La morte di Vittorini ha
indotto la critica a bruciare le tappe: nel giro dei nove anni
intercorsi tra il febbraio 1966 e oggi, si è registrato circa un
terzo della intera bibliografia critica vittoriniana (aperta nel
lontano 1927), con saggi critici, analisi filologiche e
testimonianze, raccolti anche in numeri monografici di rivista
(ultimo, quello del Ponte 1973, organizzato da Guarnieri). Senza
contare, poi, le ristampe e nuove edizioni e pubblicazioni postume,
che rispecchiano fra l’altro un crescente interesse soprattutto da
parte dei lettori giovani (dentro e fuori delle istituzioni
universitarie).
Eppure, ancora fino a
pochi mesi fa, si poteva lamentare la mancanza di una soddisfacente
edizione delle opere e di una ordinata cronologia delle carte, edite
e inedite. Le edizioni postume, in particolare, avevano seguito un
andamento piuttosto casuale, segnando anche squilibri vistosi, se si
confrontano (come estremi emblematici) la raffinata filologia che
presiede alle Due tensioni (1967), e l’inerzia e piattezza
editoriale che caratterizza la seconda edizione del Diario in
pubblico (1970): una mera ristampa del testo precedente, senza
nessun apparato critico o filologico, senza nessun indice dei nomi, e
senza neppure l’indice ragionato di Vittorini alla prima edizione
del 1957 (unica novità, l’«Appendice», comprendente le aggiunte
all’edizione francese del 1961 e gli scritti e interventi del
1961-65).
Grande merito va perciò
ai due volumi delle Opere narrative vittoriniane, nei
Meridiani di Mondadori (1974, Pagg. 1248, 1011, L. 8.000 ciascuno):
la collezione diretta da Giansiro Ferrata, che di Vittorini fu sempre
affezionato amico e attento lettore, dal primo scritto su “Solaria”
(1930) alle introduzioni per due recenti Oscar (Il garofano rosso
e Uomini e no, 1973). L’edizione dei Meridiani (a cura e con
prefazione di Maria Corti, e con apparati cronologici, filologici e
bibliografici di Raffaella Rodondi, ordinatrice del Fondo
vittoriniano) rappresenta il risultato di un accuratissimo lavoro,
che fra l’altro ricostruisce intorno a ogni testo, riprodotto nella
sua redazione finale, una fitta rete di informazioni sulle varie
redazioni e varianti, quali risultano dal materiale manoscritto o a
stampa, e sulle relative motivazioni dello scrittore; per non dire
poi della presenza dei testi inediti e rari (Giochi di ragazzi
e Il barbiere di Carlo Marx, ad esempio).
Ma l’edizione
mondadoriana (dalla prefazione della Corti fino alla bibliografia
raccolta dalla Rodondi), insieme ad alcuni saggi recenti, e insieme a
una rassegna di Franco Fortini (circolante ancora in estratto, e
destinata al prossimo volume III dei Classici italiani nella
storia della critica, curati da Walter Binni per La Nuova
Italia), offrono anche l’occasione per un ripensamento complessivo
della «fortuna» critica di Vittorini, dagli anni trenta a oggi (e
non soltanto, naturalmente, del Vittorini narratore, ma anche
dell’intellettuale e saggista e organizzatore e produttore di
cultura nel senso più vasto), e per alcune indicazioni di
prospettiva.
A grandi linee, dunque (e
senza la minima pretesa, certo, di dare il panorama completo delle
varie posizioni), si possono distinguere tre fasi fondamentali nello
sviluppo della critica vittoriniana: fasi più problematiche che
cronologiche, come si vedrà.
La prima venne aperta
sostanzialmente dai giudizi di Solmi (1932) su Piccola borghesia,
e di Pancrazi (1941) su Conversazione in Sicilia, che
indicavano rispettivamente nel «lirismo fantastico e tenero» e nel
«realismo lirico», due momenti fondamentali del procedimento
narrativo vittoriniano (e sarà anche da ricordare il richiamo di
Solmi alle ascendenze di Proust e Joyce). Ma ci fu chi, come Pintor
(1941 e 1943), guardando al lavoro complessivo di Vittorini allora
(da Conversazione ad Americana) seppe cogliere anche la
carica di attiva rottura e di alternativa ideale, che i motivi del
«mondo offeso» e dei «nuovi doveri», la denuncia del
«trabocchetto dei ’’valori spirituali”» e la costruzione del
«mito americano», portavano nel contesto della cultura e
letteratura del periodo fascista. E questa carica sarà sottolineata,
in modo diverso, da successive testimonianze di scrittori « più o
meno coevi »: Sereni (1966), fra gli altri.
A questa prima fase di
giudizi, che sottolineano in diverso modo l’originalità della
personalità vittoriniana e che fissano alcune formule «classiche»
della critica futura, ne segue una seconda, nella quale limitazioni e
durezze polemiche sono all’inizio assai diffuse. Si registra
anzitutto quella che Fortini definisce oggi la «vendetta» della
«letteratura del ventennio» contro il transfuga, uscito
vittoriosamente dal noviziato « rondesco » e « solariano ».
Emilio Cecchi (1949), in nome dei diritti traditi della «poesia»,
criticava severamente lo sperimentalismo e avanguardismo
«disordinato» e «artificioso» e «impuro» di Vittorini (che
aveva pubblicato, oltre a Conversazione in Sicilia, Uomini
e no e Le donne di Messina). Nello stesso periodo, al
contrario, Fortini sottolineava positivamente, nel Garofano rosso,
proprio la capacità di «rischio», da parte di Vittorini, fuori
dall’alveo sicuro della sua formazione letteraria originaria (ma
del Fortini 1973 si veda anche il recupero critico del saggio
dedicato da Noventa a Uomini e no, nel 1946: in Saggi
italiani, De Donato, 1974).
Più complessa l’opposizione che verso Vittorini e “Il Politecnico” verrà maturando dall’immediato dopoguerra, in campo marxista (e comunista, in particolare), nel quadro del dibattito sui rapporti tra politica e cultura, partito e intellettuali, rivoluzione e letteratura, eccetera. L’accusa di «intellettualismo» e «astrattezza» e distacco dai «problemi concreti delle grandi masse popolari», mossa da Alicata (1946), e le critiche della Lettera di Togliatti (1946) all’errata «distinzione» tra politica e cultura, alla «ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente» e alla «generica irrequietezza», troveranno ulteriori sviluppi nella critica dedicata all’opera narrativa e saggistica vittoriniana, e alla collana dei Gettoni. «Decadentismo» sopravvivente, «astrazione» nei confronti della «storia», «incanto letterario» autosufficiente, «moralismo» e «umanitarismo» e «libertarismo» di estrazione «piccolo-borghese», «disponibilità» sperimentale e avanguardistica, saranno alcuni dei motivi ricorrenti in critici per altri aspetti diversamente orientati: da Gallo (1950, 1953) a Salinari (1958). Consonante, invece, con l’istanza di una presa di coscienza della crisi borghese e con l’idea di una responsabilità autonomamente politica della cultura, in Vittorini e nel “Politecnico”, sarà Rago (1967), sempre molto vicino al lavoro vittoriniano.
Ma in generale, alla
ricca bibliografia sul “Politecnico” (di cui si sono registrate
qui solo alcune voci tra le più significative), corrisponde
un’attenzione molto più scarsa verso le altre attività del
Vittorini organizzatore di cultura. Tanto più indicative di una
istanza extraletteraria non estrinseca, sono perciò i due saggi
dedicati da “Officina” ai Gettoni (Leonetti e Roversi, 1955) e al
problema dell’«impegno» vittoriniano, da Americana al
“Politecnico” a Diario in pubblico (Scalia, 1958): con un
notevole sforzo, in entrambi i casi, di individuazione del
contraddittorio intreccio di momenti attivi e passivi
nell’intellettuale Vittorini.
Anche per quanto riguarda
le altre riviste a cui Vittorini collaborò o che egli diresse, si
registrano vuoti e pieni, solo in parte spiegabili con ragioni
storiche: molto più indagato, naturalmente, ii momento solariano (a
cominciare dal fortunato studio di Luti, Cronache letterarie tra
le due guerre 1920-1940, 1966; seconda edizione, 1972), rispetto
al momento del “Menabò”, che ha risentito probabilmente della
«caduta» della nuova avanguardia e che attende ancora una
valutazione storico-critica complessiva. Tra gli interventi più o
meno contemporanei, che si riferiscono al discorso «scientifico» e
«industriale» di Vittorini, va comunque ricordato quello di Calvino
(1967), che porta l’attenzione — più in generale — sulla sua
nozione di «progetto» e sulla sua tensione di «fondatore» di
cultura e di «riformatore letterario», dal “Politecnico”
all’«opera-manifesto» Conversazione, dai Gettoni a Diario
in pubblico al “Menabò” appunto.
A questa critica, ben
attenta — sia pure talora da opposti punti di vista — al
Vittorini saggista e ideologo e organizzatore di cultura, o comunque
alle istanze ideologiche e politiche del Vittorini scrittore, si vien
contrapponendo negli anni cinquanta e sessanta una critica più o
meno esplicitamente intesa a privilegiare il narratore e il
prosatore, svalutando (o emarginando o riassorbendo in esso) tutto il
resto. È — questo secondo, appunto — un discorso che va da
Pampa-Ioni (1949, 1950 e 1969) a Debenedetti (1967) alla Bianconi
Bernardi (1967) alla Corti (1974) ad altri studi (tra i quali anche
la prima monografia vittoriniana, di Pautasso, 1967), e che conta —
pur con il limite detto — contributi importanti.
Ne deriva tra l’altro
complessivamente (sia pur con varianti individuali) l’indicazione
di una linea maggiore dell’opera vittoriniana, comprendente
Conversazione, Il Sempione, La garibaldina, le
prime cento pagine delle Città del mondo, e di una linea
decisamente minore, emblematizzata in Uomini e no e nelle
Donne di Messina. Si preferiscono cioè le opere o le parti in
cui si realizzerebbe pienamente la tensione lirico-mitica di pochi
temi essenziali, l’eleganza formale, l’istintiva unità di poesia
e prosa, moralità e lirismo, realta e simbolo, a quelle che
sarebbero irrimediabilmente compromesse dalla compresenza irrisolta
di piani diversi, dall’«oltranza volontaristica, sperimentale»,
dall’«eccesso di intenzionalità ideologica », eccetera.
I due recenti volumi
mondadoriani rientrano sostanzialmente in questa tendenza, a
cominciare dalla stessa scelta esclusiva delle «opere narrative».
Ma essi vi portano anche un contributo per molti versi originale. La
Corti rinnova in più punti — al suo interno — la suddetta
impostazione delle linee maggiore e minore della narrativa
vittoriniana, con una larga messe di notazioni particolari, e con una
modifica sostanziale: il ridotto rilievo di Conversazione in
Sicilia e l’emergenza delle Città del mondo («il suo
più bel romanzo», una «struttura composita» unificata nel segno
dell’«utopia»).
Uno dei punti
qualificanti della sua metodologia è certamente nella ricerca di
sottili relazioni tra le «sollecitazioni di un contesto
socio-politico» e le motivazioni alla «strutturazione» di un
testo, e in particolare tra crisi biografiche e crisi stilistiche. In
questo senso la Corti riesamina con intelligenza e rigore: il periodo
forse meno noto di Vittorini, relativo agli scritti degli anni
1926-29; i periodi che segnano il passaggio dal Garofano a
Conversazione, e dalla Garibaldina alle Città del
mondo; e infine quello della crisi ideologico-politica successiva
al 1956. C’è altresì, in generale, un rapporto stretto tra la
prefazione della stessa Corti e l’impostazione del lavoro in ogni
sua parte. Largamente funzionali all’attenzione che la Corti presta
a questi periodi, sono per esempio le note ai testi della Rodondi, e
— per quanto riguarda l’ultimo periodo, in particolare — il suo
sforzo, nella cronologia biografica, inteso a «riempire» gli anni
del cosiddetto «silenzio» vittoriniano: anche se ne risulta alla
fine una certa sproporzione tra le diffuse notizie sulle prese di
posizione «social-liberali» e «revisioniste» vittoriniane negli
anni cinquanta, e i più scarni dati sulle sue precedenti fasi, da
quella giovanile (con qualche pudore, fra l’altro, per la sua
esperienza di «fascista di sinistra», che non appare giustificato,
essendo questo — ben al di là della biografia — un problema di
oggettivo rilievo storico-critico), dalla fase giovanile dunque a
quella antifascista e comunista.
La Corti, in sostanza,
compie un lavoro assai interessante per riallacciare lo sviluppo
stilistico di Vittorini al suo iter biografico; ma non arriva a
rompere (né se lo propone, del resto) l’impostazione letteraria
che si diceva. Viene praticamente ignorato, infatti, l’organizzatore
di cultura, e non viene dato rilievo alle prose saggistiche,
critiche, polemiche; nei casi in cui si considera il Vittorini altro
(«politica e cultura», Le due tensioni, eccetera), lo si fa
essenzialmente per funzionalizzarlo alle sue scelte di poetica e di
stile. In questo quadro si spiega anche la «riduzione» di
Conversazione in Sicilia: una volta considerata
l’«interruzione» che prelude alla sua «nascita» come un fatto
endogeno al lavoro letterario di Vittorini («anche se riceve il
proprio statuto cronologico dalla realtà esterna»: la guerra di
Spagna), e una volta ricondotte le istanze vittoriniane a una pura
«ricerca di svolta stilistica», Conversazione si trova ad
essere oggettivamente privata di tutto il suo complesso e ricco
intreccio di motivi extraletterari, intimamente presenti nello
specifico della sua pagina, e può quindi cedere più facilmente il
passo alle Città del mondo. Dove si verifica appunto il
limite letterario di partenza di cui si diceva, nonostante
contributi particolari spesso illuminanti.
Ma già negli anni
sessanta, i sostenitori (istituzionali o meno) di una ricerca
neosperimentale e neoavanguardistica avevano praticamente rovesciato
l’impostazione suddetta (inaugurando così la terza e ultima fase
della critica vittoriniana). Ecco allora una diversa lettura di
Conversazione in Sicilia, ecco il vivo interesse per Uomini
e no e per Le donne di Messina, nel segno di «a book in
progress» (come scriveva Vittorini stesso fin dal 1949 a un amico
americano, riferendosi al secondo), ecco la consonanza con la
problematica « sperimentale » e « industriale » del Menabò e
delle Due tensioni (che avevano caratterizzato, del resto, il momento
del maggior interesse vittoriniano per la nuova avanguardia).
Si potranno ricordare
qui, tra i molti scritti, l’introduzione di Sanguineti a
Conversazione (1966), definito «l’unico testo esemplare che
la generazione dei padri ha lasciato, come opera aperta, alla nostra
generazione letteraria»; e, di Guido Guglielmi, le analisi della
«novità ideologica e stilistica» delle Donne di Messina
(1965), e l’inquadramento di Uomini e no nella ricerca
vittoriniana di un diverso « rapporto con il quotidiano »,
attraverso la trasformazione dell’«occasione in simbolo»,
attraverso la scomposizione dell’«aneddoto» per «cavarne una
figura allegorica», «per cui anche Uomini e no è, almeno in
parte, un libro non occasionale sulla Resistenza » (1967).
Ma anche cosi tutto il
discorso rimane o viene ricondotto pur sempre dentro l’opera
letteraria di Vittorini, in modo più o meno esclusivo. L’attenzione
verrà portata nuovamente sul curriculum intellettuale e
ideologico-politico vittoriniano, come capitolo della vicenda dei
gruppi intellettuali italiani negli anni trenta, da una serie di
studi della cosiddetta « nuova sinistra », aperti da Asor Rosa con
il suo famoso libro Scrittori e popolo (1965), e con la sua
tesi — in particolare — di una sostanziale continuità dal
Vittorini «fascista di sinistra» al Vittorini antifascista, nel
solco del «populismo».
Su questa linea si è
mossa tra gli altri, con puntiglio filologico e originalità critica,
Anna Panicali, che (nel corso di una serie di studi usciti dal 1968
al 1974, e ristrutturati ora in un volume organico: Il primo
Vittorini, Celuc, 1974) ha esteso il discorso a tutte le
implicazioni ideologiche e linguistiche e stilistiche del primo e
primissimo Vittorini (dal 1926 alla «vigilia» di Conversazione),
in una stretta e concomitante analisi dei suoi scritti politici e
critici e letterari.
Per completare il quadro
fin qui descritto, bisognerà ricordare come, a scadenze regolari,
non siano mancate maldestre e interessate liquidazioni della
certamente scomoda personalità vittoriniana, da parte dei fogli
reazionari più o meno sordi e «silenziosi»: ora con argomentazioni
pretestuosamente letterarie, ora con attacchi piu brutali e scoperti.
Non poteva mancare, all’appuntamento dell’edizione mondadoriana,
un’operazione supponente e proterva come quella del Settimanale di
Rusconi, nella quale si sono fatti coinvolgere purtroppo anche
affermati vittorinisti.
Quali conclusioni trarre,
da questa sommaria ricostruzione della « fortuna » vittoriniana?
Nella sua rassegna già citata Fortini — riferendosi alle due
tendenze critiche, quella ideologica e quella letteraria, facenti
capo oggi rispettivamente alla Panicali e alla Corti — scrive: «
Tanto fra i primi quanto fra i secondi si avverte (...) una sorta di
iniziale diffidenza o antipatia per il loro oggetto: nei primi
echeggiano i severi giudizi ideologici e politici che la figura
complessiva dello scrittore siciliano ebbe a provocare in vita, da
parte marxista come da parte conservatrice. Nei secondi, si favorisce
una sua riduzione alla vivacità febbrile del barocco, ad un
manierismo elegantissimo, alla vaga categoria dell’utopico ».
Ora, Fortini qui coglie
assai bene, prima ancora che un atteggiamento delle due tendenze
indicate, un certo tono circolante in molta critica (e contraddetto
solo apparentemente dal dominante « mito » di Vittorini): quasi un
intimo sconcerto e sottile disagio ancor oggi, di fronte a una
personalità così articolata e complessa e inafferrabile (la Corti
parla di «moto anguillare»), tanto da dover procedere, spesso,
attraverso parzializzazioni ideologiche o letterarie. Ma nell’insieme
delle sue conclusioni Fortini, restando un po’ troppo fedele ai
limiti istituzionali della «rassegna», non va oltre la denuncia di
una insufficienza critica (stabilendo fra l’altro una troppo
sommaria continuità tra Emilio Cecchi, la critica marxista degli
anni cinquanta e la « nuova sinistra », sulla base di una istanza
antisperimentale e antidecadente, che rappresenta un’« analogia »
meramente letteraria, e che al suo fondo si presenta in realtà con
segni volta a volta diversi se non opposti), e traccia un programma
sostanzialmente tecnico di futuri « compiti » per la critica: «
lavorare con meno esclusivi strumenti »; « chiarire zone ancora
imprecisate della formazione intellettuale e letteraria dello
scrittore siciliano, della sua figura di organizzatore culturale, di
traduttore e di teorico della letteratura »; «estendere l’indagine
a livello linguistico », anche in rapporto alla raffigurazione della
«psicologia letteraria dello scrittore» e dei «suoi miti
personali»; approfondire «la complessa tradizione letteraria
assunta da Vittorini»; eccetera (cui si potrebbe aggiungere la
necessità di edizioni complete e rigorose per molta produzione
extranarrativa di Vittorini, a cominciare dall’epistolario,
praticamente inesistente).
Certo, sono queste lacune
o carenze (giustamente sottolineate da Fortini), che richiedono
ulteriori indagini e riflessioni. Ma l’illuminazione delle varie
attività e implicazioni e opere particolari, rimanda pur sempre a (e
va vista in funzione di) un problema fondamentale; quello di una
ricostruzione critica di ciò che lega tutti questi aspetti fra loro,
di ciò che fa del Vittorini dei romanzi e delle traduzioni, dei
saggi e delle antologie, delle interviste e delle lettere e delle
note autobiografiche (autocritiche), delle collane italiane e
straniere e delle riviste, insomma del Vittorini scrittore e teorico
della letteratura e ideologo e organizzatore di cultura e militante
politico e operatore all’interno dell’industria culturale, una
stessa figura di intellettuale tra i più originali e provocanti e
vivi del Novecento italiano. Un problema, questo, che è stato
sentito da molti: Calvino suggerisce sull’intero curriculum
vittoriniano ipotesi molto interessanti, nel saggio citato; Briosi si
propone consapevolmente un’analisi unitaria, nella sua monografia
(1970); e la stessa Corti parla di «simbiosi» tra «il Vittorini
narratore e l’altro». Ma alla fine, nonostante preziosi risultati
particolari, il nodo resta da sciogliere.
Nodo non facile,
Vittorini fu una singolare e complessa figura di letterato
antiletterato. Egli visse infatti con estrema acutezza tutte le
contraddizioni da cui l’istituto dell’intellettuale tradizionale
(di derivazione romantico-novecentesca) era profondamente
attraversato: autonomia e «impegno», letteratura e altro (politica
o scienza), pratica sociale e riflessione teorica, «creazione»
individuale e lavoro di équipe, opposizione politica e contestazione
letteraria, mediazione del consenso e professionalità tecnica,
critica al sistema e moderna funzione all’interno di esso
(l’industria culturale, in particolare); e ancora, più
specificamente, «fascismo di sinistra» e antifascismo, populismo e
letteratura di crisi, vitalismo ed empirismo, lirismo e realismo,
cultura borghese e marxismo, storia e mito, eccetera. In queste
contraddizioni Vittorini portò — pur tra difficoltà e confusioni,
involuzioni e cadute — una infaticabile insoddisfazione
autocritica, un incessante sforzo di verifica impietosa, una
folgorante capacità di perturbazione della «quiete» letteraria e
dell’«ordine» culturale, una coraggiosa spinta alla ricerca e
all’esperienza del nuovo su tutti i terreni della produzione
intellettuale (e forse è da cercare proprio qui, in questo suo
misurarsi senza remore con tutti i nodi fondamentali contemporanei,
in questo suo spericolato avanzare su terreni ignoti, la ragione del
diffuso interesse, soprattutto giovanile, recente).
La sua opera di narratore
e di saggista, perciò, e il suo lavoro di organizzatore e
«fondatore» di cultura, furono altrettanti modi concreti di vivere
quelle contraddizioni e altrettanti tentativi — condotti al più
alto livello — di superarle, e quindi anche superare i limiti
oggettivi di ciascuna di quelle esperienze, proprio praticandole
tutte: esperienze riconducibili poi — emblematicamente — alla
letteratura e al fare, come attività che in lui rimandavano
costantemente l’una all’altra, in una reciproca, mai conclusa,
ansia di integrazione dei rispettivi limiti appunto.
Vittorini dunque (come
pochi altri, davvero) sottopose l’istituto dell’intellettuale
tradizionale a tensioni fortissime, aprendovi crisi feconde. Chiarire
fino a che punto egli sia riuscito a spezzarlo (che vuol dire poi
chiarire fino a che punto egli abbia superato quelle contraddizioni e
quei limiti), può diventare allora il vero nodo da sciogliere.
“Rinascita”, 7
febbraio 1975
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