Nel dicembre 1971 il
movimento femminista americano organizzò, a New York, un congresso
sulla prostituzione. Fu un disastro. «Il risultato», scrisse poco
dopo una delle organizzatrici, Kate Millet, «rivelò la mia
utopistica ingenuità». Durante la seconda giornata dei lavori,
quando la commissione di esperte («che includeva tutte, tranne le
prostitute») affrontò l'ordine del giorno sulla «eliminazione
della prostituzione», esplose il caos. Le prostitute presenti
rifiutarono le non-prostitute che si occupavano, da «donne oneste»,
di una cosa che non le riguardava direttamente; e negarono ad esse
ogni diritto di auspicare la loro «eliminazione» quasi che si
trattasse di individui schiavizzati dalla società e «diversi».
Come ricorda Rate Millet, le femministe cercarono di spiegare che il
loro progetto esprimeva una vera solidarietà tra donne; poi, per
rendersi più credibili, cominciarono ad esagerare dicendo «...che
anche noi siamo prostitute, che tutte le donne sono prostitute, che
il matrimonio è prostituzione, eccetera». Il culmine delle gaffes
fu raggiunto quando una femminista si rivolse a una «professionista»
apostrofandola: «...tu ti vendi, potrei anch’io ma non voglio».
Si venne alle mani.
L’episodio è un
sintomo della arbitrarietà di quella sociologia «attualizzante»
sul problema della prostituzione che, come tale, appare invece un
tema da analizzare anzitutto storicamente. Insomma, più questo
argomento è ruvido e, per così dire, interdisciplinare, e più va
«disciplinato» e trattato con cura.
In una recente, puntuale
rassegna di Renzo Villa (La prostituzione come problema
storiografico, Studi Storici, n. 2,1981) sono indicate le
numerose ricerche, compiute soprattutto negli Stati Uniti e in
Inghilterra (tra cui una ricchissima Bibliography of prostitution,
pubblicata nel 1977), che dimostrano come la prostituzione non sia
più un oggetto marginale e «ignobile» dell’indagine storica. La
tendenza è che la prostituzione non venga usata come lente di
ingrandimento di deviazioni morali e di costume, né interpretata in
modo esclusivo come un fenomeno della emarginazione e del pauperismo.
Allargati dunque i margini di lettura storica del fenomeno (come non
parlare anche della tradizione del libertinismo, delle
rappresentazioni letterarie della prostituzione e dei decisivi
cambiamenti avvenuti nei rapporti interpersonali e sociali tra uomo e
donna?), il tema non è più soltanto l’eco stonata di un
comportamento sessuale modulato su armonie morali, ma un connotato
essenziale della mutazione storica di questo comportamento.
Come avviene per altri
importanti (e non amati) modelli di costume, la prostituzione, e la
sua organizzazione legale (i bordelli) o clandestina, entrano in una
norma sociale; anche se la società esprime un esasperato stato di
allarme a tutti i livelli, dal politico al sanitario. Ora, l'analisi
di questa «norma sociale» che ingloba, rifiutandola, l'anomalia
della prostituzione e dei bordelli, richiede una non superficiale
attitudine storica. È a questo punto, infatti, che anche le campagne
moralizzatrici e lo stato di allarme diventano fonti di
documentazione sui rapporti di produzione sociale e sulla resistenza
conservatrice alla mutazione dei comportamenti. Per cui la
prostituzione è nello stesso tempo considerata necessaria, protetta
e negata. Questa contraddizione, che è poi la dialettica «culturale»
della prostituzione, non a caso si perfeziona nell’Ottocento
borghese, il secolo vittoriano.
Nella prospettiva
storica, la prostituzione ha dunque per noi un senso solo a partire
dagli ultimi decenni del secolo scorso. Nel saggio di Villa si parla,
appunto, di «una quasi incredibile proliferazione di inchieste»
sull'argomento, avviate in tutto il mondo, e soprattutto in Europa,
tra il 1880 e il 1900. C’è però da osservare che questi sono gli
anni in cui l’ordine borghese, ormai stabilizzato, assimila la
prostituzione in uno scenario estetico (anche i bordelli fanno parte
dell’eleganza floreale della belle époque) ed estetizzante, e
insieme la fa filtrare dalla cultura del positivismo che la
incasella, senza mezzi termini, in una macchina sanitaria e criminale
sostanzialmente ideologica. Piacere e paura si allacciano ed è forse
per questo che il tema della prostituzione è, in quegli anni, tenuto
meglio tra le mani nervose e febbricitanti di scrittori e pittori
decadenti che non tra quelle dei veristi e naturalisti.
C’era, ovviamente anche
della menzogna nella criminalizzazione positivista della prostituta
(soprattutto di quella clandestina), poiché se così non fosse
sarebbero sufficienti allo storico i rapporti di polizia custoditi
negli archivi per ricostruire il quadro di questo fenomeno sociale e
culturale. Basta invece leggere le memorie di Polly Adler (A House
is not a Home, 1955), la famosa maitresse americana degli anni
ruggenti, per sapere che la polizia e la prostituzione (e quindi
anche la storia della prostituzione) sono continenti che si sfiorano
solamente. C’è infatti più storia sociale in queste memorie, e in
testimonianze analoghe non scritte o perdute, che nelle inchieste
giudiziarie e nell’«aria fetida», per dirla con Kate Millet,
«delle statistiche sociologiche».
Resta, allora, intatto il
contributo della pagina letteraria, cioè l’attenzione dei
narratori che hanno avvertito, dialetticamente, la presenza della
prostituta nella società e rilevato la sua diversità più come
«opposizione» nei confronti del cinismo e dei sotterfugi della
donna borghese che come «distinzione» etica da questa. Il discorso
è chiarissimo in Maupassant, nel racconto Maison Tellier
scritto cento anni or sono. Tutto, in questo racconto, dalla casa
alla figura di Madame Tellier all'atteggiarsi delle ragazze e dei
clienti, è restituito a una dimensione normale, familiare.
La semplificazione che
Maupassant fa di un mestiere difficile e drammatico, la scelta di
questo tema in un anno, il 1881, che vede esplodere la sociologia
positiva e la criminalizzazione della prostituzione, fanno pensare
all’argine insormontabile che la sua scrittura oppone al senso
comune. E niente più della prostituzione crea e produce facile e
obliquo buon senso. Ma Maupassant, vivendo e contemplando in se
stesso i significati liberatori del sesso, ha in Maison Tellier —
come, del resto, in tanti altri racconti — ristretto il problema
nella dimensione artistica e morale di un frammento di esistenza. La
nota simpatia di Maupassant per il mondo delle prostitute e delle
case chiuse è qui talmente esplicita che Maison Tellier si
libra come una candida metafora dell’innocenza del sesso.
Gran parte del racconto è
dedicato alla festa, cui Madame e le ragazze partecipano, di una
prima comunione in campagna. Ma la stessa «Maison» è una
trascinante festa mobile che porta gioia e divertimento quando è
aperta, tristezza e sgomento quando è chiusa. In più, Maupassant
riveste l’immagine della prostituta di un’aura contadina e pagana
che è estranea alla gradazione di valori imposti e riconosciuti
dalla società («Il pregiudizio del disonore connesso alla
prostituzione, tanto violento e vivo nelle città, non esiste nella
campagna normanna»). Perciò Madame Tellier «aveva accettato quella
professione proprio come sarebbe diventata modista o cucitrice di
bianco».
La sua eccezionale
osservazione «interiore» del mondo della prostituzione è infatti
il primo passo di una concezione assolutamente diversa della realtà,
senza canali e fini; una realtà dove l’universo femminile è
scrutato e compreso con malinconica allegria e vitalismo
intelligente.
“la Repubblica”, 27
ottobre 1981
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