15.11.17

Letteratura, dissenso, ipocrisia: il censore Mussolini. Un libro di Guido Bonsaver (Clotilde Bertoni)

Pare che Mussolini, incontrando Matilde Serao, che aveva aderito al manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce e Amendola, provasse a blandirla chiedendole cosa le sarebbe costato essere fascista almeno un po'. Se Serao morì poi nel 1927, troppo presto per prendere una posizione definitiva, si sa bene che a moltissimi altri scrittori essere un po' e anche parecchio fascisti non costò niente. E si sa pure che il loro assoggettamento era importante per il dittatore, già giornalista e (almeno nelle aspirazioni) uomo di cultura, tendente - osserva Sciascia nel Teatro della memoria -a governare l'Italia «come un redattore-capo»: attento dunque oltre che a filtrare o snaturare le notizie - a imbrigliare le voci autorevoli, fagocitando la classe intellettuale esistente, formandone una nuova, e controllando tutti i canali di espressione, dalle accademie alla stampa, dal teatro alla produzione libraria. È su questo versante che si concentra Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia (Laterza) di Guido Bonsaver (già autore di uno studio in inglese sullo stesso argomento, qui ripreso e ampliato). Una vasta inquadratura, che ripercorre tappe diverse della dittatura, celebri o dimenticate: dai sequestri di volumi ordinati attraverso le prefetture, alla creazione del Ministero della Stampa e della Propaganda (divenuto nel 1937 il famigerato Minculpop); dall'intervento di Mussolini, nel 1934, per bloccare l'uscita del romanzo di MariaVolpi Sambadù, amore negro (storia di amore interrazziale inaccettabile alle soglie della guerra d'Etiopia), alla sua disapprovazione, nello stesso anno, per La favola del figlio cambiato, opera lirica di Malipiero e Pirandello (sostenitore del regime ma ugualmente incline a una visione sconsacrante del potere); dalle delibere della Commissione di bonifica libraria - destinata a espungere dai cataloghi tutte le opere di autori ebrei e di contenuto antifascista alle ripercussioni delle leggi antisemite (che costringono all'esilio la Margherita Sarfatti già regista della politica culturale del fascismo, e inducono al suicidio un editore di gran talento, Angelo Fortunato Formiggini).
Oltre a richiamarsi a studi precedenti (specie quelli di Philip Cannistraro e Giorgio Fabre), il libro fa leva su approfondite ricerche d'archivio; e se ogni tanto eccede in sintesi, e incorre in una svista (è impossibile che le modifiche al radiodramma Come tu mi vuoi, tratto nel 1941 dall'omonima pièce pirandelliana, siano state chieste a Pirandello stesso, scomparso nel 1936), riesce a illuminare efficacemente sia la lunga durata della censura, sia la quantità di mediazioni, incertezze, cambi di rotta che ne agitano il corso.
Innanzitutto, l'asservimento della cultura è tutt'altro che omogeneo, segnato da compromessi, oscillazioni, metamorfosi: il passaggio dell'inizialmente schieratissimo Brancati (che consulta Mussolini sul finale del dramma encomiastico Piave) a tematiche più originali e posizioni più defilate; l'atteggiamento provocatorio e antiborghese, non gradito al fascismo più ortodosso, di scrittori cresciuti all'ombra del regime, che vanno poi in direzioni ben diverse, come Berto Ricci, Bilenchi e Vittorini; l'indipendenza un po' malferma di Moravia, sospettato di antifascismo, ma capace, per proseguire la collaborazione con «La Gazzetta del popolo»,di indirizzare a Mussolini due proteste di devozione; le acrobazie dei grandi editori, che portano avanti una produzione di alto livello mediante infinite concessioni e trattative(i mutamenti alla leggendaria antologia Americana accettati da Bompiani, le insistenze di Mondadori per pubblicare Remarque e Steinbeck, la sua spontanea rinunzia a dare alle stampe Les Thibault di Martin du Gard), e persino sbalorditive genuflessioni (la lettera in cui Bompiani ringrazia per l'«ambitissimo dono» di una foto con dedica del duce).
D'altra parte, la stessa intolleranza del governo può occasionalmente allentarsi o contraddirsi. A volte si tratta di intoppi pratici o direttive contrastanti: la circolazione dei romanzi di Moravia è a più riprese arrestata, nuovamente permessa, nuovamente impedita; Conversazione in Sicilia di Vittorini è al principio, malgrado il suo potenziale eversivo, elogiato anche dalla stampa di più marcato orientamento fascista, ma poi, nel 1942, stroncato da un feroce pezzo anonimo comparso sul «Popolo d'Italia», secondo Bonsaver probabilmente opera di un collaboratore assiduo del giornale, il fascistissimo classicista Goffredo Coppola (al centro di un altro rilevante libro sui rapporti tra cultura e regime, Il papiro di Dongo di Luciano Canfora).
A volte poi, la dittatura entra in attrito con un potere censorio subalterno ma non privo di peso, quello della Chiesa, che Mussolini, per ribadire la propria supremazia, non manca di osteggiare ancora dopo i Patti Lateranensi. Intanto, il duce conserva una certa indulgenza per la narrativa di argomento erotico e anticlericale (in cui si era a suo tempo cimentato, con L'amante del cardinale), ad esempio per i romanzi di Pitigrilli e Guido da Verona, peraltro pervasi di una tale verve irriverente (per inciso, degna di riscoperta) da infastidire i fascisti stessi; e inoltre, asseconda testi più direttamente lesivi dell'autorità vaticana, come il dramma storico di Sem Benelli Caterina Sforza, di cui nel 1934 consente la rappresentazione, nonostante le pressioni della Santa Sede. Un episodio, quest'ultimo, in cui spicca soprattutto la reazione dell'«Osservatore romano», che attacca Benelli anche per le sue presunte origini ebraiche, e alla smentita di questi replica con l'agghiacciante stoccata «Non giudeo. Ma Giuda»: un esempio di quel pervicace antisemitismo di matrice cattolica, solida piattaforma per l'antisemitismo imposto di lì a poco dalle leggi razziali, vergogna dolorosa della nostra storia, che a tutt'oggi ci si ostina a rimuovere.
Se il generale panorama di oppressione e conformismo è dunque punteggiato da frizioni e tentennamenti vari, sono invece rari, e per questo più toccanti, gli atteggiamenti che lo infrangono davvero. Atteggiamenti di tipo differente, come mostrano gli esempi menzionati dal libro: la protesta ardente e presto stritolata, di Gobetti; il dissenso sommesso e impavido del drammaturgo Roberto Bracco, altro firmatario del manifesto crociano, che ha sempre più difficoltà a portare in scena le sue opere, si ritrova isolato e povero, ma rifiuta (peraltro con toni garbatissimi) la sovvenzione che il governo, dietro intercessione dell'attrice Emma Gramatica, si decide a elargirgli; e la costante opposizione appunto di Croce, che tra l'altro, come Bonsaver ricorda, appoggia risolutamente Laterza contro la censura sugli autori ebrei.
Un'opposizione, quella di Croce, poi tanto discussa, perché non abbastanza tempestiva, non abbastanza eroica, non abbastanza lucida sulla natura del fascismo; ma di fatto capace di resistere fermamente a un ostracismo duro quasi quanto la censura diretta, cioè a uno stato che, in una lettera a Vossler del 1936, il filosofo definisce «quasi di reclusione o di esclusione» (aggiungendo:«In Italia il mio libro sulla Poesia ha avuto solo un articolo, nel quale si dichiara che il libro non val nulla e potevo far di meno di scriverlo»). Chissà se alcuni degli intellettuali di oggi - quelli che non esitano a pubblicare con case editrici che disprezzano, a scrivere su giornali asserviti e a gareggiare per premi screditati - sarebbero in grado di fare altrettanto.


“il manifesto”, ALIAS DOMENICA 12 MAGGIO 2013

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