«Bienvenu Myriel era
vescovo di Digne. Era un vecchio sui settantacinque anni, dal 1806
titolare della diocesi di Digne. Benché non abbiano nessun
collegamento con la sostanza della nostra storia, forse non sarà
inutile, se non altro per la precisione, far menzione di certe
dicerie circolanti su di lui quand'era giunto nella diocesi. Vero o
falso, ciò che si dice degli uomini occupa spesso nella loro vita, e
soprattutto nel loro destino, un posto paragonabile a quello delle
loro azioni...».
Di solito, i personaggi
delle commedie degli autori che non ci sanno fare, dopo lunghi
monologhi immotivati si mettono a posto, per così dire, con una
domanda retorica: «Perché vi dico tutto questo?». E neppure si
fermano a rispondersi. Tacitata la propria coscienza con un
interrogativo a non rendere, vanno avanti a dire altre sciocchezze.
Li parafraserò, tanto per cominciare: «Perché
vi cito tutto questo?».
Ma io ho la risposta pronta, e almeno in un certo senso
significativa: «Perché questo è l’incipit de I miserabili
diVictor Hugo, nella nuova strepitosa traduzione di Mario Picchi,
appena pubblicata da Einaudi in tre densi tomi, e non mi coincide
affatto con il ricordo dell’incipit nella lettura de I
miserabili della mia infanzia...».
È innegabile che la
risposta pertinente alla domanda introduce un determinato tema. Che
cavolo di libriclassici, semiclassici o così via abbiamo letto
tradotti nella nostra infanzia noi che abbiamo una certa età?
Rileggo l’incipit di
questa recentissima edizione de I miserabili, lo confronto con
l’eco, che persiste nei meandri della mia mente, di quell’altro
incipit de I miserabili, e non ho dubbi. Tutto il primo libro del
primo tomo, che narra la storia del vescovo di Digne sotto il titolo
«Un giusto», nell'edizione italiana de I miserabili da me
letta mezzo secolo fa non c’era.
L’editore,
probabilmente prendendo alla lettera l’ammissione di Victor Hugo
che le vicende di Charles-François-Bienvenu Myriel non avevano
nessun collegamento con la sostanza della storia, aveva bellamente
soppresso il tutto. Ma, visto che aveva soppresso i detti e le laudi
del virtuoso vescovo di Digne, l’editore eliminò anche il libro
secondo, «La caduta», in cui veniva presentato il torvo Jean
Valjean all’uscita dalla galera in contrasto con il mondo intero,
ma, insomma, l’ex galeotto incontrava il vescovo di Digne virtuoso,
ma ininfluente, quindi era possibile rimandare il suo ingresso nella
storia di qualche altra decina di pagine. Per me I miserabili
d’antan cominciavano con il terzo libro «L’anno 1817»
sugli sfortunati amori della bella Fantine, purtroppo
che potesse trattarsi di
Jean Valjean sia pur redento e virato al buono, anzi all’ottimo, si
cominciava a sospettarlo solo più tardi (a pag. 168). E chissà come
avrà gongolato l’intraprendente editore per aver così aggiunto un
fremito di mistero e di poliziesco ai languori erotici e sentimentali
di quell’inizio, del suo inizio.
Insomma, da molti I
miserabili possono essere riletti oggi come un libro nuovo. E
anche coloro che son stati più fortunati di me nella prima lettura
scopriranno nella traduzione di Mario Picchi che non si tratta solo
di un nuovo libro, ma di un nuovo grande libro. Mario Picchi è un
livornese del 1927, redattore deil'Espresso, e, prima di darsi a
questa fatica, nel campo del tradurre aveva già all’attivo una
bella traduzione da Maupassant. Il contratto con l’Einaudi per la
traduzione de I miserabili risale al 1965. Lui assicura di
aver realmente lavorato a questa nuova traduzione una decina d’anni.
«La principale difficoltà nel tradurre Victor Hugo», dichiara,
«sta nel fatto che probabilmente ha avuto una conoscenza della
lingua francese superiore a quella di qualsiasi altro suo
contemporaneo...».
Victor Hugo si divertiva
o viveva dell’invenzione di parole nuove da immettere
nell’eloquenza straripante, trascinante, coinvolgente della sua
prosa, parole nuove della lingua letteraria, parole nuove della
lingua parlata. «Persino di argot», dice Mario Picchi. «Persino
quando usa l’argot ne inventa. Inutile cercarle nei dizionari».
Occorreva ricrearle, dunque, queste parole inesistenti. E il
traduttore le ha ricreate, anche perché, giustamente, non voleva
appesantire un così dinamico capolavoro della letteratura romanzesca
con pedanti note a fin di pagina che avrebbero rischiato di distrarre
l’attenzione del lettore, spezzando il ritmo dell’abbandono. Le
parole nuove e vecchie di cui s’inebriava Victor Hugo non dovevano,
insomma, costituire un ostacolo al ritmo. Anzi.
I miserabili sono
un’orgia di tirate personali, di assoli prepotenti, di confessioni
insaziabili, mosse da questo ritmo, affrettate, sbattute, amalgamate
e ridistinte per ulteriori esplosioni. A leggerle, in questa
traduzione, le sentiamo dette e vissute anche nei toni delle voci. «A
un certo punto, per tener dietro a questa oratoria», dice Picchi,
«ho cominciato a tradurle ad alta voce queste tirate, a recitarle
io, a registrarle. E successivamente ho rivisto la trascrizione».
«Vi ringrazio, signor
pubblico ministero, ma non sono pazzo. Vedrete. Eravate sul punto di
commettere un grande errore, liberate quell’uomo, io sto compiendo
un dovere, sono io quell’infelice condannato. Sono l’unico che
veda chiaro qui, e vi dico la verità. Ciò che faccio in questo
momento, Dio che è lassù, lo guarda, e questo basta. Potete
arrestarmi, dato che sono qui. Eppure avevo fatto del mio meglio. Mi
sono nascosto sotto un nome; sono diventato ricco sono diventato
sindaco: ho voluto rientrare tra le persone oneste. Sembra che questo
non sia possibile. Insomma, ci sono molte cose che non posso dire,
non vi racconterò la mia vita, un giorno si saprà... Hanno avuto
ragione di dirvi che Jean Valjean era uno sventurato assai malvagio.
Ma forse non è tutta colpa sua...».
Così Jean Valjean,
quando dimette la maschera di papà Madeleine e si accusa perché un
innocente è stato accusato di essere lui. Il pubblico ministero non
vorrebbe credergli, ma soggiogato dalla sua oratoria finisce per
capitolare. E altrettanto fa il presidente del tribunale. E da qui in
avanti I miserabili è soprattutto la storia di un forzato
(Jean Valjean, è ovvio), un poliziotto (Javert) e una bambina (la
figlia di Fantine, Cosette, che inevitabilmente cresce), una storia
popolarissima quanto a diffusione, anche se, a tirare le somme, il
popolo non c’è molto dentro, non si fa troppo vedere o sentire. È
vero, nel 1848, l’anno stesso del Manifesto del partito
comunista di Marx e Engels, Victor Hugo proclamava: «Sono, e
voglio restare, l’uomo della verità, l'uomo del popolo», ma
bisogna intendersi a quale popolo alludesse. E, comunque, a qualsiasi
popolo alludesse, il nucleo ispiratore era altro, e Mario Picchi
crede di averlo capito, traducendo, subendo la violenza sonora di
Victor Hugo e cercando di aderirvi dall'interno di ogni frase, di
ogni parola, persino di ogni pausa prevista e rispettata, e, allo
stesso tempo, tentando di risalire il gran fiume delle orazioni e
delle mistificazioni sino alle origini dell’ispirazione.
Il tutto attraverso
peripezie pressoché infinite in terra e sottoterra, sul lastricato e
nelle fogne letteralmente sino all’apoteosi finale, con tanto di
cielo e stelle, ovvero all'ultima orazione di Jean Valjean per la
propria morte nell’estremo libro nono del terzo tomo
significativamente intitolato «Ombra suprema, suprema aurora».
Finalmente fuori dalle fogne, approdato nel mondo dei borghesi
carogne, quanto parla ancora, l'eroe maledetto e benedetto, il
santissimo furfante; rivolgendosi a Cosette, che non è ormai piu una
bambina, ma una moderna signorina, e al suo uomo Marius. «Avvicinati,
avvicinatevi tutti e due. Vi voglio molto bene. Oh! è bello morire
così! Anche tu mi vuoi bene, mia Cosette. Lo sapevo che avevi sempre
affetto per il tuo vecchietto. Come sei stata gentile a mettermi
questo cuscino sotto le reni. Mi piangerai un poco, non è vero? Non
troppo. Non voglio che tu
abbia veri dispiaceri... Cosette, è venuto il momento di dirti il
nome di tua madre. Si chiamava Fantine. Ricorda questo nome: Fantine.
Mettiti in ginocchio tutte le volte che lo pronuncerai. Ha sofferto
tanto. Ti ha amato tanto. Ha avuto in sventura tutto quello che tu
hai in felicità. Sono le spartizioni che fa Dio. Egli è lassù, ci
vede tutti, e sa quel che fa in mezzo alle sue grandi stelle...».
Qual è, insomma, la
conclusione di Mario Picchi, dopo tanto suo indagare tra il
lastricato, le fogne e i cieli de I miserabili? «Questo libro
equivoco», dice Picchi, «che si è voluto scambiare per un’epopea
del popolo, non era nemmeno l'epopea della borghesia che tenta di
avvicinarsi al popolo, ma semmai il tentativo di un grande borghese
di avvicinarsi senza dialogare al suo rovescio, Jean Valjean. Poi,
per punirlo del privilegio accordatogli, lo sottopone a ogni
sevizia...».
Il nucleo ispiratore
sarebbe dunque lo sdoppiamento, la riunificazione e viceversa del
tempestoso io di Victor Hugo. I suoi incubi che diventano realtà
sulla pagina. La realtà che si dimentica in incubi per rimetter
tutto in movimento. Il falso deliberato. La verità del falso. E si
potrebbe continuare...
Ma non c’è qualcosa da
meditare in questo improvviso revival di Victor Hugo? Il ritorno di
quello che Antonio Gramsci definiva il più grande scrittore di
romanzi d'appendice non la dice lunga sullo stato di salute della
narrativa contemporanea?
Già, senza dubbio,
perché in questi giorni, oltre ai tre tomi einaudiani de I
miserabili, è uscito presso Mondadori un altro capolavoro di Victor
Hugo, Novantatré, pure in nuova traduzione. Una traduzione
puntigliosa e agguerrita di Francesco Saba Sardi, che non ha
esitazioni nel proclamare questo romanzo meno frondoso, più
asciutto, migliore de I miserabili e nel lamentare, quindi,
l’ingiusta trascuratezza nei suoi riguardi del pubblico italiano
come di quello francese.
Ma la narrativa è la
narrativa, almeno quella vera, e infatti è lo stesso Saba Sardi a
concludere poi: «C'è infatti da chiedersi anche se la qualità di
"romanzo” di un romanzo (non è un gioco di parole: l'arte di
narrare, lo ripeto, non è quella di comporre poesie) non vada
cercata nella sua capacità di affascinare nella maniera più
elementare, melodrammatica, sentimentalistica possibile. Se anche per
il romanzo non valga quel che se detto dei "libri Cuore ...».
Bene, perdio! □
EUROPEO/28 GENNAIO 1984
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