Parigi
Nel tardo pomeriggio,
quello stupido e malinconico 3 maggio 1987, la sua domestica la
ritrovò senza vita, all’11 bis di rue d’Orchampt, la casa di
Dalida sulla collina di Montmartre. Aveva 54 anni. Indossava un
pigiama e una vestaglia di seta bianca. La sera prima si era riempita
la bocca di barbiturici. Sono trascorsi trent’anni. Dalida era
all’apice della sua carriera. Cantante acclamata, era nata da una
coppia di calabresi emigrati al Cairo. E aveva raggiunto il successo
a Parigi, dove andò a vivere ad appena 21 anni, per poi dividersi
tra Francia e Italia (500 canzoni registrate in francese, 200 in
italiano e 200 in altre cinque lingue). Tra la fine degli anni 50 e
il decennio degli 80 è passata da un repertorio melodico puro a uno
disco, transitando anche attraverso la collaborazione con alcuni
cantautori italiani, come Luigi Tenco (memorabile la sua
interpretazione di Ciao amore ciao) e Piero Ciampi (La
colpa è tua). Fino alla fine parlò francese con un marcato (e
coltivato) accento italiano.
E da diversi giorni, da
quando la mostra Dalida: une garde-robe de la ville à la scène
è stata aperta, la fila davanti al palazzo Galliera, il Museo della
moda della città di Parigi, si allunga inesorabilmente fuori dal
cortile. In mostra c’è il suo guardaroba. «Non si è mai separata
dai propri abiti», racconta Sandrine Tinturier, curatrice
dell’esposizione, «come fosse un diario personale». 150 vestiti e
tanti accessori (anche gioielli e occhiali), che Orlando, fratello di
Dalida (e a lungo suo produttore), ha donato alla capitale francese.
«Dalida – continua Tinturier – era affascinata dalla moda, ma
senza esserne vittima. E non si è mai fidelizzata a un unico
stilista». Poteva indossare, non solo nella vita di tutti i giorni
ma pure sulla scena, anche un vestito comprato in una qualsiasi
boutique di Roma o in un mercato in Turchia. Libera, sempre. Per
quello sono così numerosi ad attendere fuori dal palazzo Galliera?
Il mistero del suo mito?
Nel 1958 cantava Bambino
all’Olympia. E indossava un abito di velluto rosso, come il sipario
di un teatro: la mostra inizia con quello. Le foto ai muri ricordano
che allora Dalida era bruna. Quel vestito, disegnato da Jean Dessès,
di origini egiziane come lei, rifletteva il modello della star dal
sapore hollywoodiano, con il vitino di vespa e il décolleté
generoso. Accanto altri, color pastello, di Jacques Esterel,
influenzati dal New Look di Christian Dior.
Nel 1963 l’artista
divorziò da Lucien Morisse, il talent scout che l’aveva lanciata a
Parigi, e si trasferì nella casa a Montmartre (proprio quella lì).
L’anno dopo divenne bionda. «Quando il repertorio cambia e quando
la sua vita cambia – aggiunge la curatrice – anche gli abiti
cambiano». Lo stilista che riuscì a capire l’evoluzione (anche
personale) dell’artista fu Pierre Balmain: il look divenne meno
spensierato, più francese e raffinato. Il 27 gennaio 1967 Dalida
trovò il corpo di Luigi Tenco, suicida, nella stanza di un albergo
di Sanremo. In seguito iniziò a presentarsi in tv e nei teatri con
quegli abiti tunica lunghi di Balmain, rigorosamente bianchi,
ieratici, con decorazioni (fili d’argento, perle) intorno alla
scollatura: una «Fedra moderna», scrivevano sui giornali.
Nella vita di tutti i
giorni, si convertì al genere post ’68, hippie, dalle
contaminazioni folk ed etniche. Non erano capi necessariamente
firmati, ma cominciò ad acquistare nella boutique Rive Gauche di
Yves Saint Laurent. «Lo stilista non riuscì mai a incontrarla –
precisa Tinturier – e ne soffriva rispetto a chi aveva questo
privilegio, come Loris Azzaro». Suo è un abito lungo argentato in
mousseline di seta ricamata, con paillettes di plastica, utilizzato a
più riprese negli anni Settanta, quando le canzoni di Dalida
diventeranno disco. Del 1980, invece, è in mostra un insieme tutto
strass, paillettes e piume di struzzo, quando Dalida ormai si era
inserita in quel tunnel di rappresentazioni tra lo show all’americana
e il music hall, che contaminavano pure l’Europa.
Negli anni Ottanta, nel
quotidiano, opterà spesso per il cuoio e le spalline, vedi i
giacconi di Jean-Claude Jitrois. Ma vagherà anche altrove, come
l’abito rosa pallido indossato nel 1981, per l’insediamento di
François Mitterrand. «C’era come un’esitazione – conclude
Tinturier – l’evoluzione di una donna che non sa più così bene
cosa porterà a cinquant’anni». Nel 1986 apparirà con un vestito
nero e un foulard per nascondere i capelli nel film Il sesto
giorno di Youssef Chahine, povera e coraggiosa donna egiziana.
Pochi mesi dopo se ne andrà, indosso un pigiama e una vestaglia di
seta bianca.
“pagina 99”, 12
maggio 2017
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