Conviene ancora, e ancor
più in un'epoca solitamente supina a pretesi determinismi, tornare a
riflettere sulla specificità della risposta interpretativa messa a
punto oltre cinquant'anni fa da Emilio Sereni nella sua sintesi sulla
Storia del paesaggio agrario italiano edita da Laterza nel
1961 e ristampata da allora 23 volte. Per l'originalità della
focalizzazione del tema, per l'innovativo approccio metodologico
interdisciplinare e oggi per una nuova attualità che la questione
del destino del lavoro agricolo e del profilo delle campagne torna ad
assumere nel quadro di un modello di sviluppo che mostra tutti i suoi
limiti. Come si legge nella prefazione al volume Paesaggi agrari
L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni (a cura di
Massimo Quaini, Silvana Editoriale, € 25,00, pp. 201, esito del
lavoro di ricerca su fonti e materiali del suo archivio e
testimonianza della mostra tenutasi lo scorso anno presso l'Istituto
Alcide Cervi, organizzata assieme alla Società geografica e
all'Istituto Gramsci), «non è un caso se torniamo a interrogarci
sull'eredità di Sereni in un momento storico in cui "il lungo
addio" dell'agricoltura e della "civiltà contadina"
(di cui il paesaggio è la fisionomia parlante) non ci appare più
come il processo fatale e irreversibile di fronte al quale non resta
che la rassegnazione». Quasi come se quella lontana messa a fuoco si
proietti sull'oggi, ispiratrice di un'ineludibile dimensione
operativa. E proprio nell'urgenza della saldatura tra impegno
scientifico e civile sta lo specifico della lezione di Emilio Sereni
(1907-1977), studioso di agricoltura e del paesaggio agricolo ma
prima ancora dirigente del partito comunista, partigiano,
costituente, ministro nei governi di unità nazionale. Rimasto
esterno al mondo accademico, incardinò le sue ricerche sull'asse dei
rapporti città-campagna, a partire dalla storia antica e precisando
il suo interesse per la storia e le forme del paesaggio agrario sulla
scorta dello studio di Marc Bloch su I caratteri originali della
storia rurale francese. Indagandone per l'Italia le tipologie
(estremamente più variegate) pur nella consapevolezza del pericolo
di «una ipostatizzazione delle forme del paesaggio agrario che ponga
l'accento sulla loro consistenza e persistenza geografica...
piuttosto che sul processo della loro viva e perenne elaborazione
storica». Dell'eredità di Sereni si ricostruiscono nel volume
specificità e limiti; dal contesto culturale dove matura la sua
indagine, al dibattito e alle critiche che essa suscita (continuismo,
uso delle fonti), ai lasciti di una sensibilità attenta alla
conservazione e gestione del patrimonio rurale. Soffermandosi
sull'originalità della sua proposta di una Storia del paesaggio
agrario costruita per brevi capitoli, segnati dall'uso
riassuntivo e certo significativo per l'epoca delle molte immagini,
intenzionalmente non specialistica, spoglia di ogni apparato erudito,
ma della cui gestazione si intravede il complesso lavoro preparatorio
in parte restituito dall'analisi delle carte del suo archivio.
Indagine sempre mossa da un'aspirazione alla sintesi, nella
consapevolezza che, richiamando Bloch,«vi sono momenti nei quali
importa soprattutto enunciare bene i problemi piuttosto che cercare
di risolverli». Sintesi di studi e d'azione che, metodologicamente,
procede dal porsi domande opportune. Come quelle per lui ispiratrici
che, scrivendo su l'Unità nel gennaio 1967, Sereni attribuisce al
detto - sempre e nuovamente attuale - «di un vecchio saggio»:«E se
non sono io e sarò solo per me, chi mai sarà per me, chi mai potrò
essere? E se non ora quando?».
ALIAS DOMENICA 9
SETTEMBRE 2012
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