12.11.17

Storie di vita. Politelli, il cameriere scugnizzo che ingannò la sorte avversa (Mimmo Carratelli)

Napoli. Famiglia al ristorante
Doveva morire a cinquant'anni, nel 1991. Ha rischiato di morire a ventinove, su una nave. È vivo e vegeto, a sessantasei.
È la storia di Bruno Politelli, napoletano piccolo e simpatico, magro da ballare agevolmente il tip-tap, faccia da scugnizzo e scugnizzo, ai suoi tempi, diciamo dopo l'ultima guerra mondiale. «Un momento. A sette anni, era il 1948, già lavoravo. Al vico Berio, ai Quartieri, c'era la trattoria Da Romolo con un spot simpatico all'ingresso. Diceva: "Mangiare perfetto, da Romolo ti aspetto". Il cuoco si chiamava Vincenzo. La dispensa della cucina era sempre vuota. A me veniva affidato il compito di correre nelle salumerie e nelle macellerie a comprare il cibo. Il cliente ordinava e io partivo a razzo per acquistare gli spaghetti, la carne, il formaggio. Tutto all'istante. Avevamo clienti famosi. Forse facevano la fame anche loro, ma si chiamavano Totò, Nino Taranto, Eduardo e Peppino De Filippo. Venivano tutti da Romolo. Alle ballerine del Teatro Margherita portavo il mangiare nei camerini. Non mi davano mance, ma mi facevano vedere le gambe. Mi sono innamorato subito delle donne».
Però occhi pieni e mani vuote. «Qualche mancia ci scappava al ristorante. Così contribuivo al nostro pasto fisso in famiglia: rigatoni bolliti con la margarina. Il grande avvenimento era quando ci procuravamo del pane bianco. Ne andavo pazzo. Ho finito con lo sposare la figlia di un panettiere. Eravamo scugnizzi, ma educati» racconta nel suo ristorante alla Riviera di Chiaia.
Lui sovrintende, valutando gli astici e le spigole, ma a dirigerlo è sua figlia Nicoletta, sommelier emerito, che ha rifornito la cantina di duecento marche di vino. Come sarebbe a dire educati? «Eravamo otto figli con una madre meravigliosa, Vincenza, e una nonna ancora più meravigliosa, nonna Assunta. Ci davano ampia libertà, ma ci raccomandavano una sola cosa: l'educazione. Il rispetto degli altri era la prima cosa. Abitavamo in via Chiaia. Educati, però furbi e svelti, perché erano anni di fame e bisognava arrangiarsi. Anch'io, come tanti scugnizzi, accompagnavo i marinai americani delle portaerei dalle signorine compiacenti sui Quartieri».
Da «ruffiano di strada per un dollaro ad accompagnamento» ad artista. «Io e altri due miei fratelli partecipammo a una selezione per la Piedigrotta. Requisiti richiesti: essere abili nel pernacchio, nelle capriole e nelle arrampicate. Vincemmo la selezione e partecipammo ai quadri viventi sull' Ottocento napoletano».
Ma bisognava trovarsi un mestiere meno precario. «Fu il cuoco Vincenzo a suggerire a mia nonna Assunta: ai vostri nipoti fate fare i camerieri, guadagneranno bene. A quei tempi si campava con poco e Vincenzo mi aprì una strada. Da Romolo fu una bella gavetta e, dopo, ho girato l'Europa, da cameriere, finendo da cameriere di alta classe nei posti più famosi. Mio padre morì che avevo sedici anni. Dovevo proprio lavorare sul serio. Mia madre aveva trovato un posto di lavoro nella lavanderia del Parco dei Pini a Ischia e mi fece assumere come cameriere. In giacca bianca, ho cominciato così».
Da Ischia Bruno spiccò il volo. Imparava facilmente le lingue e, dopo avere lavorato al Royal di Napoli, emigrò facendo il cameriere a Portofino, a Parigi, a Londra. Per farsi bello raccontava in giro che era uno scampato al naufragio dell'Andrea Doria. «Avevo quindici anni quando la nave affondò. La cosa mi impressionò molto e la utilizzai per trovare lavoro e accattivarmi i clienti dei ristoranti. Sapevo tutto del disastro dopo averne letto sui giornali. Raccontavo i più minuti particolari dell'affondamento e il mio finto dramma personale. Le mance raddoppiavano. I titolari dei ristoranti mi consideravano un eroe. Divenni un' attrattiva per i clienti. Lavorando a Bruxelles riuscii a trovare un imbarco come cameriere scelto su una nave norvegese, la Meteor, tutta bianca con un fumaiolo grigio. Ospitava fino a 320 passeggeri. Faceva viaggi in tutto il mondo. Mi imbarcai per una crociera nei Caraibi».
Bruno superò i colloqui di ammissione per l'imbarco presso i dirigenti della Bergen Line, la società armatrice. Ma doveva fare anche le visite mediche. Soffriva di ernia inguinale e non sarebbe passato. Ma ha un fratello gemello, Vittorio, che oggi lavora con il figlio di Bruno alla "Terrazza Calabritto" di piazza Vittoria. «Siamo due gocce d'acqua. Anche lui era a Bruxelles e lo mandai dai medici al mio posto. Quelli non s' accorsero di nulla. Ebbero una sola esitazione. Io parlavo bene le lingue, mio fratello no. I medici si meravigliarono che io non parlavo più speditamente l'inglese come avevo fatto nei colloqui di ammissione. Partimmo così per il Messico da dove, attraverso il canale di Panama, avremmo poi raggiunto le isole caraibiche».
E fu nella sosta ad Acapulco che Bruno seppe che doveva morire. «Ebbi una mezza giornata di libertà e sbarcai imbucandomi in una taverna del porto, un posto di marinai e donne generose. Si chiamava Casa Rebeca e c'era una zingara bellissima che leggeva la mano. Più che farmi leggere la mano, volevo, come dire?, stabilire un contatto con lei. L'avvicinai con la scusa di farmi leggere la mano e le sventolai sotto gli occhi cinquanta dollari. Quella si prende i cinquanta dollari e mi afferra la mano. Io la guardo, lei mi guarda. Io penso sempre al contatto. Ma lei si è presi i cinquanta dollari e pensa solo alla mano. Si fa seria mentre mi scruta il palmo sinistro e dice, fredda e distaccata: avrai una vita avventurosa, ma morirai a cinquant'anni». Bruno resta senza fiato. «Non pensai più al contatto. La zingara mi sembrò terribilmente ispirata. Poi mi chiese quanti anni avessi. Le dissi: ventinove. Lei disse tristemente: te ne restano ventuno, divertiti. E mi liquidò urlando: avanti un altro».
Bruno ancora oggi annaspa: «Il responso mi rimase dentro. Cominciai a pensarci seriamente. Ma adesso viene il bello. Torno sulla nave, partiamo. Occupavo la cabina numero 33 di prua con Carmine Napolitano, nipote del presidente della Repubblica. Invitammo altri due marinai per una partita a carte. Non era ancora mezzanotte. C'erano tre sgabelli di legno, mancava il quarto. Me ne procurai uno che era di ferro. Fu la nostra fortuna. Verso mezzanotte cominciammo ad avvertire degli scricchiolii e, subito dopo, vedemmo vampate di fuoco oltre l'oblò. Cominciò a entrare fumo nella cabina. La porta non si apriva più. Il calore l'aveva gonfiata. Rischiavamo di morire asfissiati. Ci salvò lo sgabello di ferro con cui ruppi l'oblò. Ma eravamo prigionieri nella cabina. Misi la fede al dito, i soldi e i documenti in tasca, pensando: se muoio mi riconoscono. Pensai alla zingara. Non avevo ancora cinquant'anni, non dovevo morire quella notte. Ma la nave era in fiamme. E quando i soccorsi sfondarono la porta, mi finsi svenuto». Una furbata napoletana. «Esatto. Eravamo in acque americane e avrei preso una ricca pensione americana. Ma il medico di bordo, il dottor Coil, un tipo rossiccio, scozzese, gran bevitore, mi molla due schiaffi e mi intima: non fare il furbo, Spaghetti. Mi chiamava così. E mi disse che dei miei compagni erano morti. Ebbi un sussulto e cominciai subito a dare una mano ai soccorsi. I passeggeri si salvarono tutti, ma morirono carbonizzati 38 membri dell' equipaggio».
Ma per Bruno non era l'anno giusto per morire. L'anno giusto era il 1991, quando avrebbe avuto cinquant'anni. E quando quell'anno arrivò, Bruno si sentì «la morte addosso. Mi detti alla pazza gioia per dimenticare la sentenza della zingara. Se dovevo morire, volevo morire contento. Presi un aereo dopo l' altro girando il mondo. Capitai a Dubai e scoppiò la prima Guerra del Golfo. Mi misi paura. Tornai a Napoli e attesi che l'anno passasse. Passò e io ero ancora vivo. Mi ripromisi di non farmi leggere più la mano. Ma l'anno dopo, a Bali, cedetti alla tentazione. Andai da un monaco buddista. Stava su un lago che era il cratere di un vulcano spento. Lui mi sollevò. Mi disse che avrei avuto una lunga vita. Gli diedi dieci dollari».
Tempo fa davanti al ristorante alla Riviera arrivò una troupe televisiva norvegese. «Il giornalista mi chiese: "Mister Politeli?". Dissi sì, Politelli con due elle. "Stiamo realizzando un documentario sui sopravvissuti della Meteor" disse il giornalista. Trent'anni dopo?, domandai meravigliato. "Lei è uno dei sopravvissuti e io sono il nipote del comandante di quella nave" disse il giornalista. E io gli raccontai la mia storia».


"la Repubblica", ed. napoletana, 30 settembre 2007 

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