I giovani non se lo ricordano e
credo che non riescano neppure a immaginarlo, ma quando il Pci aveva una grande
affermazione elettorale (e la cosa dal 1953 in poi accadde diverse volte),
nelle officine, nei cantieri edili, nella fabbriche grandi, piccole e
piccolissime, tra le commesse dei grandi magazzini, nella piazza del mio paese
ove i braccianti andavano ad affittare a giornata la propria forza lavoro, una
grande allegria si respirava, quasi si toccava con mano.
Tra gli operai e i proletari non
tutti votavano comunista o socialista, tante e tanti – per molte ragioni –
facevano altre scelte, ma perfino loro erano coinvolti in una palpabile ondata
di gioia collettiva, che non si esprimeva solo in gruppo nelle chiacchierate di
commento o nelle strette di mano, ma traspariva dai visi, dai sorrisi nell’atto stesso del lavorare, quello del manovale che collocava i laterizi o della barista che
riempiva le tazzine di caffè caldo. Credo che si sentissero più forti nelle
difficoltà e contro le ingiustizie, meno soli di fronte ai signori, ai padroni.
Non era solo illusione: al tempo di quei successi elettorali tra conflitti politici e lotte sociali miglioravano significativamente le condizioni di lavoro, aumentavano i redditi e le tutele, si affermavano diritti. Quella gioia trovava un fondamento logico, materiale. E perfino io, figlio di commerciante, piccolo borghese leggermente intellettuale convertito al comunismo, mi specchiavo nei sorrisi di quei compagni, mi sentivo integrato nella classe operaia.
Non era solo illusione: al tempo di quei successi elettorali tra conflitti politici e lotte sociali miglioravano significativamente le condizioni di lavoro, aumentavano i redditi e le tutele, si affermavano diritti. Quella gioia trovava un fondamento logico, materiale. E perfino io, figlio di commerciante, piccolo borghese leggermente intellettuale convertito al comunismo, mi specchiavo nei sorrisi di quei compagni, mi sentivo integrato nella classe operaia.
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