Pare che Mussolini,
incontrando Matilde Serao, che aveva aderito al manifesto degli
intellettuali antifascisti di Croce e Amendola, provasse a blandirla
chiedendole cosa le sarebbe costato essere fascista almeno un po'. Se
Serao morì poi nel 1927, troppo presto per prendere una posizione
definitiva, si sa bene che a moltissimi altri scrittori essere un po'
e anche parecchio fascisti non costò niente. E si sa pure che il
loro assoggettamento era importante per il dittatore, già
giornalista e (almeno nelle aspirazioni) uomo di cultura, tendente -
osserva Sciascia nel Teatro della memoria -a governare
l'Italia «come un redattore-capo»: attento dunque oltre che a
filtrare o snaturare le notizie - a imbrigliare le voci autorevoli,
fagocitando la classe intellettuale esistente, formandone una nuova,
e controllando tutti i canali di espressione, dalle accademie alla
stampa, dal teatro alla produzione libraria. È su questo versante
che si concentra Mussolini censore. Storie di letteratura,
dissenso e ipocrisia (Laterza) di Guido Bonsaver (già autore di
uno studio in inglese sullo stesso argomento, qui ripreso e
ampliato). Una vasta inquadratura, che ripercorre tappe diverse della
dittatura, celebri o dimenticate: dai sequestri di volumi ordinati
attraverso le prefetture, alla creazione del Ministero della Stampa e
della Propaganda (divenuto nel 1937 il famigerato Minculpop);
dall'intervento di Mussolini, nel 1934, per bloccare l'uscita del
romanzo di MariaVolpi Sambadù, amore negro (storia di amore
interrazziale inaccettabile alle soglie della guerra d'Etiopia), alla
sua disapprovazione, nello stesso anno, per La favola del figlio
cambiato, opera lirica di Malipiero e Pirandello (sostenitore del
regime ma ugualmente incline a una visione sconsacrante del potere);
dalle delibere della Commissione di bonifica libraria - destinata a
espungere dai cataloghi tutte le opere di autori ebrei e di contenuto
antifascista alle ripercussioni delle leggi antisemite (che
costringono all'esilio la Margherita Sarfatti già regista della
politica culturale del fascismo, e inducono al suicidio un editore di
gran talento, Angelo Fortunato Formiggini).
Oltre a richiamarsi a
studi precedenti (specie quelli di Philip Cannistraro e Giorgio
Fabre), il libro fa leva su approfondite ricerche d'archivio; e se
ogni tanto eccede in sintesi, e incorre in una svista (è
impossibile che le modifiche al radiodramma Come tu mi vuoi,
tratto nel 1941 dall'omonima pièce pirandelliana, siano state
chieste a Pirandello stesso, scomparso nel 1936), riesce a illuminare
efficacemente sia la lunga durata della censura, sia la quantità di
mediazioni, incertezze, cambi di rotta che ne agitano il corso.
Innanzitutto,
l'asservimento della cultura è tutt'altro che omogeneo, segnato da
compromessi, oscillazioni, metamorfosi: il passaggio
dell'inizialmente schieratissimo Brancati (che consulta Mussolini sul
finale del dramma encomiastico Piave) a tematiche più
originali e posizioni più defilate; l'atteggiamento provocatorio e
antiborghese, non gradito al fascismo più ortodosso, di scrittori
cresciuti all'ombra del regime, che vanno poi in direzioni ben
diverse, come Berto Ricci, Bilenchi e Vittorini; l'indipendenza un
po' malferma di Moravia, sospettato di antifascismo, ma capace, per
proseguire la collaborazione con «La Gazzetta del popolo»,di
indirizzare a Mussolini due proteste di devozione; le acrobazie dei
grandi editori, che portano avanti una produzione di alto livello
mediante infinite concessioni e trattative(i mutamenti alla
leggendaria antologia Americana accettati da Bompiani, le
insistenze di Mondadori per pubblicare Remarque e Steinbeck, la sua
spontanea rinunzia a dare alle stampe Les Thibault di
Martin du Gard), e persino sbalorditive genuflessioni (la lettera in
cui Bompiani ringrazia per l'«ambitissimo dono» di una foto con
dedica del duce).
D'altra parte, la stessa
intolleranza del governo può occasionalmente allentarsi o
contraddirsi. A volte si tratta di intoppi pratici o direttive
contrastanti: la circolazione dei romanzi di Moravia è a più
riprese arrestata, nuovamente permessa, nuovamente impedita;
Conversazione in Sicilia di Vittorini è al principio,
malgrado il suo potenziale eversivo, elogiato anche dalla stampa di
più marcato orientamento fascista, ma poi, nel 1942, stroncato da un
feroce pezzo anonimo comparso sul «Popolo d'Italia», secondo
Bonsaver probabilmente opera di un collaboratore assiduo del
giornale, il fascistissimo classicista Goffredo Coppola (al centro di
un altro rilevante libro sui rapporti tra cultura e regime, Il
papiro di Dongo di Luciano Canfora).
A volte poi, la dittatura
entra in attrito con un potere censorio subalterno ma non privo di
peso, quello della Chiesa, che Mussolini, per ribadire la propria
supremazia, non manca di osteggiare ancora dopo i Patti Lateranensi.
Intanto, il duce conserva una certa indulgenza per la narrativa di
argomento erotico e anticlericale (in cui si era a suo tempo
cimentato, con L'amante del cardinale), ad esempio per i
romanzi di Pitigrilli e Guido da Verona, peraltro pervasi di una tale
verve irriverente (per inciso, degna di riscoperta) da infastidire i
fascisti stessi; e inoltre, asseconda testi più direttamente lesivi
dell'autorità vaticana, come il dramma storico di Sem Benelli
Caterina Sforza, di cui nel 1934 consente la rappresentazione,
nonostante le pressioni della Santa Sede. Un episodio, quest'ultimo,
in cui spicca soprattutto la reazione dell'«Osservatore romano»,
che attacca Benelli anche per le sue presunte origini ebraiche, e
alla smentita di questi replica con l'agghiacciante stoccata «Non
giudeo. Ma Giuda»: un esempio di quel pervicace antisemitismo di
matrice cattolica, solida piattaforma per l'antisemitismo imposto di
lì a poco dalle leggi razziali, vergogna dolorosa della nostra
storia, che a tutt'oggi ci si ostina a rimuovere.
Se il generale panorama
di oppressione e conformismo è dunque punteggiato da frizioni e
tentennamenti vari, sono invece rari, e per questo più toccanti, gli
atteggiamenti che lo infrangono davvero. Atteggiamenti di tipo
differente, come mostrano gli esempi menzionati dal libro: la
protesta ardente e presto stritolata, di Gobetti; il dissenso
sommesso e impavido del drammaturgo Roberto Bracco, altro firmatario
del manifesto crociano, che ha sempre più difficoltà a portare in
scena le sue opere, si ritrova isolato e povero, ma rifiuta (peraltro
con toni garbatissimi) la sovvenzione che il governo, dietro
intercessione dell'attrice Emma Gramatica, si decide a elargirgli; e
la costante opposizione appunto di Croce, che tra l'altro, come
Bonsaver ricorda, appoggia risolutamente Laterza contro la censura
sugli autori ebrei.
Un'opposizione, quella di
Croce, poi tanto discussa, perché non abbastanza tempestiva, non
abbastanza eroica, non abbastanza lucida sulla natura del fascismo;
ma di fatto capace di resistere fermamente a un ostracismo duro quasi
quanto la censura diretta, cioè a uno stato che, in una lettera a
Vossler del 1936, il filosofo definisce «quasi di reclusione o di
esclusione» (aggiungendo:«In Italia il mio libro sulla Poesia ha
avuto solo un articolo, nel quale si dichiara che il libro non val
nulla e potevo far di meno di scriverlo»). Chissà se alcuni degli
intellettuali di oggi - quelli che non esitano a pubblicare con case
editrici che disprezzano, a scrivere su giornali asserviti e a
gareggiare per premi screditati - sarebbero in grado di fare
altrettanto.
“il manifesto”, ALIAS
DOMENICA 12 MAGGIO 2013
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