Su Cuore di
Edmondo De Amicis, ormai più che centenario, non si è mai smesso di
scrivere e di discutere, e tra esegesi, parodie ed esplorazioni
storico-letterarie, la mole di scritti accumulata è inferiore solo a
quella che riguarda l’altro grande classico per l’infanzia
italiano, Pinocchio.
Difficile, quindi, dire
ancora qualcosa su questo libro assai amato e odiato, ma soprattutto
deriso, almeno da quando comparve, sul Caffè, l’elogio di Franti
pronunciato da Umberto Eco. Eppure Domenico Starnone, nella sua
introduzione al Cuore appena pubblicato dalla Universale
economica Feltrinelli, è decisamente riuscito a dire la sua: pur
preso tra due «Cuori» fin troppo diversi (quello di Michele Serra,
che usa il marchio deamicisiano nel modo più irriverente possibile,
e quello conosciuto nell’infanzia, tra emozione e sgomento) ha
trovato modo di dimostrarci, una volta di più, che certi libri per
bambini andrebbero letti soprattutto da adulti.
Come ricavarne,
altrimenti, succhi inediti da mettere a confronto con le antiche,
indelebili impressioni infantili che non cessano di accompagnarci?
Così allo Starnone di nove/dieci anni, che affronta Cuore nei
vapori della febbre alta, scoprendovi con un certo gusto una quantità
di gente ammalata e povera, di grugni lombrosiani, di racconti
mensili pieni di emozioni ed effettacci, e perfino di sessualità
appena accennata (quante trecce di bambine brutalmente tirate, quanti
uomini e ragazzi che in un libro così al maschile vivono in funzione
delle lacrime o delle gioie delle loro mamme, compresa quella
super-mamma che è la Patria, immaginata come una dama discinta in
camicione...), si sovrappone lo Starnone che rivede, nel libro di De
Amicis, una scuola nella sostanza immutata.
E’ in questa luce che
Cuore - gran serbatoio di notizie ed immagini su un’Italia
neocnata, sulla classe che la governava, sulla sua ideologia e sul
suo fosco immaginario pedagogico - ci appare, forse, più inquietante
che mai: perché, dice Starnone, sono ancora reali e palpabili la
frustrazione e il senso d’abbandono di certi insegnanti e la loro
sostanziale subalternità alle gerarchie sociali ed economiche,
nonché l’uso del Garrone di turno in funzione di sgherro e il
«succube innamoramento» nei confronti del primo della classe.
Né è scomparso il
Franti che un tempo terrorizzava il piccolo lettore, e che all’occhio
dell’adulto appare, adesso, esattamente per quello che è, una
creatura incompiuta, molesta, che «una volta porta la maschera di
Bresci, un’altra quella della violenza proletaria, un’altra
quella neonazista, un’altra ancora quella anti-terrone o xenofoba o
da killer miserabile che ti aspetta sotto casa».
Ed è soprattutto per
questo che dovremmo rileggerci (da grandi!) il libro Cuore,
per le promesse che abbiamo fatto a Franti senza mai mantenerle, o
per quelle che non siamo stati capaci di fargli, perché troppo ci
turba la sua tremenda incollocabilità, il suo irrimediabile essere
fuori...
“la talpa libri il
manifesto”, 22 aprile 1993
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