Una domenica di novembre,
nel 1989, a pochi giorni dalla “svolta della Bolognina”, con cui
Occhetto proponeva al Pci di trasformarsi in un nuovo partito,
abbandonando il nome di “comunista” e il simbolo della falce e
martello, “il manifesto”, che si definiva “quotidiano
comunista” dedicò al tema un'ampia sezione del quotidiano
intitolata Finale di partito.
Vi si potevano leggere un colloquio con Achille Occhetto, un
intervento critico di Gavino Angius, dirigente di partito, servizi
sullo stato del Pci, sulla federazione giovanile, sui rapporti con la
questione femminile. Ma il pezzo forte, l'unica cosa che secondo me
dura, era un articolo di Cesare Luporini, il filosofo, cui la
redazione aveva chiesto qualche riflessione sul buon uso della
parola «comunismo», usata oggi ugualmente come «utopia d’una
società altra» e come esperienza storica del «socialismo reale».
Ne ripropongo un ampio stralcio. (S.L.L.)
[…] Le interpretazioni
sistemiche di quelle società mi sembra che mostrino il loro
fallimento. La scossa è mondiale perché si trasforma completamente
uno dei poli su cui si è retto l’equilibrio antagonistico del
mondo per quasi mezzo secolo, dopo la guerra.
La questione del
comunismo, in senso proprio, si pone su un altro livello, non
foss’altro per un semplice motivo: che nessuno di quei regimi ha
mai preteso all’esistenza in atto di un «comunismo reale».
Nessuno di quei partiti monocratici e monolitici, che si chiamano o
si chiamavano comunisti, ha mai presunto tanto; essi hanno solo
preteso di essere su quella strada, molto ideologicamente, attraverso
un sistema dogmatico artificioso (e imposto) detto
«marxismo-leninismo», che è stato travolto anch’esso. E speriamo
che se ne prenda atto fino in fondo e al più presto. L’espressione
«comunismo reale», che pure è stata adoperata in Italia, proprio
nel mio partito, è, a mio parere, una mistificazione concettuale.
Ora tutte le questioni
anche teoriche di socialismo e comunismo sono riaperte, ma non sono
ingabbiabili, mi pare, in semplici schemi liberal-democratici. Già
lo stesso compattarsi di questi due termini, nel secolo scorso
oppositivi, intendo «liberalismo» e «democrazia», è una
ideologizzazione - e se vuoi una teorizzazione - non avvenuta per
caso, ma sotto la spinta antagonistica e motivata di grandi movimenti
sociali, e in primo luogo del movimento operaio, delle sue formazioni
di classe politiche e sindacali. Non è qui il luogo di rifarne la
storia, prima e dopo la rivoluzione di ottobre, anche se sarà
necessario rivederla a partire dalla situazione attuale, ivi comprese
le due guerre mondiali, che hanno pur qualcosa a che fare col
capitalismo.
Comunismo è un concetto
teorico (molto più chiaro che non «socialismo», a mio parere) che
certo preesisteva a Marx, ma che ha trovato in Marx un radicamento
storico in quella che per lui era la forza sociale del cambiamento
rivoluzionario, e cioè nella classe dei salariati, interni e insieme
antagonistici al modo di produzione capitalistico. Comunismo in
questo senso non è soltanto «movimento reale» (espressione dello
stesso Marx), ma è un orizzonte di libertà e di liberazione
(«libero sviluppo di ognuno» come «condizione del libero sviluppo
di tutti») che con qualche difficoltà (ma non voglio fare questione
di parole) chiamerei «utopia», proprio perché aderisco alla
richiesta marxiana di radicamento storico, appunto, in forze e
movimenti sociali da liberare («come sia empiricamente possibile il
comunismo», si chiedeva Marx).
Se guardo non solo ai
paesi sviluppati, ma a tutto il genere umano che è ormai un insieme
reale di parti comunque interdipendenti, se guardo ai suoi conflitti
tragici, alle lotte di liberazione, alla gerarchia delle potenze, e
infine alle minacce che nascono dal mondo industrializzato e che
gravano in comune sulla sopravvivenza della vita in terra, mi pare
che l’orizzonte del comunismo nonché scomparire si sia
straordinariamente allargato e si siano moltiplicate le sue radici
sociali ed etniche possibili. Marx da scienziato (oltre che
rivoluzionario) dell’800 era mentalmente dominato dalla categoria
della «necessità», che si è dissolta, o quasi, anche nelle
scienze naturali, oggi. Così egli tendeva a vedere come «necessità»
il passaggio dal capitalismo al comunismo, quasi fossero due fasi
storiche di un unico sistema dinamico. Oggi, lo dobbiamo vedere
invece come potenzialità e possibilità, cioè in questa diversa
dimensione categoriale.
Ma perché dovremmo
compiere questa opzione? Forse che il capitalismo, il libero mercato,
il consumismo conseguente e magari le relative «alienazioni», non
ci si addicono, purché siano abbastanza garantiti sistemi politici
democratici e di controllo degli abusi? Detto in parole povere questo
mi sembra il nodo ultimo della questione. Certo vi è chi rimane
fuori, è «emarginato»: una buona fetta della società. Ma Marx
stesso diceva che una società sviluppata (capitalisticamente)
troverà sempre il modo di assistere i suoi poveri... e quanto alla
miseria spirituale, oggi provvedono i media a camuffarla,
quotidianamente.
Che cosa impedisce allora
di rinunciare a quell’orizzonte del comunismo? E rinunciare cioè a
una critica radicale dell’esistente? Ebbene, a me sembra che la
risposta stia proprio in qualcosa di assolutamente nuovo, e non di
vecchio, l’unificazione di fatto del genere umano - pur tanto
diviso conflittualmente tra culture, civiltà, morali, religioni ed
etnie diverse - non solo nelle interdipendenze accennate, ancora
cariche di effetti di dominio e di subalternità spesso tragici, ma
unificazione, ripeto, di fatto, di fronte a ciò che minaccia la vita
biologica almeno ai suoi livelli superiori, sul pianeta (quindi al di
là della stessa questione «guerra-pace»).
C’entra qualcosa col
comunismo, in tale senso allargato? A me pare di sì. Per una ragione
molto semplice. Perché è impensabile l’estensione a tutto il
genere umano del capitalismo sviluppato, con i consumi e le
dilapidazioni energetiche che esso comporta. Qui vi è un limite e
una qualità di esso che Marx non era in grado di prevedere, almeno
nelle dimensioni attuali.
Ci sono in Marx due
concetti di dominio e anche sfruttamento: uno da promuovere, l’altro
da rimuovere. Il primo è il cosiddetto dominio dell’uomo sulla
natura; il secondo è quello che egli chiamava «seconda natura», e
cioè le «potenze estranee» (stando al suo linguaggio) prodotto
dagli uomini stessi nella loro prassi di reciproca cooperazione, che
dà luogo ai rapporti di dominio e subordinazione fra gruppi sociali
e anche fra popoli. La storia tragica di questo secolo almeno una
cosa ci ha insegnato: che restando intatta la spinta alla prima forma
di dominio, non si cancella neppure la seconda. Non si può più
accettare - pena la catastrofe - uno sviluppo illimitato dello
sfruttamento dalla natura, eredità del capitalismo nella
tradizionale ideologia e pratica comunista (e socialista).
Dove siamo storicamente e
geograficamente collocati, certo dobbiamo operare ancora nel sistema
capitalistico e all'interno dei congegni auto-regolativi che esso ha
saputo mettere in opera fin qui, insieme ad altre tecniche per
superare e controllare le proprie crisi, ma lottando contro i
maggiori abusi e per forme sempre più democratiche di convivenza. Ma
guai se perdiamo di vista quell'orizzonte totale, cioè
universalmente umano, che mette in evidenza anche i limiti intrinseci
al sistema, perché condizionati dal suo scopo immanente,
l’accumulazione del capitale, cioè dal suo equilibrio dinamico.
Mantenere l’orizzonte del comunismo significa appunto questo.
Ma gli orizzonti sono
mobili, si spostano; e i soggetti coinvolti si sono moltiplicati in
parte potenzialmente, in parte già di fatto. Non più soltanto la
classe operaia e i suoi «alleati», come si diceva una volta, anche
se la questione del lavoro e di ciò che esso valorizza rimane
centrale, con tutte le modifiche però introdotte dalla rivoluzione
informatica. Ma si tratta anche di altro.
Nella famosa proposizione
marxiana «l’associazione in cui il libero sviluppo di ognuno è
condizione del libero sviluppo di tutti» (e non viceversa: cioè no
a un collettivismo totalitaristico), ogni termine è problematico, lo
sappiamo bene. Meno due (apparentemente), lo «ognuno» e il «tutti»,
in quanto sono pure categorie logiche. Ebbene non è più così.
Anche lo «ognuno» si è differenziato. La rivoluzione delle donne
ha giustamente rivendicato la differenza sessuale come elemento di
non-neutralità irrinunciabile per una qualsiasi ricomposizione dei
«tutti». Anche questa modificazione fa parte integrante ormai di
quell'orizzonte mobile del comunismo che, a mio parere, non è
questione morale ma direttamente politica. Perché le morali come le
religioni ci dividono (nessuna è universale), ma la politica ci può
riunire, su una scala universalmente umana. Se lo si voglia;
responsabilmente e comunitariamente, e senza nascondersi le
difficoltà da superare, ma prima che altre catastrofi
sopraggiungano, se non è troppo tardi (poiché è lecito
chiederselo). Non è una questione di potere e tantomeno di «potenze
estranee». È piuttosto la grande questione del consenso, di cui
parlava Gramsci, su cui hanno fatto naufragio i «socialismi reali».
Naturalmente parlo di una
politica riformata, sostanziata di democrazia, sovrannazionale,
portatrice di nuovi modi di convivenza fra diversi (e quindi essa
stessa fondatrice di morale) per la quale vale la pena impegnarsi e
combattere. Ed è una politica che, per definizione, non può essere
lasciata ai soli «politici».
"il manifesto", 19 novembre 1989
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