Barocco e
illuminista,
sperimentale e
ossessionato:
tutti conoscono e
celebrano
lo stile dell’Ingegnere.
Ma ora si annuncia un epistolario
che contiene il romanzo più bizzarro.
Quello della sua vita
«Che cosa fai tutto il giorno?», gli chiedono le persone indaffarate: «Non ti muovi mai?». «No: non mi muovo».
È, per chi non lo ricordasse, la stupenda chiusa di una prosa minima e tuttavia inconfondibile di Carlo Emilio Gadda: una breve nota biografica, in terza persona, con la quale il «gran lombardo» (la
definizione è di Giulio Cattaneo, suo acuto e affettuoso
memorialista) volle accompagnare la prima edizione, presso Garzanti,
di uno dei suoi capolavori, Quer pasticciaccio brutto de via
Merulana.
Era il 1957; e da sette
anni l’Ingegnere (altro appellativo con cui amici e ammiratori
erano soliti designarlo; assolutamente legittimo, del resto, perché
Gadda si era laureato in ingegneria al Politecnico di Milano e aveva
svolto, in Italia e all’estero, svariati incarichi ingegnereschi)
viveva, lasciate la natia Milano e l’elettiva Firenze, a Roma.
A Roma, Gadda c’era
andato per ragioni di lavoro, anzi di sopravvivenza. Di solida
famiglia borghese incappata però, a partire dalla prima guerra
mondiale, in traversie anche finanziariamente dolorose, s’era
barcamenato a lungo, e sempre più a fatica, fra lavori professionali
e collaborazioni giornalistiche; poi, vicino alla sessantina, aveva
accettato con riluttante sollievo un impiego alla Rai, dove s’era
adattato a svolgere (cito da una sua lettera inedita) «funzioni
burotracritiche o addirittura burocratiche, adattissime alla sua
totalitaria ignoranza».
Ma, dopo cinque anni,
aveva lasciato quell’impiego; ormai era uno scrittore molto noto
anche se non altrettanto capito, oggetto di venerazione per pochi e
di fraintendimento per i più. Un premio Viareggio lo aveva reso per
qualche settimana, diceva scherzosamente, «una specie di
Lollo-brigido, di Sofio Loren»; la vera fama sarebbe arrivata con il
Pasticciaccio. Viveva (sono ancora sue parole) «a quattordici
chilometri dal centro, in una casa di civile abitazione, confortato
nottetempo dagli ululati dei lupi».
Gadda era un uomo
grandiosamente bizzarro, simile per qualche verso a certi personaggi
teneri, comici e stravaganti dei romanzi di Charles Dickens: pieno di
paure, di fobie, misogino sino all’inverosimile (in ogni donna
nubile o vedova di qualsiasi età fiutava una possibile,
temibilissima aspirante alla sua mano), formale e cerimonioso sino
all’insulto. In un importantissimo libro che verrà pubblicato fra
qualche mese, e del quale parlerò più avanti, Gianfranco Contini,
il maggiore dei suoi studiosi e interpreti, ne descrive l’alta
statura, l’abbigliamento «poco meno che austero»; e oltre,
appunto, all’«oltranza di buoneducazione», ne ricorda
l’«infelicità enorme, intervallata (...) da un’ilarità
altrettanto enorme».
Ma perché sto parlando
di questo personaggio grande in tutto, nelle qualità come nelle
debolezze, nell'immaginazione come nel dolore? Potrei rispondere - e
sarebbe, mio modo di sentire, una ragione sufficiente - che ne parlo
perché credo che Gadda sia uno dei massimi scrittori che l’Italia
abbia avuto, e non solo in questo secolo. Ma ci sono, è meglio dirlo
subito, motivi più contingenti.
Il primo motivo è di
carattere, diciamo così, celebrativo. Siamo abituati, ormai, a non
lasciarci scappare un centenario che sia uno. Ebbene, in quest'anno
1987 si celebra, in anticipo di sei anni sul primo centenario della
nascita dello scrittore, una ricorrenza meno canonica ma, suppongo,
non meno significativa: treni anni dalla pubblicazione, appunto, del
Pasticciaccio, il romanzo che non pochi critici ritengono il
suo capolavoro (nor io; non perché non mi sembri un capolavoro, ma
perché sono incline a scorgere, nell’opera di Gadda, una complessa
e inscindibile triade o trinità di capolavori: il Pasticciaccio
accanto a L'Adalgisa e a La cognizioni del dolore) -, e
che, in ogni caso, è senza dubbio il libro più conosciuto, in un
certo senso addirittura popolare - nu merose edizioni, più di
duecentomila copie vendute, una decorosa e natutalmente sbiadita
trascrizione cinematografica - di questo autore proverbialmente
«difficile».
Altro motivo, la
singolare proposta da parte dell’editore Scheiwiller, degli
articoli di divulgazione scientifica scritti da Gadda in vari periodi
(anche della maturità) per alcuni quotidiani e riviste. Azoto
(questo il titolo della raccolta) è una rarità prelibata per
appassionati e cultori di Gadda, non certo un passaggio utile o tanto
meno obbligate per chi si accosti alla sua opera da semplice lettore.
Ma è una rarità che è giusto segnalare: anche perché, nella
personalità di Gadda, la componente razionale,
scientifico-illuministica ha un’importanza tutt’altro che
secondaria, e ancora largamente da accertare, accanto alla componente
sin troppe nota (o, perlomeno, troppo univocamente sottolineata) del
suo sfrenato «irrazionalismo» stilistico.
A questo proposito, anzi,
non si terrà mai abbastanza presente la famosa battuta autoesegetica
delle scrittore: «Il grido-parola d’ordine “barocco è il G.!’’
potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto
"barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la
baroccaggine”»; battuta che si legge nel dialoghetto fra l’Autore
e l’Editore immaginato da Gadda per introdurre la prima edizione in
volume (1963) della Cognizione del dolore.
Ma i motivi del nostro
parlare oggi, proprio oggi, di Gadda non sono certo esauriti, anzi
stiamo procedendo, nell’enumerarli, dall’esterno verso l’interno,
dalla mera occasione alla sostanza. Ed ecco subito, di assai
sostanzioso, il Ritratto di Gadda che un valoroso critico,
Gian Carlo Ferretti, ha fatto uscire in questi giorni per i tipi
dell’editore Laterza: uno studio che ripercorre passo per passo la
storia delle strepitose e sofferte creazioni gaddiane.
Una storia non facile da
dipanare, come è noto, anche dal punto di vista puramente
cronologico, giacché mai o quasi mai Gadda pubblicò i suoi libri
via via che li veniva scrivendo, ma si indusse e si lasciò indurre a
darli in pasto al pubblico a distanza notevole (a volte addirittura
di decenni) dalla loro composizione e dalle loro prime, frammentarie
comparse in riviste: come se (e forse è davvero così) essi fossero,
per lui, dei segreti da celare o da confessare solo parzialmente,
delle verità troppo profonde, radicate e terribili per essere
offerte senza infingimenti agli occhi dei lettori.
Allo stesso ordine di
ragioni appartiene, del resto, un altro tratto comune alle opere
maggiori di Gadda: l’incompiutezza. Sia La cognizione del dolore
sia il Pasticciaccio sono, infatti, romanzi che non finiscono
o, meglio, che trovano la loro fine emozionante e inevitabile nel
fatto, appunto, di non finire; romanzi ad enigma (e nel caso del
Pasticciaccio si può parlare addirittura di romanzo «giallo»,
con tanto di commissario di pubblica sicurezza, di inchiesta, di
indiziati eccetera) nei quali l’enigma non viene risolto ma, per
così dire, inglobato nello splendore e nell’angoscia della
scrittura, e rinviato a un confronto incessante e speculare tra la
coscienza dell’autore e la coscienza del lettore.
Di questa fitta, oscura,
inquietante trama di interrogativi e di senso, Ferretti rende conto,
mi sembra, con lodevole equilibrio e ragionevolezza. Non era facile
fare delle «scoperte», critiche o psicologiche, sul conto di Gadda,
dopo gli studi fondamentali di Gianfranco Contini e di Gian Carlo
Roscioni e dopo gli illuminanti contributi di Pier Paolo Pasolini, di
Pietro Citati, di Dante Isella ecc. E, in fondo, non era nemmeno
questo - fare delle «scoperte» - lo scopo di Ferretti, quanto
invece, suppongo, condensare e registrare il molto che si è pensato
e detto in una sorta di racconto critico filato, ordinato e compatto:
scopo che, se la mia supposizione è giusta, gli è egregiamente
riuscito.
Vorrei citare, a riprova,
alcune formule di pregevole semplicità ed evidenza nelle quali
Ferretti ha saputo racchiudere un ricco e molteplice e stratificato
sapere critico formatosi nel corso di decenni: come quando enumera i
poli fra i quali si esercita l’implacata e implacabile tensione, il
«conflitto di fondo» che attraversa e caratterizza la scrittura e
la stessa vita di Gadda: ordine e furore, «registrazione di eventi»
e ossessione nevrotico-esistenziale, sistema e caos, opera chiusa e
incompiutezza, eccetera eccetera; o come quando, poco dopo, rivendica
l’essenziale, importanza della «radice umana, etica» del
cosiddetto sperimentalismo gaddiano.
E proprio su questa
radice, su questa umanità «enormemente» tormentata, responsabile e
dolente, getta una luce preziosa, e quasi insostenibile da quanto è
netta e vibrante, un libro di cui già ho fatto cenno all’inizio e
che costituirà (l’uscita è prevista per settembre) uno dei
principali avvenimenti culturali della prossima stagione. Si tratta
(se il titolo non verrà mutato) delle Lettere a Gianfranco
Contini a cura del destinatario, in preparazione presso l'editore
Garzanti alla cui cortesia devo l’aver potuto consultare il
materiale dattiloscritto.
L’importanza e la forza
di suggestione del volume, nel quale le lettere di Gadda sono per
così dire avvolte da un ininterrotto, minuzioso e pudico commento,
da una - com'egli stesso la chiama - «glossa perpetua» di
Gianfranco Contini, mi sembrano incomparabili con quelli, pur
notevoli, dei non pochi epistolari gaddiani apparsi negli ultimi
anni. Qui, infatti, Gadda parla e si rivela a un interlocutore
davvero unico: un amico carissimo (l’amicizia fra i due risale, ci
informa Contini, al maggio del 1934, e durò ininterrotta sino alla
morte o, almeno, sino al patetico spegnersi dell’intelletto e della
memoria dello scrittore) che è anche, nello stesso tempo, il primo e
il più autorevole dei suoi interpreti.
Verrebbe voglia di
citare, e molto; ma non voglio tradire la fiducia di chi mi ha
consentito di conoscere con tanto anticipo il contenuto del futuro
volume. Ciò che soprattutto impressiona e commuove, in esso, al di
là delle molte notizie o conferme che ci fornisce, è l’immagine
umana che ne emerge: un’immagine fatta di dignità nella sventura,
di ironia nell'infelicità, di lucidità nella paranoia, di umiltà
(vera) nella coscienza del proprio ruolo, della propria grandezza...
Come per miracolo - ma è,
semplicemente, il miracolo della verità, la verità di quella
«radice umana, etica» di cui parla Ferretti - nulla, in Gadda, ci
appare ridicolo e gretto: nemmeno le preoccupazioni oggettivamente
più ridicole, le difese e cautele oggettivamente più meschine.
Citerò un unico esempio,
supremamente comico e straziante. Quando, nell’aprile del '63,
legge in dattiloscritto il saggio che Contini ha scritto come
prefazione alla prima uscita in volume (presso Einaudi) della
Cognizione del dolore, Gadda è preso da un indicibile
terrore. Contini inizia il discorso rapportando la situazione
psicologica riflessa dal romanzo alla famosa scena nella quale il
protagonista della Recherche proustiana scopre il lesbismo di
Mademoiselle Vinteuil e i legami di dolorosa, necessità che legano
il suo erotismo all’oltraggio simbolico della memoria dei padre.
È quanto basta per
scatenare in Gadda la paura, «enorme» e irrefrenabile, di essere
identificato con Mademoiselle Vinteuil, di apparire ai suoi
«familiari» come un omosessuale, un odiatore del padre, un mostro
edipico, un potenziale assassino... Ed eccolo, come egli stesso
pateticamente e grandiosamente scrive, rivolgersi all’amico «in
extremis, e nell’acme della sua angoscia e infermità», per
supplicarlo (dopo averne compuntamente elogiato, si capisce, il
«magistrale saggio», il «magnifico testo») di togliere, di
attenuare, di sfumare quel riferimento, che «si raccomanda per
verità critica, ma non è meno esplosivo e tragico per i cuori delle
vittime tuttora viventi».
Povero Gadda. Quanta
sofferenza, quanta vergogna, quanta fatica di vivere... Eppure, non è
mai soltanto la pena a toccarci quando chi soffre soffre in quel
modo, e ne parla con quegli accenti. E l’esclamazione più giusta,
allora, che per lui ci sale dal cuore, è di pietà ma anche di
ammirazione, inscindibili l’una dall’altra persino davanti allo
sfacelo (negli ultimi, tristissimi anni) della sua mente: povero,
grande Gadda.
EUROPEO/11 APRILE 1987
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