Il
testo che segue è la prefazione al libro di Roberto Monicchia Il
mondo a pezzi, pubblicato da
CRACE nella collana “I Pamphlet” nel 2005. (S.L.L.)
Negli
anni settanta Franco Fortini raccolse in un aureo libretto le 24 voci
da lui curate per un dizionario letterario in dispense e le corredò
di una prefazione che è un vero e proprio elogio delle attività
intellettuali “servili”, quelle che obbligano, per statuto e
talora anche per vincoli contrattuali, a “un buon uso delle
parole”.
L’uso
parco, appropriato e mirato dell’arte dello scrivere, spiegava
l’indimenticato maestro, ha anche un’efficacia etico-politica: da
un lato mortifica la vanità piccolo-borghese dell’intellettuale,
fiaccando il demone della magniloquenza; dall’altro lo spinge a
“compartire il sapere”, prefigurando uno dei cardini del progetto
comunista.
Vale,
ovviamente, anche per la recensione, il cui autore è servo di due
padroni. Del libro di cui scrive, che non deve essere frainteso,
forzato nei significati, piegato a messaggi che non gli sono propri.
Del lettore, che dalla recensione si aspetta un’idea dell’opera,
ed anche un giudizio, esplicito o implicito che sia, ma non ama
essere sopraffatto da responsi oracolari né vuole che gli sia negato
il piacere di leggere e di confrontarsi con il testo in autonomia.
La
recensione onesta è diventata, tuttavia, una merce introvabile. Il
narcisismo, morbo intellettuale diffuso e pernicioso nell’era
dell’immagine, imperversa sulle pagine culturali dei quotidiani e
dei settimanali. Il recensore che ne è affetto raramente usa il suo
spazio per raccontarci il libro, dirci come è fatto, ragionare sui
punti critici, lo utilizza piuttosto come spunto per divagare,
polemizzare, pontificare, come alibi per raccontarci i casi suoi ed
informarci delle sue escogitazioni. In molti casi c’è fondato il
sospetto che si sia limitato a leggere i risvolti, tutt’al più a
sfogliare il volume.
Di
certo non è così per le recensioni che Roberto Monicchia ogni mese,
con grande puntualità, trasmette a “micropolis” da Vicenza, a
partire dal fatidico settembre 2001. In un periodico con una
impaginazione molto flessibile, dove poche sono le rubriche fisse, il
suo articolo mensile è diventato abbastanza presto un’istituzione,
un appuntamento fisso. Il primo anno le “letture da lontano”
(come qualcuno della redazione le chiama con scherzosa allusione)
ruotavano intorno a un tema: il movimento antiglobalizzazione, le sue
caratteristiche, i suoi connotati ideologici, i suoi testi di
riferimento, poi Roberto si è mosso con più libertà di scelta,
toccando tanti argomenti: le dinamiche dell’economia mondiale, le
caratteristiche e le contraddizioni del capitalismo contemporaneo, il
ritorno prepotente della geopolitica e della guerra sulla scena
internazionale, gli USA che spadroneggiano mentre declinano, la
miseria italiana, il comunismo storico e le poche nuove riflessioni
teoriche sulla società. Ogni mese una porzione di mondo indagata ed
interrogata con il sussidio di un libro recente.
Sul
suo metodo di lavoro Monicchia ci dà un ragguaglio nella nota
introduttiva, ove mette in fila i precetti dell’onesto recensore:
scegliere, leggere, rendere il senso testuale del libro, esplicitare
le domande che suscita, i dubbi che lascia, i percorsi che apre.
La
qualità del risultato è notevole. L’autore si schermisce, spiega
di non essere storico, né economista o giornalista di mestiere, ma
questo diventa paradossalmente un punto di forza. E non soltanto per
il principio secondo cui le cose che riescono meglio sono proprio
quelle che si fanno gratis, ma anche perché di economia, sociologia,
politologia, storia e geografia Monicchia dimostra di capirne più di
tanti mestieranti. Giornalista oltre tutto lo è d’istinto, e del
tipo migliore: possiede le qualità native del divulgatore e del
comunicatore, che proprio dall’approccio non specialistico
risultano potenziate. È per queste ragioni che le recensioni
pubblicate su “micropolis” presentano un pregio immediatamente
evidente anche agli antipatizzanti: vi si ritrova un’esposizione
del libro puntuale, chiara e sintetica, che invano altrove si
cercherebbe (provare per credere!). Il recensore individua con
sicurezza i nodi problematici del libro in esame, pone sul tappeto le
questioni più delicate e controverse e intorno ad esse costruisce il
pezzo.
La
chiave di tutto è la politica e Monicchia ne ha forte la
consapevolezza. La facilità con cui, anche e soprattutto a sinistra,
si sono accettati i luoghi comuni dell’ideologia neoliberista, con
gli annessi e connessi (dal paradigma della complessità alle
irritanti profacole sul postindustriale e sul postmoderno), segnala
una fuga dalla ragione, una dilagante poltroneria. Nei primi anni
sessanta Franco Fortini, in un libro esemplare come L'Ospite
ingrato, spiegava come
l’espressione “fine delle ideologie” fosse un eufemismo volto a
significare l’auspicata fine del comunismo. Adesso che il
comunismo, almeno quello “realmente esistente” è finito davvero,
le proclamazioni antiideologiche accompagnano l’accettazione supina
dell’ordine sociale vigente, una resa incondizionata al dominio del
capitale. Ma una volta che si rinunci a cambiare il mondo (anche solo
riformandolo, non necessariamente rivoluzionandolo), ai più sembra
una fatica inutile oltre che improba il tentare di comprenderlo. Le
stesse minoranze di sinistra che si vogliono critiche e radicali alla
dura ricostruzione di una prospettiva sembrano perciò preferire un
opportunistico adattamento all’esistente attraverso la conquista di
nicchie di sopravvivenza, per scavarsi le quali gli strumenti scelti
sono quelli tipici dell’odierno mercato politico. Né è pagante a
sinistra un grezzo movimentismo. Il libro di Monicchia guarda con
simpatia ed esamina con acume i soggetti sociali vecchi e nuovi che
si oppongono all’ordine costituito e talora riescono ad intaccarlo,
ma i movimenti rischiano il disarmo e il disastro, se alla loro
diffusione e crescita non s’accompagna la ricerca teorica, la
definizione di obiettivi, l’analisi concreta delle situazioni
concrete.
A questo andazzo le recensioni qui pubblicate oppongono una resistenza non soltanto ideologica. Il mondo fatto a pezzi dal dominio capitalistico e dalle ideologie dominanti, “complessificato” più che complesso, per Monicchia può essere afferrato solo da un “pensiero forte” che recupera e riabilita alcuni strumenti analitici dai più accantonati, ma niente affatto inservibili o superati. Piloni portanti ne sono, con tutte le contaminazioni richieste dalle circostanze, un anticapitalismo ragionevole e ragionato e un marxismo senza miti. Questa scelta rigorosa fa sì che il libro non sia una raccolta di brevi saggi su argomenti di varia umanità, ma un’opera profondamente unitaria. Non diremo che tutto si tiene: nelle fasi di sconfitta e di ricostruzione anche le analisi più accurate presentano scabrosità, scarti, intoppi. Ma una cosa è certa: il libro di Monicchia, oltre a proporci le domande su cui a sinistra dovremmo cominciare ad arrovellarci, indica una via: quella di una nuova centralità della battaglia culturale, di una politica che non si separa né dalla società né dalla scienza.
A questo andazzo le recensioni qui pubblicate oppongono una resistenza non soltanto ideologica. Il mondo fatto a pezzi dal dominio capitalistico e dalle ideologie dominanti, “complessificato” più che complesso, per Monicchia può essere afferrato solo da un “pensiero forte” che recupera e riabilita alcuni strumenti analitici dai più accantonati, ma niente affatto inservibili o superati. Piloni portanti ne sono, con tutte le contaminazioni richieste dalle circostanze, un anticapitalismo ragionevole e ragionato e un marxismo senza miti. Questa scelta rigorosa fa sì che il libro non sia una raccolta di brevi saggi su argomenti di varia umanità, ma un’opera profondamente unitaria. Non diremo che tutto si tiene: nelle fasi di sconfitta e di ricostruzione anche le analisi più accurate presentano scabrosità, scarti, intoppi. Ma una cosa è certa: il libro di Monicchia, oltre a proporci le domande su cui a sinistra dovremmo cominciare ad arrovellarci, indica una via: quella di una nuova centralità della battaglia culturale, di una politica che non si separa né dalla società né dalla scienza.
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