Napoli. Famiglia al ristorante |
Doveva
morire a cinquant'anni, nel 1991. Ha rischiato di morire a ventinove,
su una nave. È vivo e vegeto, a sessantasei.
È
la storia di Bruno Politelli, napoletano piccolo e simpatico, magro
da ballare agevolmente il tip-tap, faccia da scugnizzo e scugnizzo,
ai suoi tempi, diciamo dopo l'ultima guerra mondiale. «Un momento. A
sette anni, era il 1948, già lavoravo. Al vico Berio, ai Quartieri,
c'era la trattoria Da Romolo con
un spot simpatico all'ingresso. Diceva: "Mangiare perfetto, da
Romolo ti aspetto". Il cuoco si chiamava Vincenzo. La dispensa
della cucina era sempre vuota. A me veniva affidato il compito di
correre nelle salumerie e nelle macellerie a comprare il cibo. Il
cliente ordinava e io partivo a razzo per acquistare gli spaghetti,
la carne, il formaggio. Tutto all'istante. Avevamo clienti famosi.
Forse facevano la fame anche loro, ma si chiamavano Totò, Nino
Taranto, Eduardo e Peppino De Filippo. Venivano tutti da Romolo. Alle
ballerine del Teatro Margherita portavo il mangiare nei camerini. Non
mi davano mance, ma mi facevano vedere le gambe. Mi sono innamorato
subito delle donne».
Però
occhi pieni e mani vuote. «Qualche mancia ci scappava al ristorante.
Così contribuivo al nostro pasto fisso in famiglia: rigatoni bolliti
con la margarina. Il grande avvenimento era quando ci procuravamo del
pane bianco. Ne andavo pazzo. Ho finito con lo sposare la figlia di
un panettiere. Eravamo scugnizzi, ma educati» racconta nel suo
ristorante alla Riviera di Chiaia.
Lui
sovrintende, valutando gli astici e le spigole, ma a dirigerlo è sua
figlia Nicoletta, sommelier
emerito, che ha rifornito la cantina di duecento marche di vino. Come
sarebbe a dire educati? «Eravamo otto figli con una madre
meravigliosa, Vincenza, e una nonna ancora più meravigliosa, nonna
Assunta. Ci davano ampia libertà, ma ci raccomandavano una sola
cosa: l'educazione. Il rispetto degli altri era la prima cosa.
Abitavamo in via Chiaia. Educati, però furbi e svelti, perché erano
anni di fame e bisognava arrangiarsi. Anch'io, come tanti scugnizzi,
accompagnavo i marinai americani delle portaerei dalle signorine
compiacenti sui Quartieri».
Da
«ruffiano di strada per un dollaro ad accompagnamento» ad artista.
«Io e altri due miei fratelli partecipammo a una selezione per la
Piedigrotta. Requisiti richiesti: essere abili nel pernacchio, nelle
capriole e nelle arrampicate. Vincemmo la selezione e partecipammo ai
quadri viventi sull' Ottocento napoletano».
Ma
bisognava trovarsi un mestiere meno precario. «Fu il cuoco Vincenzo
a suggerire a mia nonna Assunta: ai vostri nipoti fate fare i
camerieri, guadagneranno bene. A quei tempi si campava con poco e
Vincenzo mi aprì una strada. Da Romolo fu una bella gavetta e, dopo,
ho girato l'Europa, da cameriere, finendo da cameriere di alta classe
nei posti più famosi. Mio padre morì che avevo sedici anni. Dovevo
proprio lavorare sul serio. Mia madre aveva trovato un posto di
lavoro nella lavanderia del Parco dei Pini a Ischia e mi fece
assumere come cameriere. In giacca bianca, ho cominciato così».
Da
Ischia Bruno spiccò il volo. Imparava facilmente le lingue e, dopo
avere lavorato al Royal di Napoli, emigrò facendo il cameriere a
Portofino, a Parigi, a Londra. Per farsi bello raccontava in giro che
era uno scampato al naufragio dell'Andrea Doria. «Avevo quindici
anni quando la nave affondò. La cosa mi impressionò molto e la
utilizzai per trovare lavoro e accattivarmi i clienti dei ristoranti.
Sapevo tutto del disastro dopo averne letto sui giornali. Raccontavo
i più minuti particolari dell'affondamento e il mio finto dramma
personale. Le mance raddoppiavano. I titolari dei ristoranti mi
consideravano un eroe. Divenni un' attrattiva per i clienti.
Lavorando a Bruxelles riuscii a trovare un imbarco come cameriere
scelto su una nave norvegese, la Meteor, tutta bianca con un fumaiolo
grigio. Ospitava fino a 320 passeggeri. Faceva viaggi in tutto il
mondo. Mi imbarcai per una crociera nei Caraibi».
Bruno
superò i colloqui di ammissione per l'imbarco presso i dirigenti
della Bergen Line, la società armatrice. Ma doveva fare anche le
visite mediche. Soffriva di ernia inguinale e non sarebbe passato. Ma
ha un fratello gemello, Vittorio, che oggi lavora con il figlio di
Bruno alla "Terrazza Calabritto" di piazza Vittoria. «Siamo
due gocce d'acqua. Anche lui era a Bruxelles e lo mandai dai medici
al mio posto. Quelli non s' accorsero di nulla. Ebbero una sola
esitazione. Io parlavo bene le lingue, mio fratello no. I medici si
meravigliarono che io non parlavo più speditamente l'inglese come
avevo fatto nei colloqui di ammissione. Partimmo così per il Messico
da dove, attraverso il canale di Panama, avremmo poi raggiunto le
isole caraibiche».
E
fu nella sosta ad Acapulco che Bruno seppe che doveva morire. «Ebbi
una mezza giornata di libertà e sbarcai imbucandomi in una taverna
del porto, un posto di marinai e donne generose. Si chiamava Casa
Rebeca e c'era una zingara
bellissima che leggeva la mano. Più che farmi leggere la mano,
volevo, come dire?, stabilire un contatto con lei. L'avvicinai con la
scusa di farmi leggere la mano e le sventolai sotto gli occhi
cinquanta dollari. Quella si prende i cinquanta dollari e mi afferra
la mano. Io la guardo, lei mi guarda. Io penso sempre al contatto. Ma
lei si è presi i cinquanta dollari e pensa solo alla mano. Si fa
seria mentre mi scruta il palmo sinistro e dice, fredda e distaccata:
avrai una vita avventurosa, ma morirai a cinquant'anni». Bruno resta
senza fiato. «Non pensai più al contatto. La zingara mi sembrò
terribilmente ispirata. Poi mi chiese quanti anni avessi. Le dissi:
ventinove. Lei disse tristemente: te ne restano ventuno, divertiti. E
mi liquidò urlando: avanti un altro».
Bruno
ancora oggi annaspa: «Il responso mi rimase dentro. Cominciai a
pensarci seriamente. Ma adesso viene il bello. Torno sulla nave,
partiamo. Occupavo la cabina numero 33 di prua con Carmine
Napolitano, nipote del presidente della Repubblica. Invitammo altri
due marinai per una partita a carte. Non era ancora mezzanotte.
C'erano tre sgabelli di legno, mancava il quarto. Me ne procurai uno
che era di ferro. Fu la nostra fortuna. Verso mezzanotte cominciammo
ad avvertire degli scricchiolii e, subito dopo, vedemmo vampate di
fuoco oltre l'oblò. Cominciò a entrare fumo nella cabina. La porta
non si apriva più. Il calore l'aveva gonfiata. Rischiavamo di morire
asfissiati. Ci salvò lo sgabello di ferro con cui ruppi l'oblò. Ma
eravamo prigionieri nella cabina. Misi la fede al dito, i soldi e i
documenti in tasca, pensando: se muoio mi riconoscono. Pensai alla
zingara. Non avevo ancora cinquant'anni, non dovevo morire quella
notte. Ma la nave era in fiamme. E quando i soccorsi sfondarono la
porta, mi finsi svenuto». Una furbata napoletana. «Esatto. Eravamo
in acque americane e avrei preso una ricca pensione americana. Ma il
medico di bordo, il dottor Coil, un tipo rossiccio, scozzese, gran
bevitore, mi molla due schiaffi e mi intima: non fare il furbo,
Spaghetti. Mi chiamava così. E mi disse che dei miei compagni erano
morti. Ebbi un sussulto e cominciai subito a dare una mano ai
soccorsi. I passeggeri si salvarono tutti, ma morirono carbonizzati
38 membri dell' equipaggio».
Ma
per Bruno non era l'anno giusto per morire. L'anno giusto era il
1991, quando avrebbe avuto cinquant'anni. E quando quell'anno arrivò,
Bruno si sentì «la morte addosso. Mi detti alla pazza gioia per
dimenticare la sentenza della zingara. Se dovevo morire, volevo
morire contento. Presi un aereo dopo l' altro girando il mondo.
Capitai a Dubai e scoppiò la prima Guerra del Golfo. Mi misi paura.
Tornai a Napoli e attesi che l'anno passasse. Passò e io ero ancora
vivo. Mi ripromisi di non farmi leggere più la mano. Ma l'anno dopo,
a Bali, cedetti alla tentazione. Andai da un monaco buddista. Stava
su un lago che era il cratere di un vulcano spento. Lui mi sollevò.
Mi disse che avrei avuto una lunga vita. Gli diedi dieci dollari».
Tempo
fa davanti al ristorante alla Riviera arrivò una troupe televisiva
norvegese. «Il giornalista mi chiese: "Mister Politeli?".
Dissi sì, Politelli con due elle. "Stiamo realizzando un
documentario sui sopravvissuti della Meteor" disse il
giornalista. Trent'anni dopo?, domandai meravigliato. "Lei è
uno dei sopravvissuti e io sono il nipote del comandante di quella
nave" disse il giornalista. E io gli raccontai la mia storia».
"la Repubblica", ed. napoletana, 30
settembre 2007
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