Quella tra Edoardo
Sanguineti e Fausto Curi è stata una delle amicizie letterarie più
salde e formidabili del Novecento italiano. Un’intesa pressoché
integrale, una consonanza virtuosa di idee e pratiche. Come in una
foto di qualche anno fa che ritraeva Walter Pedullà chino di fianco
a Elio Pagliarani (un’altra coppia eccezionale), mentre con una
candela illuminava la pagina da cui il poeta leggeva, il senso
critico e la capacità teorica di Curi hanno saputo rilevare al
meglio le pieghe dell’opera di Sanguineti, così come le pagine di
Sanguineti hanno stimolato e indotto al pari di poche altre le
risolutive conclusioni di Curi.
Ora quella amicizia –
tanto evidente nelle scritture dell’uno e dell’altro – ci viene
squadernata almeno in parte, grazie alla pubblicazione delle lettere
inviate dal poeta al «compagno» critico, lungo un arco di tempo che
va dall’ottobre 1964 al maggio 2010, ovvero dal primo anniversario
della fondazione del Gruppo 63 ai giorni immediatamente
precedenti la morte del poeta.
Certo, ci sono tanti
buchi, tra le missive, le cartoline, i biglietti raccolti e
commentati da Fausto Curi, dovuti soprattutto a periodi di maggiore
frequentazione e quindi alla minore necessità di aggiornarsi
reciprocamente per carta; ma anche questi lampi, più e meno
ravvicinati nei mesi e negli anni, ci permettono di intravedere con
suggestiva concretezza il farsi del lavoro poetico e il costruirsi
delle posizioni ideologiche, insieme a tutte le fatiche di una
sfaccettata attività letteraria perlopiù praticata tra molteplici e
gravosi impegni universitari, politici, famigliari.
Così come era capitato
in un precedente libro di Lettere dagli anni Cinquanta,
destinate quella volta a Luciano Anceschi (riunite da Niva Lorenzini
e pubblicate nel 2009 da De Ferrari), dove per esempio Sanguineti nel
gennaio 1959 esponeva un po’ a sorpresa, almeno a quell’altezza,
la necessità strategica di un lavoro collettivo sulle forme
romanzesche (lavoro che avrebbe affrontato di lì a poco sia come
autore che come critico), queste Lettere a un compagno marcano
alcune delle tappe fondamentali del percorso svolto dal poeta, tappe
di volta in volta segnalate pure dal sodale teorico. Per citarne
alcune: nella prima lettera del ’64, e riguardo alla vicinanza con
Enrico Baj (ma anche con il citato lavoro sul romanzo), «l’idea di
“nuova figurazione” come meta presente del mio lavoro», «perché
in fondo è vero, che per me, in questi ultimi anni, tutto il
problema era lì»; nel gennaio 1982, l’implicito rovesciamento
pubblico della dimensione privata della poesia che andava scrivendo
in quei mesi («è un po’ come la famosa storia dell’“esaurimento
nervoso” zanzottiano, e della mia correzione in “esaurimento
storico”; e così, adesso, “disperazione biografica” o
“disperazione storica”? naturalmente, alla lettera, tutto sta nel
privato; ma, se non mi illudo è “figura” di una “condizione
generale”»); nel giugno dello stesso anno, la parabola
medievalemente tripartita della sua produzione: dal tragico degli
anni Cinquanta-Sessanta all’elegiaco dei Settanta, sino al comico
inaugurato negli Ottanta, quando ormai per lui il comico è divenuta
«la sola possibile via di accesso al “tragico”», e la «forma
presente di un “tragico” razionalizzato»; a fine luglio ’86,
l’araldica «guerra al poetese» in cui fin da subito ha
riconosciuto un doveroso «sabotaggio» della letteratura; nel
febbraio 2010, la ribadita sua «vecchia e ostinata idea che alle
radici di ogni “rivolta” (in largo senso) ci stanno sempre
pulsioni anarchiche», insieme alla dimostrazione di fedeltà nel
«realismo» come «questione radicale» centrale di ogni grande e
decisiva espressione artistica.
Conferme e
puntualizzazioni che accompagnano un dialogo rigoroso e ininterrotto
tra i due amici; un dialogo che, il 27 gennaio 1991, si sofferma su
una pagina quasi lirica in cui Sanguineti, tra commozione e spavento,
ringrazia Curi del ruolo e del peso che gli ha attribuito nel libro
forse più bello ed essenziale mai scritto dal critico: Struttura
del risveglio (allora appena uscito e ripubblicato nel 2013
sempre da Mimesis). «Carissimo Fausto, mi è arrivato ieri il tuo
libro, che ho così potuto leggere senza pausa, aiutato dalla quiete
del sabato – e con quelle emozioni che puoi facilmente immaginare,
particolarmente poi, alla fine del percorso, per quel paio di pagine
conclusive, che ti e mi coinvolgono tanto». Erano pagine
effettivamente splendide, in cui veniva esposta l’opportunità,
offertagli dall’amico poeta, di scorgere la benjaminana
«costellazione del risveglio» nella «possibilità di praticare la
poesia» nella contemporaneità. E così diceva la chiusa: «Io
preferisco chiederle quello che essa mi offre, una molto pratica e
praticabile conoscenza per “battute argute e brevi” e per “parole
memorabili” di me e degli altri e del mondo in cui ci tocca vivere.
E non sono più solo e inerme, ora, nella mia preistoria». Un
riconoscimento che Sanguineti ricambia appieno nella lettera, «perché
sei, come si diceva una volta almeno, un compagno, nel significato
quasi disperato, e più forte per questa stessa disperazione, che la
parola può avere dopo Brecht, e oggi in particolare».
Ma la rilettura critica
di Sanguineti può continuare, in questi mesi, anche con un altro
libro uscito sempre da Mimesis per le cure di Luigi Weber: il
Ritratto in pubblico che raccoglie gli atti del convegno
internazionale tenutosi a Bologna nel giugno 2015. Dopo l’intervento
inaugurale proprio di Curi, che indaga la «messa in scena dei sogni»
e l’innaturalità del linguaggio onirico ostentata dal poeta nella
scrittura teatrale, si susseguono le relazioni di altri dieci
studiosi, tutte concentrate sulla dimensione performativa, teatrale e
cinematografica (o più in generale «pubblica») della produzione
sanguinetiana. Riscopriamo allora: la prolungata fascinazione del
«niente» (Lorenzini); i palinsesti cinematografici dei versi
(Annovi); la visione labirintica delle città «citate» nelle
Postkarten (Risso); l’illuministica e concreta pulsione ai
cataloghi e agli alfabeti (Bello Minciacchi); la «tentazione del
dialogo» leopardiano manifestata nei Taccuini recuperati da
Weber; il rapporto con la figura di Don Chisciotte (Vazzoler); la
preferenza «estraniante» nelle traduzioni saggiata sul Re Lear
(O’Ceallacháin); la vicinanza alle idee e alle pratiche teatrali
di Ronconi (Longhi); il senso della smisurata opera multimediale
Ritratto del Novecento (Grosso); infine una lettura in versi
di Ti attende il filo spinato… pronunciata dal dedicatario
della poesia di Purgatorio de l’Inferno, il figlio Federico.
Un libro fitto di spunti,
dunque, utile a investigare zone meno battute dell’opera grande e
sempre da tenere a mente di un «aspirante materialista storico»
oggi a rischio di rimozione.
Dal sito di “Alfabeta
2” - 2016
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