1. «Il 21 gennaio 1977
morì a Roma Sandro Penna». Dopo quarant’anni esatti, la sua
figura e la sua opera restano l’unico vero hàpax della poesia
italiana contemporanea. Un poeta, Penna, radicalmente diverso da
tutti gli altri del nostro Novecento, e ciò a prescindere dalla vita
‘irregolare’ e dalle considerazioni critiche che, prendendo atto
di un’evidenza, ne escludono il profilo dall’orizzonte in senso
stretto modernista. Perché non è poi agevole far rientrare Penna
neppure nella linea poetica alternativa – quella che, almeno in
certi non proprio aggiornatissimi manuali scolastici, si è soliti
intitolare al primo mentore del poeta perugino, Umberto Saba.
La poesia di Penna resta
un unicum irriducibile alle scuole, alle correnti, alle tendenze. Non
a caso quando – all’altezza degli anni ’30 – i suoi versi
cominciarono a circolare in rivista e a essere conosciuti, la
ristretta società letteraria di allora mentre non tardò a
riconoscerne, da una parte, l’eccezionale valore, dall’altra
volentieri evocò, per spiegarseli, esperienze dal punto di vista
storico e culturale tanto remote da potersi considerare esterne, in
realtà, alle coordinate spazio-temporali. Paradigmaticamente – e
anche per l’esclusività della tematica omoerotica, e segnatamente
pederastica – alla lirica greca antica. Ma un simile richiamo più
che avere una valenza realmente cogente in senso descrittivo, o
addirittura storico-critico, serviva (ed eventualmente ancora serve)
a indicare in modo più o meno consapevole un mito, un luogo
immaginario della coscienza letteraria occidentale; prestandosi a
segnalare quel senso di assolutezza, di quintessenziale epifania del
Poetico, che i brevi componimenti di Penna non mancano mai di
suscitare nel lettore.
A distanza di così tanti
decenni da quella prima rivelazione, quando ormai il lavoro critico
su Penna ha condotto a liberarsi da molti dei cliché cresciuti
attorno alla sua poesia – primo tra tutti, a dire il vero quasi
immediatamente, proprio quello che fa del nostro autore una specie di
epigrammista greco redivivo – rimane la meraviglia di fronte a una
poesia tanto compiuta, tanto in senso etimologico ‘perfetta’ e
appunto ab-soluta, da provocare nello stesso interprete di
professione una specie d’interdetta afasia.
Va osservato intanto che
quando, per la poesia di Penna, si parla di ‘assolutezza’ non ci
si riferisce tanto a una qualità della rappresentazione; che infatti
non mostra quasi mai – eccetto forse che in talune nitide
figurazioni da pittura metafisica – l’estenuata, sospesa
astrazione propria (per riferirsi a un genere di poesia per breve
tratto coevo a quella penniana) di certo Ermetismo. Non è mancato
anzi chi (si pensi, tra i primi, a un altro tra i non pochi
estimatori eccellenti dell’autore perugino, Pasolini) ha rimarcato,
a ragione, il ‘realismo’ di Penna: una fedeltà al reale
quotidiano che si estrinseca tanto nella scelta dei referenti quanto
– al netto dell’eufemismo, che nei suoi versi è molto più che
una maniera del pudore – in quella dei relativi indicatori
linguistici, e particolarmente lessicali (per esempio, gli scandalosi
orinatoi). Anche se effettivamente la poesia di Penna, forse
soprattutto nel suo periodo maturo ed estremo, pone il lettore
odierno dinnanzi a un mondo, a un’intera nazione (intesa come
sintesi di paesaggio fisico e culturale, geografico e morale) ormai
da tempo scomparsa, facendogli conoscere al vivo e dall’interno un
paese estinto, questa rappresentazione pur tanto storicamente e
antropologicamente pregnante rimane sempre ben ancorata al di qua, o
al di là, del reale fattuale.
Sospesa in bilico tra
fisico e metafisico, la poesia di Penna del reale storico entro cui
vive l’individuale esperienza che la nutre è al contempo
trascendimento senza sublimazione e inveramento per paradosso. Essa
introduce a un mondo più vero e meno vero del vero. È infatti,
questo mondo onirico e insieme concreto, quello del desiderio e di un
amore per la vita che non si può soffocare: un universo per
definizione intrinseco alla realtà sensibile ma pure da essa
enigmaticamente separato.
2. Nella poesia di Penna
l’assolutezza è una qualità dell’ispirazione. Tutto, in tale
poesia, è semplice, in piena luce. Il discorso critico incontra,
confrontandovisi, qualcosa di molto simile alle sue colonne d’Ercole;
fronteggia una superficie non intaccabile e specchiata, che gli
rimanda l’immagine della propria impotenza.
Ha un bel riferirsi, lo
studioso, alla sapienza costruttiva, al trattamento retorico, al
palinsesto intertestuale – tutti aspetti che, negli stessi testi in
apparenza più ‘innocenti’, sembrano smentire la leggenda
originaria di un Penna poeta di natura; può ben rimarcare, sempre il
critico (e fu in particolare Garboli ad attirare tra i primi
l’attenzione sul lato in ombra di questo poeta solare quanto altri
mai), la costitutiva ambivalenza di un desiderio («Non è forse
l’amore un nodo stretto | fra l’angoscia e il diletto?»)
ossimoricamente contesto di felicità e di tristezza («era felice e
triste, ecco tutto», si dice del protagonista di una tra le più
significative prose di Un po’ di febbre). Si possono altresì
sapientemente rintracciare le ascendenze culturali (certo côté
nietzschiano, per esempio) di un autore pure così poco libresco. Ma
poi, dopo tutto ciò (ed eventualmente molto altro ancora), restano i
versi: oggetto di senso elementare, mai scalfiti da tanto elucubrare,
indifferenti alle indagini più dotte, refrattari all’acume delle
glosse.
Il lettore di
professione, lo studioso bene avvezzo a dipanare le sottigliezze di
una poesia – quella ‘maggiore’ novecentesca – tutta pieghe e
allusioni, alla fine della sua fatica si ritrova continuamente di
fronte a un disarmante «ecco tutto». Ricacciandolo al suo statuto
di lettore ‘assoluto’, la poesia penniana parifica il critico a
quello ‘comune’: ne mortifica la perizia filologico-ermeneutica,
costringendolo semplicemente a constatare ed ammirare (si veda La
lezione di estetica).
Con Penna, in effetti,
non c’è di meglio che tornare continuamente a leggere i suoi
versi. L’essenziale rimane lì: non se ne fa estrarre, non ve ne è
la necessità. Per ri-dirlo, per riaffermarlo, per ritrovarlo –
questo essenziale che è la poesia stessa – non si deve far altro
che ri-leggere: quello che c’è da dire, da sapere, da sentire, è
a vista, disponibile per tutti.
Un simile discorso,
potrebbe obiettarsi, s’attaglia a qualunque autore nel rango
dell’autentico poeta, inclusi dunque i campioni di certo nostro più
ispido Novecento. Resta però il fatto che Penna realizza l’immanenza
del senso (poetico) al suo significante con un’economia di mezzi
che induce sovente a parlare di miracolo. Egli distilla una specie di
essenza dell’idea lirica occidentale dalla feccia di una lingua che
è pressappoco quella di tutti (valgono ancora, su ciò, le
osservazioni di Garboli). Di fronte alla purezza di una voce
individuale tanto diretta, di assoluta trasparenza, anche lo
specialista più agguerrito deve disarmare. E dichiarare una resa
densa di implicazioni pericolose per il mestiere, per i suoi dubbi
privilegi; non senza «una tal quale vergogna» (Mengaldo) per
un’ammissione ritenuta forse imbarazzante – come chi confessi di
amare Puccini, oltre che Schönberg.
3. Per quanto una
conoscenza più precisa della biografia di Sandro Penna,
particolarmente in rapporto alla sua formazione culturale (si veda il
volume di Elio Pecora), l’emergere di significative scritture
giovanili, come pure una perlustrazione più attenta dell’officina
penniana (esemplarmente per opera di Roberto Deidier, dal quale si
attende pure, imminente, quel «Meridiano» che certo offrirà
l’occasione di tornare a riflettere su questo poeta capitale del
nostro Novecento), abbiano indotto a correggere sensibilmente certa
mitologia sul nostro autore, si può dire che di lui resista
sostanzialmente inalterata, e vitale, proprio l’immagine più
consueta: quella, oggi più che mai preziosa, di un poeta che prese
sul serio la propria vocazione, fondando coerentemente la poesia
sulla vita, o se si vuole (ma è lo stesso) sull’organica relazione
tra questa e quella, tra scrittura poetica ed esperienza.
«Esperienza» nel senso più ampio; e prioritariamente, però, come
fatto sensibile sempre accompagnato da un’acuta coscienza. Penna è
poeta sapiente – più che sapienziale, come voleva Garboli –
senza essere intellettualistico.
L’opzione cosciente a
favore di Eros implica in lui l’abolizione del senso di colpa, e il
collocarsi dell’esperienza individuale – come è stato
correttamente osservato – in una dimensione a- o pre- morale; che
però (circostanza non altrettanto spesso rilevata) risulta anche
assiologicamente fondativa. Ecco allora, per noi, un poeta rimasto
sempre giovane («Forse la giovinezza è solo questo | perenne amare
i sensi e non pentirsi») e che viene spontaneo confrontare, se non
proprio contrapporre, all’invece sempre-vecchio Montale (sul
rapporto di attrazione / repulsione tra i due è molto istruttivo il
relativo carteggio, con il corredo critico di Deidier; e, ancora di
Garboli, il saggio su Penna, Montale e il desiderio).
Penna fu un uomo, un
poeta, cui parve a un certo punto di aver trovato, e una volta per
tutte, la formula della saggezza: il modo di tenere in scacco il male
del secolo (suo e nostro) – il senso dell’assurdo. Sfuggendo così
al nichilismo e alla disperazione di tanti suoi contemporanei (e
posteri). Quella formula non prevedeva certo l’obliterazione del
negativo, che anzi il poeta scorse sempre in sinolo con lo splendore
delle sue feriali epifanie. Ma Penna seppe guardare, con speranza,
alla forza affermativa di un’umanità ancora naturale, e confidare
perciò nella recursività del futuro («Ma non saremo che noi stessi
ancora»).
Non fu però, la sua, una
forma di vitalismo irrazionalistico, la riedizione di regressivi o
nefasti miti primonovecenteschi, para- o cripto- dannunziani. La
primazia che egli volle accordare alla «vita» sull’«ortografia»
e il suo indulgere, come un fanciullo irresponsabile, al piacere
delibato «entro le colonne | della legge» definiscono l’unico
vero «no» radicalmente proferito dai nostri letterati del XX secolo
nei riguardi di una storia e di una civiltà avvertite come
mortifere. Un diniego energico e senza compromessi, pronunciato da
una posizione opposta e con un timbro completamente difforme rispetto
al rifiuto scettico e ipo-vitale di stampo montaliano.
Un poeta «della vita
tanto innamorato», Sandro Penna, da perseguire le proprie
beatitudini contro ogni facile moralismo, scandalosamente persuaso
che nei piaceri e nelle tenerezze dell’esistere, nelle «dolci
immagini della vita», «non è disonore»: «non offendono mica».
Chi ha scritto che «Vivere è per amare qualche cosa» non teme il
giudizio dell’eterno conformismo, e trova l’audacia d’indirizzare
ai Moralisti un distico dal senso come sempre inequivocabile,
cristallino: «Il mondo che vi pare di catene | tutto è tessuto
d’armonie profonde». È un poeta, costui, che intende sottrarsi
all’eterno lutto della Modernità, affrancarsi dal funesto regime
di Thanatos per riaffermare i diritti della «fitta | rete d’amore»
che sostiene il reale; un poeta che osa – magari mentre, «felice
straniero in ogni luogo», fa «conti per l’ingegnere» –
guardare a un mondo di valori completamente altri rispetto a quelli,
perversi, intensivamente dominanti in una storia ove proliferano «i
divieti / alla felicità».
Ricordati di lui, dio
dell’amore.
dal sito
“Poliscritture.it”, 4 ottobre 2017
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