Quello che segue è un
testo d'occasione, scritto nel 2011 per uno speciale che “il
manifesto” dedicò ai 150 anni di unità d'Italia. A me sembra
un'efficace sintesi di una lettura storiografica che nel tempo ha
coinvolto il meglio dell'intelligenza democratica nel nostro paese e
un'occasione per leggere meglio - in quella chiave - anche i tempi più recenti della nostra nazione. (S.L.L.)
«Il Risorgimento
italiano è ricordato nei suoi eroi. In questo libro mi propongo di
guardare il Risorgimento controluce, nelle più oscure aspirazioni,
nei più insolubili problemi, nelle più disperate speranze:
Risorgimento senza eroi». Così scriveva Piero Gobetti, alla metà
degli anni Venti, nella prefazione a un libro destinato a essere
pubblicato postumo. E concludeva: «L'esposizione non piacerà ai
fanatici della storia fatta: essi mi attribuiranno un umore bisbetico
per rimproverarmi lacune arbitrarie. Ma io non volevo parlare del
Risorgimento che essi volgarizzano dalle loro cattedre di apologia
stipendiata del mito ufficiale. Il mio è il Risorgimento degli
eretici, non dei professionisti» (Risorgimento senza eroi,
1926).
A fronte della vulgata
apologetica dell'epopea risorgimentale - del suo «mito ufficiale» -
non c'è solo la letteratura reazionaria e sanfedista dei nostalgici
dell'Ancien Règime. O il localismo gretto della «piccola storia»
che parla male di Garibaldi in odio al rosso delle sue camicie e alla
lunghezza dei suoi viaggi. C'è anche una solida tradizione di
pensiero radicale e democratico - radicalmente democratico - che ha
guardato ai «mancati risultati» del Risorgimento per cogliervi il
segno dei «vizi storici» della politica italiana. Che ha cercato
tra i cocci del mito infranto di quell'ambiguo passato le ragioni del
proprio cattivo presente (della propria, eternamente ritornante,
«autobiografia della nazione»).
I nomi sono noti: Gaetano
Salvemini, in primo luogo, e poi Gramsci, buona parte del
«meridionalismo rivoluzionario» con Guido Dorso in testa, e Tommaso
Fiore, il neoprotestantesimo di Gangale, oltre, naturalmente, a Piero
Gobetti e con lui buona parte dei collaboratori della sua
'Rivoluzione liberale?... Per tutti un comune denominatore: l'idea
del Risorgimento italiano come rivoluzione mancata (rivoluzione
politica fallita, ma anche rivoluzione sociale e in particolare
«rivoluzione agraria» neppur tentata, e «rivoluzione morale» o
religiosa soffocata sul nascere dal prevalere del neoguelfismo). E
una comune preoccupazione: comprendere come, a mezzo secolo dal
compimento del moto risorgimentale, l'Italia avesse potuto cadere
nella dittatura. Il che spiega perché buona parte di questa
riflessione anti-apologetica del Risorgimento si concentri
soprattutto a ridosso dell'avvento del fascismo e trovi il proprio
epicentro negli anni Venti del Novecento.
Anche i termini della
critica, sono noti. In primo luogo il tema della «conquista regia».
Se l'Italia non ha avuto la propria rivoluzione - se il suo passaggio
alla «modernità» non è avvenuto, come nei paesi a democrazia
matura quali la Francia, in primo luogo, ma anche l'Inghilterra,
attraverso una «cesura storica», con una esplicita «soluzione di
continuità» nella successione delle sue classi dirigenti capace di
coinvolgere le masse popolari nella costruzione del nuovo Stato - ciò
è dovuto al carattere prevalentemente burocratico-militare del
processo unitario. Alla sua gestione «dall'alto», da parte di una
dinastia (conservatrice e tradizionalmente avara), di un esercito
(disciplinato ma ottuso) e di una diplomazia a guida moderata che
emarginarono o, alternativamente, egemonizzarono le componenti
radicali, nella sostanziale passività del popolo. Ne derivò - come
scrive Dorso, il principale interprete di questa lettura - «una
conquista grigia, fredda, uniforme, che lasciò, a mano a mano che
progrediva, insoluti tutti i dati ideali della rivoluzione: la
libertà, le autonomie locali ed i rapporti fra lo Stato e la Chiesa,
campo classico ove si saggiano le limitazioni della libertà». E
soprattutto che inaugurò o quantomeno consolidò il pessimo vizio
italiano «di eludere le soluzioni ideali, per stendere su di esse il
velo della transazione politica», prodromo di tutti i trasformismi e
di tutti gli immoralismi futuri.
È ciò che Gramsci
definirà, sulle orme del Cuoco, col termine «rivoluzione passiva»
(una rivoluzione, cioè, senza rivoluzionari e, in sostanza, «una
rivoluzione senza rivoluzione»), sottolineando come carattere
qualificante di tutto il moto risorgimentale la sistematica egemonia
che i moderati riuscirono a esercitare, strategicamente, su tutte le
altre componenti, compresa quella più radicale rappresentata dal
cosiddetto Partito d'Azione (quello di Garibaldi e Mazzini, per
intenderci). Il quale non fu solo sistematicamente marginalizzato
dall'iniziativa moderata, ma anche in buona parte «diretto», e
riassorbito, nelle file dei moderati, fino all'unità, e anche oltre:
«I moderati - scriverà Gramsci - continuarono a dirigere il Partito
d'Azione anche dopo il '70 e il trasformismo è l'espressione
politica di questa azione di direzione; tutta la politica italiana
dal '70 ad oggi è caratterizzata dal trasformismo, cioè
dall'elaborazione di una classe dirigente nei quadri fissati dai
moderati dopo il '48, con l'assorbimento degli elementi attivi sorti
dalle classi alleate e anche di quelle nemiche». Né poteva essere
diversamente - come non cessò mai di ricordare Salvemini - vista la
clamorosa assenza dalla scena sociale e politica dei contadini (e con
essi di ogni significativo «soggetto sociale» capace d'iniziativa
politica).
Così in questa lettura
iconoclasta del Risorgimento, il tema del fallimento politico di ogni
ipotesi di modernizzazione dal basso si salda con quello,
strutturale, del fallimento sociale ed economico di ogni
modernizzazione tout court, ben simboleggiata dall'assenza
altrettanto clamorosa di un sia pur flebile segno o conato di
«rivoluzione agraria». E dalla permanente forza mantenuta dalla
grande proprietà terriera, soprattutto meridionale, mai in realtà
sfidata, anzi quasi sempre blandita, o comunque incorporata nel
ventaglio delle alleanze necessarie per un progetto unitario che
finiva per dispiegarsi, così, non solo senza ma per molti aspetti
anche contro le aspirazioni di emancipazione di una massa contadina
mantenuta in condizione di servaggio semi-feudale.
Non si tratta - è bene
ricordarlo spesso - di una lettura «idealistica» della nostra
storia patria. Di una somma di pii desideri, in cui ciò che è si
confonde con ciò che si vorrebbe che fosse. Al contrario. La cifra
di tutta questa letteratura anti-apologetica è il «realismo».
L'analisi disincantata delle forze in campo. La misura spietata dei
rapporti di forza. L'egemonia moderata tanto deprecata, è tuttavia
considerata l'unica storicamente possibile. La sola capace di
vincere.
In questo Salvemini è
maestro, là dove dopo aver preso in considerazione l'intero
ventaglio delle opzioni federaliste - quelle a cui andava senza
dubbio la sua approvazione e che meglio avrebbero servito la causa di
una via compiutamente democratica all'unificazione nazionale, a
cominciare dall'autonomismo democratico di Cattaneo, e quelle meno
auspicabili, ma non meno interessanti, come il federalismo censitario
dei moderati piemontesi - ne decreta, tuttavia, l'inevitabile
inefficacia, di fronte al macigno rappresentato dalla passiva
subalternità delle plebi rurali meridionali, e dalla loro
manovrabilità da parte di un clero reazionario e nostalgico
dell'antico regime borbonico. «La grande maggioranza dei contadini,
scrive Salvemini, abbandonata a sé nelle amministrazioni locali
autonome, a base di suffragio universale, avrebbe dato, in poco
tempo, la prevalenza alle forze legittimiste. Perciò i moderati
rigettavano la teoria autonomista e democratica di Cattaneo». E per
questa ragione, si può aggiungere, rinunciarono all'originario
federalismo censitario cavourrino, per volgersi alla prospettiva
centralista di impronta mazziniana, amputata dei suoi connotati
democratici (il suffragio universale, o anche allargato) e coniugata
con un sistema elettorale ristretto su base di censo. L'unica in
grado di vincere. Ma, appunto, a un
prezzo tanto caro da
ipotecare l'intero sviluppo sociale e politico successivo.
Il risultato sarà,
appunto, «uno Stato a cui il popolo non crede perché non l'ha
creato con il suo sangue», nel quale si misura, senza remissione, il
fallimento del progetto liberale, al quale dovrebbe essere intrinseca
la ricerca dell'autonomia, individuale e collettiva, delle persone e
dei gruppi sociali. Fallimento a cui non porterà sollievo il
parallelo dispiegarsi del progetto socialista, caduto nel momento in
cui con Turati, «accettò l'eredità di una corrotta democrazia
invece di mantenersi coerente a una logica rivoluzionaria», a
riprova della dura legge storica che condanna i radicali a una dura
egemonia moderata. Cosicché, nella caduta degli unici due progetti
emancipativi del moderno, l'Italia resterà esposta al costante
rischio della ricaduta nelle molteplici forme di servitù che la sua
storia le ripresenta, come fantasmagorico repertorio dei propri vizi
atavici e delle proprie illusorie virtù. Sempre incapace di scelta e
di responsabilità. Sempre tentata dall'istrionica rappresentazione e
dall'identificazione nei peggiori. Condannata, comunque, a
riproporre, ciclicamente, quello che, ancora Gobetti, definirà
«l'equivoco fondamentale della nostra storia» - quello che
l'apologetica risorgimentale rimuove, ma che del moto risorgimentale
costituisce una verità scomoda - e cioè il suo essere stato, in
prevalenza, «un disperato tentativo di diventare moderni restando
letterati con vanità non machiavellica di astuzia, o garibaldini con
enfasi tribunizia». E, di conseguenza, l'aver sacrificato all'idea
di libertà la pratica - ben più sostanziale - dell'autonomia.
L'aver sovrapposto al mito dell'unità la ricerca dell'unanimismo. E
all'orgoglio della lotta, l'affidamento a un Re. O a un Capo. O alla
benevola configurazione di una favorevole congiuntura internazionale.
Da La conquista.
1815-1870 l’unità italiana nell’era della borghesia (a
cura di Gabriele Polo) – supplemento a “il manifesto”, 28
settembre 2011
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