“Aiutamoli a casa loro”, “due figli per donna” e “razza” non sono gaffe, ma una resa culturale
Patrizia Prestipino |
Provare a sintetizzare in
140 caratteri di Twitter un discorso sulla complessità del fenomeno
migratorio in Europa basato sulle tabelle statistiche che mostrano
come le quote di migranti siano ancora sensibilmente inferiori alle
possibilità di accoglienza? Molto più semplice scrivere:
«Mandiamoli a casa loro». «Basta invasione». Vedrete quanti like
su Facebook, quanti retweet. In fondo è più facile arrabbiarsi che
stare ad ascoltare, urlare che pensare.
Lo scorso 25 luglio
Patrizia Prestipino, membro della direzione del Pd, una delle ultime
scoperte del segretario Matteo Renzi e della di lui fidata Maria
Elena Boschi, ha dichiarato: «Se uno vuole continuare la nostra
razza, se vogliamo dirla così, è chiaro che in Italia bisogna
iniziare a dare un sostegno concreto alle mamme e alle famiglie».
Nulla da eccepire se a
pronunciare quella frase fosse stato Benito Mussolini: donne, mamme,
fate figli per preservare l’italica razza. E invece è stata una
donna lanciata a rimpolpare la futura classe dirigente dem, nel 2017.
Avrebbe potuto dire che gli europei fanno meno figli dei migranti
dall’Asia e dall’Africa, invece ha detto proprio «razza», un
termine che non si sentiva in bocca a un politico da chissà quanto
tempo.
Le parole sono
importanti, rivelatrici di una visione del mondo, di tic mentali che
al minimo cedimento degli inibitori sociali prendono il largo. Ma la
dichiarazione sarebbe stata facilmente derubricata a gaffe isolata,
prodotta da scarsa memoria e incultura, se non fosse che il
segretario di quello stesso partito, Renzi, due settimane prima aveva
proposto come soluzione al problema dei migranti: «Aiutiamoli a casa
loro». Il leader del più importante partito del centrosinistra, il
più grande tra i suoi omologhi europei nella grande famiglia
socialista, ha fatto proprio uno slogan che è da sempre il marchio
delle destre. Le parole possono essere crepe e il muro dell’antica
cultura della solidarietà globale della sinistra comincia a venire
meno.
Perché Pasolini
odiava gli slogan
Nei suoi Scritti
corsari Pier Paolo Pasolini ammoniva: «C’è un solo caso di
espressività – ma di espressività aberrante – nel linguaggio
puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo
slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e
convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene
immediatamente stereotipa». Era il 1975. Quarant’anni dopo, lo
slogan è l’essenza del linguaggio della politica, che prima ha
dovuto adattarsi alle logiche pubblicitarie della tv, alla fine si è
ridotta a parlare secondo la grammatica del web. La politica sceglie
parole che non sono però solo un segno vuoto, ma sono portatrici di
senso, di un pensiero, di una visione del mondo. Il web non crea solo
forma, ma crea un contenuto, crea un pensiero politico da cui
scaturisce l’azione dei partiti. Semplifica, usa gli slogan, quelli
che funzionano creano “like”, consenso, convincono gli utenti che
poi sono anche elettori e che a loro volta influenzano le scelte dei
leader.
Populismo digitale
Così nasce un nuovo tipo
di populismo: Il populismo digitale, titolo dell’ultimo libro del
sociologo Alessandro Dal Lago. Internet e i social network sono
elementi decisivi, «senza di loro, il populismo contemporaneo
avrebbe una forma completamente diversa». Il sottotitolo chiarisce
in che direzione guarda Dal Lago. “La crisi, la rete e la nuova
destra”, indica come in una fase storica di instabilità, un
prodotto della rivoluzione tecnologica ha acuito alcuni elementi del
populismo più classico, storicamente riconducibile a politiche di
destra.
Si afferma così quella
che un tempo si sarebbe definita egemonia, ancora più estesa tra le
fasce popolari colpite maggiormente dalla crisi, e dalla quale la
sinistra viene travolta. Dal Lago concentra la sua attenzione sul
M5S, la novità più rilevante sulla scena italiana in questa fase
storica. Il Movimento di Beppe Grillo diventa un paradigma di questa
deriva. Nato sulle campagne ecologiste in difesa dei beni pubblici è
andato via via ridefinendo la propria identità fino ad abbracciare
battaglie dal consenso assicurato.
Bersaglio, spiega Dal
Lago, diventa qualsiasi «oggetto della protesta e del rancore dei
cittadini: alta velocità, sicurezza urbana, crisi economica, sistema
bancario, povertà, invasione dei migranti, burocrazia europea» e la
classe politica in generale. Grillo e i grillini «usano slogan
elementari». E, non a caso, sono quelli che funzionano meglio sul
web.
Per la prima volta nella
storia un partito, il primo in Italia stando ai sondaggi, è guidato
da un comico attraverso un blog gestito da una società di consulenza
aziendale. Per la prima volta nella storia la più grande potenza
mondiale è guidata da un uomo azienda che fa dichiarazioni
attraverso i tweet.
Questi sono i tempi in
cui viviamo. Tempi in cui le classiche categorie sono liquidate come
roba vecchia, inadatte ad affrontare velocità tecnologica che brucia
uomini e leader e dà sfogo alle frustrazioni di massa.
Oltre la destra e
la sinistra
Fondativo del M5S è il
superamento dell’opposizione destra-sinistra. «Tipicamente
peronista e parafascista» secondo Dal Lago. Con post semplici ed
efficaci, attraverso lo spazio per i commenti, tramite tweet e un
esercito di troll, si crea un’«illusione di democrazia diretta»,
un circolo vizioso in cui quello che si scrive e si dice su internet
è quello che il lettore/elettore si vuole sentir dire, dove
l’ipersemplificazione, il titolo urlato, lo scandalo non hanno
contrappesi e possibilità di verifica. L’incubo di Pasolini è
diventato realtà. «Il nuovo fascismo – scriveva - attraverso i
nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie la
televisione) ha scalfito, lacerato, violato» l’anima del popolo
italiano. Specie la televisione, diceva, che «non c’è dubbio sia
autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al
mondo».
Chissà cosa avrebbe
detto Pasolini se avesse vissuto abbastanza fino a vedere il dominio
del web. Lo avrebbe affiancato alla tv nelle sue analisi e forse
sarebbe stato d’accordo con Dal Lago quando sentenzia: «Ecco cos’è
il populismo o parafascismo digitale. Una realtà politica resa tale
da un abile uso di Internet e dei suoi strumenti. Inquietante per
chiunque non si accontenti di slogan e non concepisca la vita sociale
e politica come un’incessante litania di clic sullo schermo del
computer»
«La Rete è sovrana»
diceva il fondatore e ideologo del M5S Gianroberto Casaleggio. E
sulla Rete si gioca la caccia al consenso anche della nuova sinistra.
Così Renzi, dopo la sconfitta al referendum sulla riforma
costituzionale, ha fatto partire la controffensiva web, moltiplicando
le piattaforme dei democratici. Se si sfoglia il vocabolario del Pd
di Renzi, si nota una predilezione per la parola-simbolo, la frase ad
effetto, la semplificazione del messaggio. A misura di tweet o di
post su Facebook, dove, con la crisi dei vecchi media, giornali in
primis, la massa tende a informarsi e formarsi.
«Nella dimensione
virtuale o digitale della politica nuovi attori possono salire
rapidamente alla ribalta grazie alla loro capacità di influenza nei
social media. La rete appare oggi l’ambiente in cui si elabora la
maggior parte delle scelte decisive della vita pubblica». Definire
le Ong «taxisti del Mediterraneo», come ha fatto Luigi Di Maio,
candidato alla premiership per il M5S, senza curarsi dei pericoli
della generalizzazione, fa presa. Come funziona il linguaggio spiccio
del leader della Lega Matteo Salvini.
L’alternativa che
non c’è
Ovviamente un altro mondo
è possibile, e con gli stessi mezzi. Basta guardare alla
comunicazione sui social fatta dai candidati democratici alle recenti
tornate elettorali statunitensi, dal vincente Barack Obama alla
perdente Hillary Clinton, passando per il vecchio socialista Bernie
Sanders; o, per guardare a orientamenti politici diversi, da Angela
Merkel in Germania. La differenza è che essi non hanno fatto della
Rete il luogo di elezione delle scelte politiche, calcolando il
consenso sui clic ed evitando così il confronto con le domande dei
giornalisti, ma la vetrina a cui dare forza a idee ben piantate nei
loro programmi.
Il linguaggio dei social,
per la sua rapidità, obbliga all’estrema sintesi, eliminando la
complessità propria di ogni questione. «La sinistra – afferma Dal
Lago – che per metodo e storia abbraccia sistemi più complessi,
nel momento in cui aderisce al modello dei social e non contrappone
un’alternativa, perde la sua battaglia». E per non soccombere si
adegua. In questo modo, secondo il sociologo, assistiamo al trionfo
«dei temi tipici del nazionalismo classico: l’odio, il lavoro,
l’immigrazione».
Gli scivoloni linguistici
e concettuali sono un sintomo della ricerca di protezione formulata
attraverso certezze antiche. La Famiglia diventa nuovamente fondante:
«Vogliamo e dobbiamo arrivare a due figli per donna per garantire un
ricambio generazionale» dice Dario Nardella, sindaco Pd di Firenze
molto vicino a Renzi, davanti alla platea di Comunione e Liberazione
al Meeting di Rimini. Pochi giorni dopo, le stesse preoccupazioni
demografiche vengono espresse dal leghista Salvini al Forum
Ambrosetti di Cernobbio.
La politica delle
nascite, molto in voga nel Ventennio, suona come la difesa estrema di
una presunta italianità. Un neo-nazionalismo che fa breccia a
sinistra e che trasforma i migranti in una minaccia: l’ex
vicesegretaria del Pd e governatrice del Friuli Venezia Giulia Debora
Serracchiani dice che il delitto è più grave se è compiuto da un
immigrato; la sindaca di Codigoro, sempre del Pd, promette di
aumentare le tasse a chi ospita i profughi e il ministro dell’Interno
Marco Minniti confessa di aver temuto, di fronte ai flussi
ininterrotti dal Mediterraneo, «per la tenuta democratica del
Paese».
Siamo politici o
sceriffi?
Al netto di un
ragionamento che è ben più sofisticato, Minniti piomba sulla scena
politica con una muscolarità inedita che intimorisce e seduce la
sinistra, spaccandola. La destra, spiazzata sul proprio terreno, lo
apprezza e con altrettanta semplificazione linguistica, i critici lo
definiscono «sbirro» o «sceriffo» per la sua svolta securitaria
impressa attraverso il decreto su immigrazione e sicurezza urbana.
Minniti il risolutore, in sostanza, ha delegato ai libici i
respingimenti, permettendo un contenimento dell’immigrazione mai
visto prima ma scoprendosi sul lato dei diritti umani, salvo poi dire
che le condizioni di vita di chi rimane in Libia sono il suo
«assillo». Perché i profughi che non attraversano il mare sono
relegati in campi di raccolta considerati da osservatori terzi e Ong
veri e propri «lager». E questo, secondo Dal Lago, è un altro
cedimento della sinistra alla cultura di destra perché abdica alle
sue responsabilità: «Nel voltarsi dall’altra parte, nel chiudere
gli occhi, fingendo che non lì non succeda nulla, nel dire che non è
un nostro problema, che dobbiamo occuparci solo di ciò che avviene
nei nostri confini, c’è la rivendicazione di uno “spazio nostro”
tipico del nazionalismo. È un modello dominante nell’opinione
pubblica, che vince sul web, e la sinistra per non perdere, lo
abbraccia tradendo la propria storia».
Pagina 99, 15 settembre
2017
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