Negli ultimi anni 70, sul
finire della settimana, non ricordo più se il venerdì, il sabato o
lo domenica con il “Corriere della Sera” usciva un supplemento
dedicato ai programmi televisivi. Il testo che segue è tratto da uno
di quei supplementi. Non c'è data nel mio ritaglio, ma l'anno è di
sicuro il 1978, lo stesso della realizzazione della Madame Bovary
della Rai, di cui il testo di
Siciliano, dedicato al romanzo di Flaubert, costituiva un
accompagnamento. (S.L.L.)
Visse lo scrivere quel
suo romanzo come un supplizio, una tortura che gli accendeva
l’immaginazione ma che lo spingeva a muovere le parole dai loro usi
domestici con gesti inavvertibili, sfumati. Gustave Flaubert scrisse
Madame Bovary fra il 1851 e il 1856. Chiuso nella sua casa di
Croisset, alla periferia di Rouen, pareva dominato da fantasmi di
automortificazione. Invecchiato anzitempo, ammalato, le illusioni
romantiche, i voli lirici che avevano segnato la sua giovinezza e la
sua maturirà di scrittore, parevano diventati in lui oggetto d’odio
o simboli dell’umana stupidità.
Incontrò il suo
personaggio sulla cronaca dei giornali. Un amico gliene additò il
caso. La moglie di un medico di provincia, sconvolta dall’eros e
dai debiti, si era tolta la vita.
Flaubert si impossessò
del fatto. La mediocrità, la volgarità, nella loro veste
quotidiana, non erano stati fino ad allora argomento di romanzo se
non sporadicamente. Il romanzo, anche nei suoi esempi massimi, era
ancora una grande avventura, dove il bene e il male si battevano
senza risparmio di colpi per impossessarsi dell’umano destino. Luci
immense tagliavano le pagine di quelle avventure, impenetrabili
tenebre le invadevano.
Flaubert restrinse il suo
obiettivo, o, meglio, decise di restringere al minimo il fuoco del
romanzo. I silenzi delle case borghesi scanditi dal tic tac della
pendola, qualche raschio di tosse, lo starnazzare delle oche in un
cortile di campagna: al centro di tutto un’esistenza qualsiasi,
confusa irreparabilmente nell’anonimia.
Stretto per un verso il
fuoco sull’ovvio e sul qualsiasi, l’obiettivo si dilatava in modo
incontenibile su tutto quanto riempie di pura casualità la vita
quotidiana. Una sequela di dettagli, trascurabili all’apparenza, si
aprirono il passo sulle pagine del romanzo.
Amore e tradimento
Fino ad allora ciò che
il narratore mostrava della vita ai suoi lettori pareva rigorosamente
selezionato: con Flaubert, con Madame Bovary, sembrò sparire ogni
selezione, e la vita dilagò nei capoversi di ogni capitolo con il
suo invariato pulsare, i suoi polivalenti significati.
Per un’alchimia folle,
il dramma, che il romanziere andava costruendo tessera per tessera
meticolosamente, proprio in quei dettagli spersi, vaganti, prendeva
forma e credibilità.
Flaubert fu sgomento dal
suo medesimo lavorare. Si rinchiuse dentro le giustificazioni dello
stile. Lo stile diventò per lui una sorta di dio o di demone
esigentissimo cui dare tutto e da cui ricevere poco.
Proprio lo stile lo aiutò
a sovvertire il vecchio parco lampade a disposizione del narratore.
Le luci si adattarono allo stillicidio dei giorni sempre uguali:
bastò poco per evocare il variare della stagione, il variare
dell’ora.
Scrupolosissimo
nell’individuare i particolari, nell’inciderli con la meticolosa
mina di un Ingres, Flaubert non abbandonò la sua penna ai colori.
Quando un colore scocca sulla sua pagina sentiamo accendersi
l’urgenza di una concretezza ulteriore, non avvertiamo il
vagabondare di un pennello.
I pomelli rosa di Emma
Bovary, il suo incarnato avorio, le due bande lucenti di capelli che
le incorniciano la fronte, un’alcova foderata di rosso, un mucchio
di azzurra cenere fredda, o lo svolare di una farfalla gialla su un
mazzo di viole altrettanto gialle, affiorano nel bianco e nero della
narrazione più presupposti che visti. A Flaubert premeva che la vita
scorresse dentro le sue parole come un rivolo invisibile.
Dunque, simulato sotto le
richieste dello stile si disegnava intanto il personaggio: Emma, uno
dei proverbi della narrativa moderna.
«Madame Bovary sono io!»
scrisse Flaubert. Sarebbe facile scoprire nelle spoglie di
quell'oscura ed esaltata ragazza di provincia tratti coincidenti con
quelli del suo autore. Ma l’esclamazione di Flaubert scaturiva da
sorda, profonda repugnanza per il frutto della sua immaginazione: in
quello verificava la prigionia cui il suo io era condannato. Si
vedeva costretto a un forzoso riconoscimento della propria anima da
cui non lo liberava neppure il tanto invocato esercizio stilistico.
Emma Bovary era là, davanti a lui fissa come in uno specchio, con la
sua voluttà repressa, le smanie snobistiche, i vagheggiamenti
inguaribilmente adolescenziali, la frenetica e marginatale dedizione
dissipatoria: era là suicida masticando arsenico (e lo scrivere
quella scena fece stare fisicamente male Gustave).
Cosa c’era di lui in
quella donna mediocre? Sposata a un uomo che non ama, Emma si fa una
ragione di quel non amore soltanto attraùverso il tradimento. Il
tradimento in lei non è un’esigenza del cuore o dei sensi: è
un’esigenza dell’intelletto. La modernità e l’eternità del
personaggio la scopriamo non nella sensibilità scorticata: piuttosto
nel vederla divisa dalla realtà che la circonda, nel vederla
ossessionata dal bisogno di soddisfare a ubbie velenose, a sogni
contratti leggendo come un’ammalata nevrastenica libri e riviste.
«Aveva letto Paolo e
Virginia, ed aveva sognato la casetta di bambù, il negro Domingo, il
cane Fido...». Aveva letto Chateaubriand ma si inebriava alle
dolcezze di un medioevo da melodramma; i suoi vagabondaggi
sentimentali conoscevano arruffate memorie di Mille e una notte,
turcheschi teatrini. Anelava a un ideale di pallida e sfibrata
esistenza cui la gente di scarso sentire, a suo giudizio, era negata.
«Amava il mare solo per via delle tempeste, e il verde solo
quand’era sparso tra le rovine». La campagna che la circondava con
la sua eterna quiete, «il belato delle greggi, la confezione dei
formaggi, l’uso degli aratri», le infliggeva crudeli tormenti.
Emma legge: legge e si
esalta. Più si esalta, più ferisce la propria carne avvilita.
L’uomo che ha sposato, quel Charles Bovary, la cui conversazione
«era piatta come un marciapiede, sopra cui sfilano le idee di tutti
nella veste più ordinaria», le appare via via sempre più
repellente. «Lui la credeva felice, e lei gli portava rancore per la
calma posata, atona, di cui faceva mostra». Reiteratamente Emma si
chiese, «Perché mi sono sposata, Dio mio?».
Rabbia come
preghiera
Eppure si è sposata:
affina le proprie grazie con solitarie dediche a se stessa. Coltiva e
spreca idee d’eleganza, profumi e vezzi, in un luogo, in un
ambiente, il piccolo paese, dove nulla e nessuno può ricompensarla.
Incontra uno stupidissimo «giovane di studio», un ancor più
stupido nobilastro del vicinato. Crede costoro creature di romanzo,
relizzazioni delle proprie letture: si lascia andare alla volgarità
loro, alla loro violenza. Si compromette, sperpera denaro: non le
resterà che uccidersi. Una morte che è il gesto estremo della
stupidità, di un delirio irreale.
Anche senza aver letto
Madame Bovary potremmo dire: conosciamo questa storia. Sì, lo
potremmo: ma ciò che il libro scopre per noi è l’assurdità di
quel vivere, la sua pochezza immensa, il suo non possedere la vitale
coerenza che, sempre, nelle vite più sciagurate, incontriamo.
La vita di Emma, con
parola usurata, tutta novecentesca, ci appare alienata. All’inverso
di quanto accadeva a Don Chisciotte, anche lui stralunato e travolto
da un viaggio tutto men tale, i sogni non nutrono Emma: anzi, via via
la impoveriscono, la rendono pazza d’una cinerina pazzia. Masticare
l’arsenico fu per lei una scelta obbligata.
In tutto questo scopriamo
una solenne malinconia: o una rabbia, altissima come una preghiera.
Flaubert aveva visto scaturire dai sogni romantici, alla lettera
grandi e generosi, la piattezza, la meschinità ideale della
borghesia: aveva visto distruggersi e farsi scheletro il progetto di
una vita spiritualmente alta e nobile. Allo spirito rivoluzionario
del 1848 non aveva creduto. Il suo romanticismo si era voltato in un
sentimento di acceso nichilismo. Niente era più chiaro
all’intelligenza di Flaubert della menzogna borghese. Sotto le
forme morbide di Emma, lo scrittore inseguì il segno di un destino
funebre, un’arsura morale che nessuna bevanda avrebbe potuto
soddisfare.
Accanto a Emma, i suoi
amanti, il marito, il farmacista Homais, e chiunque altro si affacci
nelle pagine del romanzo: tutti portano il marchio affliggente della
degradazione, e non lo sanno.
Lettere dalla
prigionia
Per tutto questo, in
Flaubert, non c’era soltanto odio: c’era una strana, accanita e
fredda pietà. La bugia borghese, per cui gli imperativi etici
possono venire esitati separandoli di netto dalla contingenza
concreta dell’esistere, la soffriva in se stesso come un morbo: se
ne sentiva invadere la mente, e l’urlo che ciò gli provocava
restava mozzo e sfocato sulle sue labbra. Dalla prigionia di Croisset
scriveva lettere dense di disperazione: volgeva in estetica
l’assottigliarsi della consapevolezza etica. «Il genio, in fin dei
conti, è forse solo un raffinamento del dolore, cioè una più
intensa e completa penetrazione della realtà oggettiva attraverso la
nostra anima. La tristezza di Molière nasceva certamente da tutta
l’idiozia dell’umanità che egli sentiva in sé; egli soffriva
dei Diaifourus e dei Tartufes che gli entravano per gli occhi nel
cervello» (30 settembre 1853, a Louise Colet).
Emma Bovary, Charles,
Homais, gli erano entrati «per gli occhi nel cervello», ma solo
perché nel suo cervello c’era una identica irresolutezza, una
identica incapacità a vivere la vita poiché la vita era caduta in
eclissi.
L’ambizione di Flaubert
era poter rappre sentare e studiare «l’anima umana con
l’obiettività con cui, nelle scienze fisiche, si studia la
materia». La sua illusione era «un misticismo nuovo»: quello per
via del quale l’umanità potesse osservarsi nelle proprie opere
come Dio si osserva nella natura. Era un’illusione, era
un’ambizione sbagliata.
Flaubert fantasticava
come Emma su un paradiso impossibile. Diversamente da lei,
rappresentando lei, narrandone le velleità e le sconfitte,
descriveva e rappresentava, di quel paradiso, non soltanto i limiti
ma l’irrealtà atroce, infernale, e l’irreversibile deriva.
Flaubert poteva uccidere Emma lasciando che inghiottisse arsenico,
poteva, così, persino con cinismo, dannarla alla sua pochezza: ciò
che non poteva era uccidere tutto quel che di Emma c’era in lui (e
non solo di lei, ma anche di Charles, di Homais, e degli altri).
Avrebbe desiderato ucciderlo con lo stile, con l’impassi bilità
della forma e dell’arte, sostenendo che il romanziere dovesse
svanire come nebbia al sole dell’invenzione. Invece, dolorosamente
piagato, restò lì, fisso al suo specchio, a reclamare l’unica sua
possibile identità. Emma Bovary era lui. Dopo di lui il romanzo
avrebbe vissuto i propri personaggi: non li avrebbe più
rappresentati.
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