Un bel saggio del grande Gianni Rodari, lettura vivamente consigliata. Con una lieve omissione. Nell'esemplificare la scarsa fortuna di Salgari all'estero Rodari tralascia l'area ispanofona e in particolare l'America Latina. Fa male: lì Salgari, forse grazie alla presenza di un'ampia emigrazione italiana, era già nei primi decenni del secolo scorso conosciuto e letto.
Dice Rodari che Sandokan non era Che Guevara. Giusto!
Ma quasi certamente il piccolo Ernesto Guevara aveva letto di Sandokan. (S.L.L.)
«Oh, da quando ho
giocato ai pirati malesi — quanto tempo è trascorso... ». Questo
è Cesare Pavese, nella prima poesia di «Lavorare stanca»,
intitolata I Mari del Sud nella quale si parla di un cugino
«tra i fortunati che han visto l’aurora — sulle isole più belle
della terra». Una successiva precisazione sposta l’entusiasmo
dalla Malesia a «un’isola detta Tasmania — circondata da un mare
più azzurro, feroce di squali — nel Pacifico, a sud
dell’Australia». Ma anche gli squali, come i pirati, sono un
ricordo salgariano. Anche l’aggettivo «feroci». Sandokan,
nell’originale, è abbastanza feroce.
Pavese e Sandokan:
l’accostamento è casuale, non c’è da arrampicarsi sugli specchi
per trarne chi sa quali seduzioni. Possiamo soltanto immaginare che
Pavese, se avesse potuto vedere il Sandokan televisivo, non si
sarebbe stracciato le vesti per lo scandalo, non avrebbe approfittato
dell’occasione per esibire nostalgie d’infanzia: piuttosto
avrebbe accettato di giocare ancora, per qualche minuto, «ai pirati
malesi», senza imporre al regista pesanti compiti culturali.
I ragazzi d’oggi non
giocano troppo ai pirati. Hanno in mente altri eroi. Interrogati
all’indomani della prima puntata, della quale in genere si sono
dichiarati soddisfatti, molti di loro hanno rivelato ai giornalisti
che non conoscevano ancora Salgari. «Non ho mai letto un libro di
questo autore, ma ora li cercherò». «È la prima volta che sento
nominare Sandokan ». Perché meravigliarsene? Loro conoscono bene
Diabolik. Se nessuno si scandalizza, potremmo aggiungere che dai
dieci anni in su, per lo meno nelle sterminate periferie cittadine,
conoscono, benissimo le porno-fiabe. Ci sono bambini per i quali
Pinocchio è un fumetto erotico, che comprano i fratelli maggiori, o
il padre, e poi lasciano in giro per casa.
I ragazzi di ieri, o
dell’altro ieri, per sfuggite alla noia delle letture scolastiche
avevano Salgari. Ma chi sa poi se lo avevano veramente, chi sa quanti
lo hanno avuto. I suoi libri sono usciti a cavallo del Novecento, in
una epoca in cui la maggioranza dei ragazzi italiani non andava a
scuola e non sapeva né leggere né scrivere, e una gran parte di
quelli che andavano a scuola non possedevano altra carta stampata da
quella del sillabario. In intere regioni italiane si potevano trovare
dei libri solo nelle case della media borghesia, dei professionisti,
degli insegnanti. Con queste limitazioni si può sottoscrivere quel
che dice Luigi Santucci nella sua Letteratura infantile quando
definisce Salgari «la grande bambinaia di quella generazione che fu
l’ultima, nel ventennio dal 1890 al 1910, ad avere un’adolescenza
felice. Questa bambinaia, anche se nascondeva il grembiule di
rigatino sotto i taglientissimi kriss malesi o i crani scotennati dai
thugs e nella borsa, in luogo della merenda, serbava narcotici e
veleni». La bambinaia, quella propriamente detta, non esisteva che
nella minoranza delle case.
Per decenni Salgari fu
1’Uomo Nero dei pedagogisti, il Nemico Pubblico numero uno delle
famiglie. Se ne ricorda un altro storico della letteratura per
l’infanzia, Olindo Giacobbe: «...A dispetto di tutti, i libri del
nostro autore preferito scivolavano sotto i banchi di scuola, li
nascondevamo tra i testi scolastici e nel silenzio delle nostre
camerette, quando i genitori erano sicuri che si attendeva tutti
raccolti a decifrare un difficile compito di geometria o a tradurre
con la maggiore attenzione una lettera di Cicerone o un capitolo di
Cesare, aprivamo di soppiatto le sue pagine, che avevano tutto il
sapore delle cose proibite, e mondi misteriosi e lontani sollevavano
dinanzi ai nostri occhi incantati scenari favolosi di sogno e di
mistero e seguivamo col respiro mozzo dalla commozione lo svolgersi
delle più straordinarie avventure. Venivano poi le medie trimestrali
e gli esami di luglio e il povero Salgari era quasi sempre accusato
di esser la causa prima della nostra rovina: che ne sarebbe stato di
noi buoni a niente, senza la sicurezza di strappare almeno una
modesta licenza dì scuola media, capace di aprirci la porta di un
impiego? Credevamo forse di poter esercitare la professione di pirati
o di trovare qualche generoso rayah che ci aprisse i suoi misteriosi
forzieri per vivere di rendita? Saremmo stati una generazione di
spostati e le nostre famiglie si sarebbero dovute vergognare di noi».
I critici erano
severissimi. Per Vincenzina Battistelli (La moderna letteratura
per l'infanzia , 1923) i libri di Salgari erano «volgarissime
offese all’arte e alla scuola», e da essi «ben poco di buono un
volonteroso potrebbe salvare». La buona signora scriveva queste
righe nell’inciso di una voce dedicata a Giulio Verne, in un volume
che dedicava undici pagine a Luigi Parravicini, tredici a Pietro
Thouar, diciotto a Cesare Cantù e persisteva nel consigliare ai
ragazzi il Telemaco di Fenélon e le novelline dello Schmidt.
SALGARI scrittore nero,
scrittore maledetto, proibito ai minori. Qualche traccia di questo
suo peccaminoso passato si trova ancora in alcuni manuali di
letteratura infantile che magari non si spingono fino a sconsigliare
direttamente la lettura dei suoi romanzi, però ne tacciono
pudicamente i titoli, o riducono l’autore a una comparsa
insignificante. Ne circola uno (di Ottavia Bonafin) in cui ci sono
dieci righe per Salgari e quarantatrè righe per don Bosco. Ma
Salgari può accontentarsi: dieci righe sono sempre il doppio delle
cinque riservate a Mark Twain.
Nel frattempo, però, il
vento è girato. Nella maggioranza dei libri che si occupano oggi di
letteratura infantile la riabilitazione di Salgari è quasi completa.
Piacciono di lui, a Giuseppe Fanciulli, «la propaganda del coraggio
fino alla temerità, dell’ingegno fino alla scaltrezza, della
volontà fino all’ostinazione» e «la tecnica cinematografica del
racconto», la rapidità nella quale « l’inverosimile, lo
strampalato, l’assurdo trovano una giustificazione ». Dice
Virginia Galante Garrone: « Ci sono dei valori positivi, anche
moralmente parlando, in quest’opera esaltata e deprecata; ed è il
senso dello onore, il rispetto per la parola data la reciproca lealtà
e stima tra i prodi che si combattono viso a viso, il valore sacro
del giuramento, l’ammirazione per il coraggio sfortunato».
Il giuramento cui qui si
allude è quello del Corsaro Nero: vendicare i suoi fratelli, il
Corsaro Rosso e il Corsaro Verde, uccisi dal traditore Wan Gould,
governatore di Maracaybo. Ecco che il Corsaro Nero cattura un galeone
spagnolo. A bordo c’è una fanciulla, naturalmente bellissima. Tra
i due sboccia — non è lecito usare altra parola — un
delicatissimo amore. Ma quando il Corsaro Nero scopre che la sua dama
è figlia dello odiato Wan Gould non ha esitazioni e l’abbandona in
mare, in una notte di bufere. Col cuore straziato, come si dice, ma
fedele alla parola.
Intanto, giudizi
illustri, tutti riabilitanti, si sono andati aggiungendo a quello
degli educatori. Silvio D’Amico (sul « Corriere della sera », nel
1927) : «Se Verne appartiene alla famiglia degli scienziati-poeti e
a volergli trovare ad ogni costo un cugino si può tutt’al più
pensare a Wells chi non vede che il burrascoso Salgari appartiene a
un’altra razza, quella dei raccontatori d’intrecci meravigliosi?
La scienza, le combinazioni chimiche, la estatica contemplazione
degli abissi sottomarini, e delle solitudini australi non sono affar
suo. Egli sta tutto da un'altra parte: è della famiglia dei
drammaturghi spagnoli di cappa e spada, dei commediografi alla
Pixerecourt e alla Dennery, dei romanzieri francesi d’appendici
Dumas Padre, Sue, Montepin, Ponson du Terrail...»
E da parte cattolica,
Piero Bargellini:«Nell’epopea salgariana c'è l’eroismo, ma non
c’è patriottismo, c’è la battaglia, ma non c’è la guerra ».
Per una volta, giustissimo. Non è mai stato rilevato, per esempio,
che Salgari scriveva negli anni della politica africana del Regno, ma
l’Abissinia non gli diceva nulla e l’Africa, per lui, era solo il
luogo deputato per le avventure della «Favorita del Malidi».
Per tornare un attimo a
Silvio D’Amico, però, occorre correggere una sua svista: le
solitudini australi non restarono del tutto fuori della portata del
Nostro, che se ne occupò nel romanzo «Al Polo Australe in
velocipede». È uno dei suoi meno noti, con altri di vaghe pretese
fantascientifiche. Certamente più famosi sono il ciclo del corsari
atlantici e dei pirati della Malesia e dintorni.
Sulla nettissima
distinzione fra Salgari e Verne, ovviamente, aveva ragione D’Amico
e hanno ragione tutti quelli che ci argomentano variamente intorno.
Nessun grande poeta italiano potrebbe dire dello scrittore veronese
quello che Apollinaire diceva di Verne: «Che stile, Jules Verne! Non
usa che sostantivi!». A parte i destini personali, così diversi.
Per Salgari la lunga miseria, anni di febbre, il suicidio. Per Verne
la gloria e tre bei panfili, che battezzò uno dopo l’altro Saint
Michel I, Saint Michel II, Saint Michel III, e con i quali potè
permettersi di scorrazzare nel Mediterraneo. Verne nel Pantheon della
letteratura francese. E Salgari? Apriamo il Flora: ed ecco, tra i
narratori minori di varia ispirazione, il nome e cognome, tra due
virgole. Però nella stessa pagina, con lo stesso trattamento, ci
sono Paolo Mantegazza e Yorik, Giuseppe Bandi e Giovanni Visconti
Venosta. Un po’ più giù i nomi di alcuni prestigiosi viaggiatori:
Romolo Gessi, Guglielmo Massaia, Vittorio Bottego. Forse il Salgari
si sarebbe detto soddisfatto del trattamento e della compagnia.
IL LETTORE più recente e
acuto di Salgari è il bolognese Antonio Faeti, che nel suo libro
Guardare le figure dedica a lui e ai suoi illustratori un
lungo, interessante capitolo. A Faeti importa recuperare gli esclusi,
gli emarginati della cultura e dell’arte ufficiale, i figurinai,
gli autori di romanzi d’appendice, di canzoni per le fiere, i
pittori confinati nei libri per ragazzi e dimenticati dalle storie.
La sua non è un’operazione ironica, alla Gregoretti, ma
affettuosa, quasi solidale, serissima anche nell’impegno critico.
Questa serietà gli
permette di compiere, su Emilio Salgari, qualche autentica scoperta.
Definire Salgari un «inesauribile manipolatore di intrecci» era
facile. Meno facile individuare con documenta ta sicurezza una delle
fonti comuni a Salgari e ai suoi illustratori. Di dove traevano,
quegli ostinati sedentari, il materiale per narrare e figurare luoghi
lontani e fantastici, il mitico Oriente, ogni sorta di costumi e
parole esotici? Non dalle enciclopedie, come è stato detto, ma
piuttosto dal «Giornale dei viaggi e delle avventure di terra e di
mare», edito da Sonzogno e compilato da giornalisti che ricavavano
molto liberamente 1 loro servizi da resoconti pubblicati da riviste
straniere, libri, notizie d’agenzia. Salgari «prendeva da loro i
brandelli di un universo esotico, ormai più che stravolto da una
serie successiva di variazioni e di accomodamenti ». Gli
illustratori si ispiravano alle incisioni del giornale.
È come dire che luoghi,
personaggi, intrecci nascevano al Salgari mentre « guardava le
figure », né più né meno di come fanno i ragazzi. Il suo era un
fantasticare, un sognare a occhi aperti: esattamente come quello dei
ragazzi, che ritrovano poi nel testo il tono, il segno del loro
fantasticare, la stessa qualità della materia che sono soliti
rimuginare intieramente. E forse il segreto di Salgari è tutto qui.
Ci sono però altre cose,
insiste Faeti, che accadono a Salgari nella stessa maniera in cui
accadono ai ragazzi. Per esempio, egli si innamora di certe parole
che valgono più per il loro suono che per il loro significato:
vocaboli che creano una distanza, che non sembrano nati dalle cose,
ma in sogno. «Nagar», «garude», «puram» «talapoino»,
«vatsetuphon». In una sola pagina succede di trovarne dieci,
venti, senza più la traduzione accanto, che è stata data una sola
volta, molte pagine prima, come una fastidiosa necessità.
Spesso queste parole sono
collegate a cibi esotici. Nel romanzo L’uomo di fuoco (è sempre
Faeti che fa il conto) Alvaro De Correa divora «i frutti delle
acajaba» a pagina 39, le «pinhas» a pagina 51, la carne di bradipo
e le jabuti cabeira a pagina 67, i pesci «traira», a pagina 73, la
«fructa do pao» a pagina 91, per accontentarsi, a pagina 97, di una
semplice testuggine.
QUI naturalmente è lo
psicanalista a drizzare le orecchie, notando l'accesa «oralità»
dello scrittore, per paragonarla a quella dell’età infantile. La
coincidenza è significativa. Il filo è da seguire. Una volta,
assistendo al lavoro di un gruppo di studenti universitari che
cercavano di rievocare le loro letture infantili, il loro incontro
con la lettura, ci capitò di notare che quasi tutti associavano
ricordi di libri a ricordi di cibi. «Mi piaceva leggere all'ora
della merenda». «Mi sdraiavo pancia sotto col mio pane e
cioccolato, e leggevo». E così via, quasi tutti. (Se tornate alla
citazione iniziale di Luigi Santucci troverete che anche a lui
Salgari ha fatto ricordare la merenda... È difficile che se ne sia
accorto, però.)
Un’altra volta una
studentessa ci raccontò che si preparava all’esame cosi: il libro
sul tavolo, e accanto al libro una fila di mele.
La grande conferma e
controprova ci viene, nientemeno, da Thomas Mann. In una pagina
autobiografica del Romanzo di un romanzo egli ricorda «le ore
di entusiasmo che passavo dopo scuola leggendo Schiller, con davanti
un piatto di panini imburrati».
Ecco, non ce lo siamo
inventati. C’è qualcosa, gli specialisti ci dovrebbero spiegare
cosa significhi.
Un’altra osservazione
di Faeti, che si salda alle precedenti, riguarda «l’eros
salgariano». Lo scrittore veronese, secondo lui « è quasi l’unica
fonte dalla quale una certa categoria di lettori poteva attingere
questo tipo di emozioni. Le sue donne sono insieme vaghe, simboliche,
remote come quelle del segno adolescenziale, ma anche piene di umori,
di aggressività, di ferina sensualità, così come le desidera la
stereotipia erotica delle classi subalterne ».
La « bambinaia »,
insomma, non provvedeva solo a suggerire trame di giochi avventurosi,
nomi affascinanti da assumere in nome del banale nome quotidiano
(TrimamaiK, Kammamuri, il Malabaro), ma anche a nutrire sogni più
inquietanti, nell’età del risveglio sessuale, di forme ambigue e
imprecise, di parole da ripetere in segreto: la Favorita. A vestire
di panni esotici quelle immagini provvedevano gli illustratori, tra i
quali fu Giuseppe Garuti, modenese, scenografo e costumista del «
Carlo Felice » di Genova, a eccellere nei personaggi femminili.
Garuti (che firmava
Pipein Gamba), Alberto Della Valle, che raffigurava se stesso in
Yanez, il napoletano Gennaro D'Amato, il creatore della più famosa
immagine di Sandokan: dovevano essere anche loro dei personaggi da
romanzo. E forse più di tutti il Della Valle, che fini suicida, come
Salgari. Oggi anch’essi, al seguito del loro autore vengono
rivalutati e riabilitati. Sapevano disegnare sul serio. Fosse già
esistita in Italia, ai tempi loro, la moda dei fumetti, avremmo avuto
in loro dei grandi fumettisti. Tanto più che i romanzi di Salgari,
riletti oggi, fanno più che altro l’effetto di grandiose
sceneggiature per fumetti.
TRA Salgari e i suoi
illustratori corre, però, una differenza di fondo: essi erano dei
buoni professionisti, lui era anche qualcosa d'altro. Non si riesce a
definire bene che cosa. Quando si sono smontati i suoi libri, come
giocattoli simili tra loro fino a confondersi, copioni per drammi da
improvvisare in cortile, e si è smontato l’autore, dissolvendolo
nelle poche notizie che si posseggono della sua vita, resta un
residuo sfuggente. Del poeta, è stato scritto di lui, aveva
«soltanto la febbre». Usando categorie che corrono oggi, lo si
potrebbe chiamare un «naif» della letteratura. E si sente che
credeva a quel che faceva, credeva nelle sue fantasie, o
fantasticherie, come ci credono i ragazzi, o gli autentici « naifs
».
I libri di Salgari sono
stati tradotti in diverse lingue, ma non sono mai diventati veramente
popolari all’estero. I francesi, lasciando da parte Verne, avevano
i loro Aymard e Boussenard. I tedeschi avevano il loro Salgari più
composto, più colto, anche se meno dinamico, in Karl May. Inglesi e
americani, per non parlare dei grandissimi come Stevenson, tutta una
schiera di scrittori d’avventura, da Cooper a Zane Gray e, su un
versante più impegnato, Jack London. Se non sbagliamo, sarà proprio
la TV a far conoscere a milioni di ragazzi, anche fuori di Italia, il
nome e le gesta di Sandokan.
Su questo Sandokan
televisivo sono già state scritte, nelle ultime settimane, decine di
migliaia di parole. C'è poco da aggiungere alle diverse opinioni,
tra le quali i lettori possono, o no, aver ritrovato la loro opinione
personale.
Personalmente, siamo
contenti per Salgari. È una bella vendetta, per uno scrittore tanto
disprezzato e ridicolizzato, non solo vedere i suoi personaggi
sopravvivere a tanti altri, accolti al loro apparire con tutti gli
onori delle armi critiche, ed oggi pienamente dimenticati, ma ammessi
addirittura all'Olimpo televisivo della domenica sera, per una platea
sterminata. La maggioranza di questa platea segue le avventure di
Sandokan senza pregiudizi di alcun genere, con seria attenzione e
onesta partecipazione, come le platee popolari di una volta
seguivano, all'Opera, le vicende di Gilda e del Rigoletto, di Aida e
di Don Carlos. I teleromanzi sono il melodramma dei tempi nostri. E
Sandokan non è il Trovatore (non è neanche Che Guevara) ma, come
teleromanzo, non ci sembra peggio di tanti altri: anzi.
“Paese Sera”, 18
gennaio 1976
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