Oltre i numeri, le
storie
Consiglio vivamente a chi
insegna e cerca di capire ciò che accade nel nostro tempo l’ultimo
libro di Alessandro Leogrande. Si fa fatica a leggere La
frontiera (edito da Feltrinelli) perché è un libro che fa
male, ferisce. Ma la ferita provocata dal suo ricordarci con
puntigliosa esattezza ciò che accade a sud, ad est e nelle acque del
nostro Mediterraneo ogni giorno, da anni, è particolarmente
necessaria, se vogliamo intaccare la nostra indifferenza e tentare di
colmare l’approssimativa conoscenza di guerre, violenze e
sopraffazioni in continua crescita.
Lontano dai numeri
anonimi, spesso branditi per spaventare, Leogrande narra le tragedie
che sono all’origine della grande migrazione procedendo per indizi,
dettagli, dentro ai quali ci invita e ci costringe ad entrare, come
la cassetta VHS che Shorsh, profugo curdo irakeno, portava nella
tasca del cappotto anni fa per mostrare la spettrale visione della
sua città, decimata dai gas di Saddam. Shorsh lo perderemo e
ritroveremo più volte nel libro, come altri protagonisti di questo
racconto corale di sofferenze che lasciano segni nel corpo e nella
memoria di tanti che vivono nelle nostre città.
Il libro comincia
dipanando una serie di storie aggrovigliate attorno al naufragio del
3 ottobre 2013, in cui annegarono 368 migranti a pochi metri dalla
costa di Lampedusa. 360 erano eritrei e, a partire da questo dato,
Alessandro Leogrande raccoglie testimonianze sulla triste sorte
dell’ex colonia italiana che, una volta liberatasi dall’occupazione
etiope, si è andata via via trasformando in carcere a cielo aperto,
rendendo i sudditi del regime di Isaias Afewerki moderni schiavi
grazie al caso - unico al mondo - di un servizio di leva che inizia e
non finisce mai.
Maneggiare la
memoria e il dolore
L’affermazione di
Frantz Fanon secondo cui “il colonizzato è un perseguitato che
sogna continuamente di diventare persecutore”, in quel lembo
estremo del corno d’Africa si avvera nel peggiore dei modi perché
lì, ad essere perseguitato, è un intero popolo che, infatti, tenta
la fuga ad ogni costo. Ciò che accade in Eritrea conferma molte
costanti dei processi di decolonizzazione, che hanno visto nuove
élite politiche e militari allearsi ai poteri economici di antichi e
nuovi colonizzatori, perpetrando torture e forme nuove di
oppressione, “come se la Storia fosse davvero un enorme banco da
macellaio in cui si finiscono per riprodurre gesti, tic mentali,
azioni, rituali, già segnati dai vincitori di ieri”. Ragionando su
ciò che accade ai singoli in questo frangente della storia,
Leogrande nota quanto l’odio sia “un sentimento mimetico”. E
probabilmente ragionare intorno a questo nodo ci aiuta ad intendere
cosa stia accadendo nelle coscienze dei singoli in tante parti del
mondo.
Ma “come maneggiare la
memoria e il dolore? "si domanda a un certo punto Leogrande.
"Qual è il punto esatto in cui il dovere della memoria sconfina
nella morbosità?”. La risposta, a cui allude tutto il libro, è
che l’unica possibilità sia quella del “farsi testimoni
dell’unicità di ogni ferita” e dargli spazio e respiro,
rendendola comunicabile ai più. “Ogni libro è frutto del lavoro
di molti”, afferma Leogrande citando Ryszard Kapuściński, a cui è
debitore in quanto maestro nel campo della letteratura d’inchiesta.
I clandestini, i
sommersi, i salvati
Svetlana Aleksievič, la
scrittrice bielorussa che quest’anno ha ricevuto il Nobel per la
sua capacità di dare voce alle vittime dimenticate della Storia,
racconta che lei, dopo avere raccolto centinaia di testimonianze,
impiega anni per rintracciare quella “nervatura filosofica”
capace di dare dignità e respiro corale alle parole raccolte. Noi
italiani, che non abbiamo alle spalle Čechov e Tolstoj, ci
commuoviamo – talvolta – di fronte ai sommersi, specie se
bambini, ma continuiamo a chiamare clandestini i salvati, che in
verità di clandestino non hanno nulla perché perfettamente visibili
ai nostri occhi. Per questo è importante un libro come La frontiera,
perché con onestà intellettuale e forte tensione etica, ci invita a
“guardare all’orrore del mondo” senza voltarci dall’altra
parte e, soprattutto, ci offre elementi per cercare di capire
qualcosa di più del nostro tempo, ascoltando altri punti di vista su
ciò che accade in Italia e in Europa.
Marzo 2016 - Dal sito
“Sesamo. Didattica interculturale”
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