14.11.17

Ungaretti nella Grande Guerra. Lettere dal fronte (Cecilia Bello Minciacchi)

«È straordinario come fanno la guerra alcuni nostri amici: Giuseppe Ungaretti soldato del 19° fanteria mi manda con naturale semplicità una sua stupenda lirica e mi vuole bene». Così scriveva Gherardo Marone (Buenos Aires 1891- Napoli 1962) in Idee, nella rubrica Bancarella della rivista napoletana «La Diana». Era il giugno del 1916: la Grande Guerra e «La Diana» affrontavano, in Italia, il loro secondo anno di vita. Marone, che della rivista era instancabile e intraprendente animatore, raccoglieva in quell'articolo brani di lettere ricevuti dagli scrittori al fronte, amici e collaboratori già attivi o potenziali.
Ungaretti era ancora poeta poco noto - l’esordio su «Lacerba» nel 1915, poi un'altra poesia su «La Voce» l’anno dopo -; alle prime ottanta copie numerate del Porto Sepolto mancavano, nel giugno del 1916, ancora sei mesi. Tra Ungaretti e Marone, lettore sensibile e avvertito, nasceva un dialogo intellettuale, di poesia e di estetica, destinato in breve a diventare amicizia: «amico Marone, fratello Marone». Testimonianza dello scambio intenso, vivace e proficuo, sono le lettere e le cartoline che Ungaretti gli scrisse dalla Zona di guerra tra il 1916 e il 1918. Di questi documenti, in parte pubblicati da Armando Marone nel 1978 in Lettere dal fronte a Gherardo Marone, introduzione di Leone Piccioni, appare un’edizione nuova, significativamente accresciuta e filologicamente accertata ed emendata, Da una lastra di deserto. Lettere dal fronte a Gherardo Marone (a cura di Francesca Bernardini Napoletano, Mondadori, «I Meridiani» paperback, pp. 268, e 15,00). Il corpus delle missive è ora arricchito dall’incrocio di tre fonti diverse. L’edizione del 1978 era stata condotta solo sui materiali conservati presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, quella attuale, invece, aggiunge ventidue, tra lettere e cartoline, custodite dall’Archivio del Novecento della Sapienza, e due documenti oggi perduti ma riprodotti dal poeta argentino Nicolas Cócaro in Ungaretti soldado (Buenos Aires, 1975).
L’edizione nuova, inoltre, si è valsa anche delle lettere di Ungaretti a Papini, a Pea, a Carrà, a Soffici, a Prezzolini, inedite nel 1978 e ora efficacemente messe a frutto dalla curatrice nelle note e nella bella introduzione.
Il primo documento della corrispondenza con Marone data 18 aprile 1916, e per Ungaretti è tutta una festa: ricevuto sotto le armi un numero della «Diana», risponde con entusiasmo vitale. Benché sminuisse i testi già pubblicati - «qualche poesiola», scriveva, «roba minuscola, nulla» -, e benché si mostrasse gentilmente riservato, Ungaretti fu subito invitato a pubblicare sulla rivista napoletana d’avanguardia aperta a influenze plurali e temperamenti diversi.
«Troppi personaggi», confessava a Papini, pur segnalandogli Marone per il suo «molto cuore», per il suo non essere «volgare». E se nel 1917 quella rivista gli sembrava «ancora una cosa un po’ fatua, un po’ disordinata», Marone gli appariva «un giovine che s’appassiona», «di vocazione». Ungaretti non gli fu avaro: già nel maggio 1916 su «La Diana» stampò Fase, pur sentendo il tempo di guerra non consono alla pubblicazione, non a quella commerciale o diffusa. Lo tratteneva il «pudore», a più riprese affiorante, nelle condizioni estreme della trincea: «Ho deciso oggi – dopo aver molto pianto – quel terribile pianto che non si scioglie - che sempre più si pietrifica dentro - di rimanere in silenzio», aveva scritto nell’aprile del 1916. L’immagine, annota Francesca Bernardini, tornerà nel Porto Sepolto, in Sono una creatura, «dove la percezione tutta interiore del pianto che «si pietrifica dentro» viene rivolta all’esterno, attribuita al destinatario («Come questa pietra / è il mio pianto / che non si vede»)».
Solo qualche mese più tardi, a Papini, interlocutore importante, intellettuale ammirato, venerato, scriverà: «no, niente esibizioni più; a che prò?; non ho nessuno da convertire; ho da vivere; (...) dieci copie manoscritte delle mie cose a dieci amici miei; con l’obbligo per loro e per me del segreto». È lo stato d’animo in cui nasce l’edizione in tiratura limitata del Porto Sepolto: un dono di poesia - «di arte» avrebbe detto -, una comunicazione-comunione con pochi affezionati, con pochi lettori all’altezza.
Ungaretti, infatti, di là dagli schermi, è ben consapevole del valore dei propri versi: mentre il Porto Sepolto è ancora in tipografia, annuncia a Marone che «sarà il miglior libro dell’anno anche se pochi ci si fermeranno». Prova amara sorpresa quando Jahier e Carrà tardano a scrivergli del libro, apprezza con gratitudine i commenti che gli giungono diretti o riferiti, e vive commosso «l’ora più bella» che s’aspettava dal Porto quando Papini per primo, con acume e lungimiranza, recensisce la raccolta sul «Resto del Carlino» il 4 febbraio 1917.
Le lettere testimoniano il labor limae che fin dall’inizio ha contraddistinto la poesia ungarettiana, e il proliferare delle varianti che si succedono immediate, anche non appena il plico con i testi in bella copia sia stato inviato dalla Zona di guerra. Così accade per Il ciclo delle 24 ore, dedicato a Papini e destinato all’Antologia della Diana: spedito da pochissimo, è subito seguito da correzioni, che generano più di un’edizione«definitiva», tutte inviate lo stesso giorno con apprensive richieste di riscontro.
Emblema delle diverse strade imboccate dai documenti e della necessità di ricomporre da queste l’itinerario biografico e letterario, come fa Da una lastra di deserto, è l’incrocio tra versioni conservate in Fondi separati attestato dal Ciclo delle 24 ore.
Altre varianti di rilievo interpretativo compaiono nella tranche di corrispondenza ritrovata più di recente e più fortunosamente - una busta con centoquarantasei lettere di mittenti diversi finita su una bancarella di Porta Portese -; tra gli esempi, titoli di componimenti poi mutati, attestati qui da unico testimone manoscritto: Vivere poi divenuto Distacco e Torbido poi Attrito.
Oltre alle preziose citazioni di inedite lettere di altri corrispondenti della «Diana», conservate presso l’Archivio del Novecento e offerte in nota, uno dei contributi filologici più notevoli dell’edizione scientifica e al tempo stesso affabile approntata da Francesca Bernardini Napoletano, è la scoperta di un’attribuzione erronea. All’esame materiale delle carte, la poesia Notte, attribuita a Ungaretti nelle lettere pubblicate più di trentacinque anni fa, e nella recente edizione commentata di Vita d'un uomo (Mondadori, 2009), si rivela autografo ungarettiano, sì, ma di quattro versi di Gino Chierini.
Da una lastra di deserto - titolo nato dalla suggestione di uno splendido sintagma d’autore - è racconto vibrante di umanità e ininterrotta riflessione di poetica, elaborazione comune di prosa e poesia. Nell’Allegria, ha osservato Guido Guglielmi, Ungaretti «ha vissuto la propria autobiografia come autobiografia della poesia».In queste lettere vita e poesia s’intrecciano, si specchiano con evidenza anche più nitida, e non in risposta a narcisismi estetizzanti ma a urgenze emotive e intellettuali aperte alla condivisione. Si guardi alla coincidenza, nell’animo del «dolorante poeta», di affetto e stima - per Papini, Pea, Cestaro, Apollinaire -, si congiunga come anello perfetto il desiderio di ricostruzione psicologica e letteraria, la lucidità di analisi e di programmazione culturale delle ultime missive dal fronte con la prima lettera a Marone: «Amiamo la vita; lasciamoci prendere dalla vita; non resistiamo alla vita. E verrà su la più vera poesia».


"il manifesto" ALIAS DOMENICA  5 LUGLIO 2015

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