Guido Piovene, "preciso
e disciplinatissimo", riscriveva febbrilmente notizie d'agenzia.
Dino Buzzati scriveva pezzi anonimi. Silvio Negro, vaticanista
illustre, era "accorso da Roma per dare una mano". Michele
Mottola e Gaetano Afeltra dormivano in due brande, al “Corriere”:
era la loro "caserma". A Bruzzano, fuori Milano, era
spuntata con miracolosa rapidità la "Solferino bis", una
tipografia di emergenza. Era il corrispondente del “Corriere” a
preannunziare i bombardamenti alleati: "Aerei stranieri
sorvolano in questo momento la Svizzera dirigendosi verso il
confine". Via Solferino avvertiva la prefettura, e
istantaneamente "l' ululato delle sirene spingeva nelle cantine"
i milanesi. In quei frangenti, il giornale era assai più che un
giornale. Faceva parte delle istituzioni. Sopperiva alla loro
latitanza. Puntellava quel poco che ne era rimasto.
I limiti imposti
dal regime
Il periodo che intercorre
fra il 25 luglio e l' 8 settembre del 1943, quel limbo drammatico
della recente storia d' Italia già rievocato in centinaia di saggi
storici, si arricchisce di una nuova testimonianza. S' intitola I
45 giorni che sconvolsero l'Italia (Rizzoli, pagg. 304, lire
29000). Sarà in libreria a giorni. L'ha firmata Gaetano Afeltra.
L'aneddotica che circola in queste pagine è di un genere
particolare: specialistica, autobiografica, professionalmente
minuziosa. L'"osservatorio privilegiato" è - si è già
capito - il “Corriere della Sera”. Afeltra vi aveva da poco
iniziato la sua carriera, e veniva adibito alle mansioni più
faticose e arrischiate. Il quotidiano milanese, come l'Italia intera,
si trovava in bilico fra due regimi: ma nel suo caso l'imperativo
"Tutti a casa!", che dominava in quei giorni, risultava
impraticabile. In quelle stanze, la continuità con la democrazia
prefascista s'imponeva. Occorreva risalire alle tradizioni della
testata di Albertini, lungamente assopite nel clima ufficioso imposto
dalle veline dell'agenzia Stefani, ma troppo illustri e incisive per
scomparire. Giornalisti esuli da vent'anni da via Solferino,
perseguitati dal regime, come Ettore Janni o Mario Borsa, e
oppositori dignitosi e appartati come Filippo Sacchi, potevano
assicurare una transizione difficile. Essa passava attraverso la
destituzione di Aldo Borrelli - Afeltra lo definisce il "direttore
galantuomo" - che era riuscito a mitigare il servilismo del
“Corriere”, evitando i deliri encomiastici pur nei limiti imposti
dal regime. Fu Sacchi a firmare, il 27 luglio, il primo articolo di
fondo del "nuovo corso" (cominciava così: "L' Italia
ieri ha sorriso...") e a figurare, come responsabile del
“Corriere”, nei giorni successivi all'arresto di Mussolini. Poi,
la scelta dei Crespi, proprietari del giornale, cadde
inaspettatamente su Janni; i giornalisti del Corriere avevano invece
optato in maggioranza per Borsa, dopo un'informale consultazione del
neonato Comitato dei partiti antifascisti da parte di Montanelli e
dello stesso Afeltra. Borsa sarà poi il primo direttore del Corriere
all'indomani della Liberazione.
Quello che Afeltra
"rilegge" in questo libro, sulle ali del ricordo, è uno
smilzo foglio di emergenza: due sole pagine, che diventano quattro la
domenica. È pieno di toppe bianche per gli interventi della censura,
inattesi quanto casuali, che riflettevano il clima di confusione
generale. Collaboratori del rango di Luigi Einaudi, ibernati dalla
dittatura, riprendevano l'antico dialogo con i lettori. Ad altri, da
Montanelli a Bartoli, non parve vero di raccontare il nuovo clima con
animo spoglio da ogni retorica imposta. Fu un breve intervallo.
L'epilogo dei quarantacinque giorni, con l'annunzio dell'armistizio,
la goffa avvertenza "la guerra continua" e la fuga del re
verso Pescara, sedò ogni entusiasmo, trasformando il caos in
tragedia.
Il 9 settembre, il
“Corriere” uscì listato a lutto, sormontato da una vistosa
striscia nera. Sotto il titolo dedicato al proclama badogliano, un
commento di afflato patriottico che cominciava così: "Quattro
novembre 1918, otto settembre 1943, due date, due ricordi. Una
gloria, una vergogna". Fu censurato. Il "grande
caleidoscopio dei quarantacinque giorni, insieme assurdo e
drammatico", si era concluso. Ancora alcune settimane e Via
Solferino sarà "occupata" da uomini di vertice imposti dai
fascisti di Salò. Nuove liste di proscrizione verranno emanate:
comprenderanno - da Einaudi a Flora, da Bartoli a Montanelli, da
Janni a Piovene, da Mario Borsa a Filippo Sacchi, da Adolfo Omodeo
alla giovanissima Camilla Cederna - quei giornalisti del Corriere
che, fra il 25 luglio e l' 8 settembre, avevano "sparlato"
del regime mussoliniano. I fratelli Crespi, proprietari del
quotidiano, vennero arrestati in autunno per la loro complicità con
le direzioni Sacchi e Janni. Si preannunziava, intanto, la lotta
partigiana.
Cronaca in presa
diretta
Più che un libro di
memorie, questo di Afeltra è una cronaca in presa diretta. Colorita,
a tratti convulsa, quasi dettata "a braccio". L' epopea del
Corriere - che Afeltra assapora come una madeleine - si sminuzza in
una serie di personaggi solenni o patetici. Il rito si evolve in
spettacolo. Anche per chi ha vissuto, o sfiorato, quei frangenti, le
curiosità non mancano. Nel testo o in appendice, Afeltra ripubblica
documenti, articoli, testimonianze magari proverbiali, ma ormai
introvabili. Fra queste trouvailles, la serie di articoli che
Vincenzo Talarico - un giornalista superdotato di humour e di
fantasia - dedicò sul Messaggero, dopo il 25 luglio, alla relazione
fra Mussolni e la Petacci. L' articolista si insinua nel talamo della
"mediocre Maintenon" e del suo autorevole amante, che i
Petacci - "gente puerilmente vanesia" - in famiglia
chiamavano "Bibi". La serie, pubblicata anonima, venne
erroneamente attribuita a Montanelli, contribuendo a determinarne
l'arresto e alcune successive, pericolosissime traversie. Riletta
oggi, quella prosa di Talarico colpisce per la sua spietata
improntitudine. Su di essa si estende l'ombra di piazzale Loreto.
“la Repubblica”, 22
maggio 1993
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