo che segue, recensione del libro
recente di una semiologa di valore, Valentina Pisanty, è a questo proposito
illuminante. (S.L.L.)
Auschwitz, Il memorial italiano |
Negare, banalizzare,
sacralizzare: cosa possono avere in comune queste tre azioni? A prima vista,
nulla: parrebbero anzi escludersi a vicenda. E invece a guardar bene, almeno in
un ambito discorsivo, l’una rimanda oggettivamente all’altra e tutte e tre creano,
solidalmente, una forma (o una strategia) del discorso che ostacola, sino a
precluderla, l’indagine storiografica.
L’ambito discorsivo in questione
è la «narrazione» dello sterminio ebraico a opera dei nazisti; il campo degli
intrecci perversi tra negazione, banalizzazione e sacralizzazione è la memoria
collettiva dello sterminio, alternativa alla ricostruzione propriamente storica
(dove quest’ultima è, per definizione, disponibile al vaglio critico di un
uditorio universale perché interessata all’oggettività, la memoria è invece,
costitutivamente, particolare e soggettiva, perché dettata da motivazioni
radicate nel vissuto e legata a finalità specifiche, di natura politica o
civile, pedagogica o morale). Il fitto e per molti versi paradossale gioco di
rimandi tra negazioni, banalizzazioni e sacralizzazioni che ha luogo su questo
scabroso terreno da una sessantina d’anni (ma che è entrato nel vivo
soprattutto nell’ultimo trentennio) è ora analizzato con acume nell’ultimo
libro di Valentina Pisanty – Abusi di
memoria Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah (Bruno Mondadori, pp. 152,
€ 16,00), ideale sviluppo dello studio critico delle strategie interpretative e
retoriche del negazionismo svolto nell’Irritante
questione delle camere a gas: logica del negazionismo (1998).
L’idea-guida dell’analisi è che
la memoria collettiva risulti (in generale) da un continuo conflitto tra
«agenzie variamente motivate, e variamente potenti» e che – per quanto concerne
in particolare il genocidio ebraico – su tale conflitto tre specifiche forme di
«abuso della memoria» (appunto la negazione, la banalizzazione e la
sacralizzazione della Shoah) esercitino un peso assai rilevante proprio in
quanto si collegano tra loro in una «relazione triadica», dando forma a un
«sistema complesso di dispositivi retorici interagenti». In concreto, secondo
Pisanty, i negazionisti (che auspicano la rimozione dell’idea stessa del
genocidio ebraico e la sua sostituzione con una riedizione del mito
cospirazionista) non danno man forte soltanto ai banalizzatori (i quali
cancellano ogni specificità del processo genocidiario inserendolo in uno schema
generalissimo), ma anche – contro intuitivamente – ai sacralizzatori (che
sottraggono la Shoah alla serie degli eventi storici per proiettarla in una
dimensione trascendente, al riparo da qualsiasi incursione della ragione critica).
In apparenza, si tratta di deformazioni tra loro contrastanti; in realtà, i tre
abusi si incastrano e richiamano tra loro «come i pezzi di un puzzle».
Del resto – argomenta Pisanty –
non c’è troppo da stupirsi, se si tiene presente che tutte e tre queste
deformazioni ideologiche si contrappongono frontalmente a una stessa
configurazione del discorso sullo sterminio: sono antitetiche alla ricerca
storica, o perché si propongono di impedirla attraverso argomentazioni
capziose, paralogismi e ipotesi deliranti (per i negazionisti l’archivio
iconografico dello sterminio sarebbe frutto di fotomontaggi), o perché
semplicemente ne prescindono, accedendo, l’una, al territorio dei luoghi comuni
più facilmente assimilabili e commercializzabili, l’altra, all’ambito delle
certezze metafisiche e dell’investimento religioso. In questa prospettiva, il
negazionismo si rivela l’espressione estrema della banalizzazione (come Pisanty
ricorda, di ciò si avvide già Primo Levi, consapevole di come la negazione
delle camere a gas da parte di Robert Faurisson si saldasse al banalizzante
schema revisionista di Ernst Nolte) nel momento stesso in cui si giova delle
interdizioni sacralizzanti, da cui trae linfa «come una pianta che si nutrisse
di diserbanti»; a sua volta la sacralizzazione tradisce spesso, a dispetto
dell’intenzione drammatizzante (la Shoah come evento «unicamente unico»), un
nocciolo di disarmante banalità, con l’innescare, certo involontariamente, la
più desolante (e oscena) delle competizioni, quella tra le lobbies della
memoria, intente a rivendicare la «palma della sofferenza» per la propria
minoranza perseguitata.
Come si vede, la critica corre
lungo un filo sottile e tortuoso: di necessità, poiché è tale lo sviluppo dei
testi analizzati nei loro intrecci ed esiti paradossali; e per la vocazione
dell’analisi semiologica, tesa a cogliere i tratti più sfuggenti del
linguaggio, in virtù dei quali la forma e la tonalità del discorso sono di per
sé costitutive della realtà rappresentata. Forse proprio dalla prospettiva analitica
prescelta discende il solo limite (ma essenziale) dell’indagine, che isola il
piano discorsivo (linguistico, semantico, retorico) e trascura il campo delle
motivazioni – quindi delle premesse morali delle diverse posizioni – istituendo
dubbie assimilazioni (difficilmente la motivazione sottesa alla sacralizzazione
della Shoah sarà abietta, com’è invece sempre nel caso del negazionismo).
Restano l’indiscutibile perizia analitica e la passione per l’argomento,
premesse necessarie del prendere apertamente posizione su un terreno come
questo, massimamente controverso. Basti qui un esempio, tra i molti possibili. Pisanty
ricorda la polemica intercorsa di recente tra le promotrici di una manifestazione
antiberlusconiana e alcuni loro critici, indignati per l’impiego «intollerabile»
e «sacrilego» (come slogan della manifestazione) dell’espressione «Se non ora,
quando?» tratta dalle Massime dei Padri e posta da Primo Levi a titolo di un
suo romanzo. E, nel dissezionare le rispettive argomentazioni, non esita a
porne in risalto le implicazioni sottaciute e i più imbarazzanti presupposti.
Enunciate con pacatezza, le
conclusioni sono in realtà durissime: nell’un caso Pisanty denuncia
un’implicita e «francamente scandalosa» interpretazione fondata sull’assunto secondo
cui le vittime della Shoah si sarebbero sacrificate per consentire a Israele di
esistere e di sopravvivere; nell’altro, pone criticamente in rilievo
l’«atteggiamento difensivo-aggressivo» di chi, stabilita l’appartenenza della
memoria della Shoah alla sfera del sacro, su tale opinabile base ritiene di
dispensare condanne e di scagliare anatemi. Ma gli esempi potrebbero
moltiplicarsi (ce n’è per tutti, a cominciare da celebri cineasti che sullo
sterminio ebraico hanno prodotto racconti inverosimili o apologhi stucchevoli e
fuorvianti).
La Shoah è un argomento
difficile, disagevole da maneggiare, ancor più arduo da indagare criticamente. Sul
perché ci sarebbe da dibattere a lungo, e non è escluso che, ricercandolo, ci
si imbatterebbe nel tema fondamentale di questo libro, che resta tuttavia, e
necessariamente, sullo sfondo: l’ingombrante questione della tenace persistenza
dell’antisemitismo.
“alias domenica – il manifesto”,
5/2//2012
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