Su
uno speciale di “Repubblica” intitolato I
fantasmi di Caporetto,
apparve nel 1977, con il titolo e il sottotitolo che sotto riprendo,
un corsivo firmato M.I.. Credo che si trattasse di Mario Isnenghi,
autore di uno dei pezzi forti dello speciale e fin da allora attento
studioso delle interferenze e dei corti circuiti tra la realtà e
l'interpretazione, quasi sempre ideologica, non di rado legata a
interessi concreti e corposi (S.L.L.)
Luigi Cadorna al fronte con altri ufficiali |
Raramente nella
storia d’Italia un evento è stato giudicato in modi così diversi
Dobbiamo attendere
un romanzo per capire che cosa accadde?
Che cosa ha sempre
impedito a Caporetto di diventare «reale»? Voglio dire reale di una
realtà passabilmente univoca, contemporaneamente, agli occhi di
tutti? Non v'è, e non vi fu mai, un significalo comune di Caporetto,
anche se molto si fece per costituirlo, prima e durante il fascismo.
Sarà forse, questa pluralità di modi di essere agli occhi di chi la
vive e la vede, una condizione inevitabile di ogni evento; certo è
che di rado, nella storia contemporanea d’Italia, un evento storico
ha saputo essere a tal punto una cosa e il suo rovescio: liberazione
o catastrofe, tradimento politico ed errore tattico, sciopero
militare e incidente disgraziato, rivolta abortita e momentaneo
ribaltamento carnevalesco, realtà o metafora dell’effrazione
d’ogni norma. Opposizione di classi e di individui, divergenze di
interessi e di cultura, dialettica di ruoli e di collocazione si
scaricano sull’evento traumatizzante della rotta con una somma
inaudita di « vissuti » privati e pubblici. Non È solo questione
di diversi codici, di diverse decodificazioni. Sono in questione le
stesse categorie, i criteri di lettura di ciò che si vede di persona
o, più spesso, si viene a sapere o si crede di venire a sapere a
distanza, deformato dai rumori di fondo.
«Sciopero»,
«insubordinazione», «tradimento»: parole cariche di risonanze
sinistre in bocca e nel cuore del medio ufficiale, di complemento o
di carriera, figlio consenziente di una società civile e di
un’educazione di caserma che poggiano da decenni su comuni valori
di ordine e disciplina, di cui la vita militare rappresenta il pieno
dispiegamento. E però al tempo stesso, nell’agghiacciato rifiuto,
espressione di qualcosa di torbido e infido sempre avvertito come
possibile e persino atteso.
Non si spiegano
altrimenti certi repentini capovolgimenti di giudizio nei confronti
dei contadini-soldati: blanditi come docile gregge di rassegnati il
giorno prima, per ridiventare di brutto efferata torma bestiale il
giorno dopo. È che l'insubordinazione dei subalterni giace come
possibilità latente nel cuore bennato del borghese d'epoca, appena
sotto lo strato sottile delle sue sicurezze facili a saltare. Ha
sentito parlare con orrore della Comune; dei suoi stessi princìpi —
i beneamati-famigerati princìpi dell’89 - ha imparato presto a
diffidare (c’erano pure i sanculotti!); se laico, ha letto i testi
del conformismo moderato; se cattolico, decenni di romanzi
d’appendice e di encicliche gli hanno insegnato l’eterna
duplicità del «popolo». Questa stessa duplicità riemerge subito
dopo la rotta, quando partono le operazioni di copertura ed entrano
in azione le droghe ideologiche del Servizio «P» (Propaganda):
tutto quanto è buono e moderato e rassicurante del «popolo» è
ambientato in Italia e vestito di grigioverde; tutto quanto è
infido, inquietante, e sinistro viene rimosso dall’Italia e
trasferito nella Russia bolscevica, dove agita la bandiera rossa.
Ma prima che, almeno in
pubblico, venga trovato questo accomodamento, Cadorna, Bissolati e
tanti altri dirigenti in loco, o turisti politici della classe
dirigente, esprimono chiaramente, con angosciate o furiose
dichiarazioni pubbliche e private, quanto incerta sia l’egemonia
che questa classe esercita sulla società; quanto fluttuante l’idea
che i governanti si fanno dei governati e, di riflesso, dei loro
comportamenti sociali e militari. Veramente i contadini-soldati si
ribellano? Le parole si fanno cose? Il possibile si trasforma in
reale? Non erano sogni per creduli, millanterie consolatorie, o
viceversa incubi, spazzati via nel ’14 dalla dura forza dei fatti?
Preso al gioco della sua stessa produzione ideologica, il blocco
nazionale — che ha costruito l’immagine del «sovversivo» e
durante il conflitto l’ha drammatizzata in quella incombente del
«disfattista», che insidia la disciplina e sabota la patria alle
spalle — non sa più distinguere tra la realtà e i suoi fantasmi,
l’accertato e il possibile.
Questo dalla parte dei
dirigenti. Ma dall’altra parte? Quanto ne sappiamo dell’accumulo
di insofferenza e di rancore che contribuisce a render possibile lo
sbandamento e a far pensare come possibile la rivolta? Per quei
300.000 prigionieri ad esempio — i «vinti di Caporetto», come
saranno con sprezzo chiamati dall’opinione patriottica — quanto
era fondato il sospetto che li colpiva, di aver voluto la cattura
come soluzione privata del conflitto? Una soluzione privata che,
attuata in quelle proporzioni, acquista dimensione sociale. Così
come è ben difficile rispondere con i documenti che la storiografia
«oggettiva» pretenderebbe a tanti altri interrogativi che non
riguardano solo i giorni di Caporetto. Quanti rifiuti d’ubbidienza
vi furono? Quanti atti di insubordinazione, individuali e di gruppo?
Quanti ufficiali italiani «sparati» alle spalle o in combattimento?
Quante esecuzioni sul posto? Si potrebbe continuare. Non ce le
daranno da sole le storie dei battaglioni, queste risposte; e neppure
le carte di polizia. Non è che — per un evento dove reale e
possibile si toccano e il materiale onirico si congiunge tanto
strettamente al fatto empirico — la mediazione della letteratura
possa aprire utili squarci?
“la Repubblica”, 23
ottobre 1977
Nessun commento:
Posta un commento